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La pace auspicabile

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Fonte: Fohla de S. Paulo 26 novembre 2009

Nello spazio di due settimane, il Brasile ha ricevuto la visita dei presidenti di Israele, dell’Autorità palestinese e dell’Iran. La presenza di tre attori chiave del conflitto che da anni imperversa nel Medio Oriente non è casuale.

I tre uomini di governo – ciascuno a proprio modo – vedono nella diplomazia brasiliana, in particolare nel presidente Lula, una possibilità, attraverso il dialogo, per una soluzione negoziata di un conflitto che oltrepassa una dimensione puramente regionale. E che minaccia la pace mondiale.

Questa è anche la percezione di molti leader mondiali.

Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, nei suoi colloqui con Lula e nella lettera che recentemente gli ha inviato, insiste sul ruolo che il Brasile può avere nella ricerca di una soluzione pacifica in Medio Oriente, includendovi in tal modo anche i suoi colloqui con il presidente iraniano, Mahmoud Ahmadinejad.

Tale visione non è compresa da chi difende una politica estera minimalista, per non dire servile; secondo tale politica estera, solo le grandi potenze dovrebbero occuparsi dei temi chiave, lasciando agli altri paesi quelli meno importanti.

Questioni come queste non potrebbero essere trattate da “cani randagi” come ha scritto Nelson Rodrigues analizzando il comportamento di certi brasiliani, vittime del complesso di inferiorità.

Quando il governo organizzò, nel 2005, il vertice América do Sul-Países Árabes, udimmo le stesse voci. Perché questo incontro? Avevano criticato nel 2003,  il viaggio di Lula in Medio Oriente, compreso quello in Libia. Le critiche ci furono anche quando Tony Blair [ex primo ministro britannico], José María Aznar [ex primo ministro spagnolo] e Silvio Berlusconi [primo ministro italiano] si recarono alcune settimane dopo a Tripoli.

Durante la crisi nella Striscia di Gaza all’inizio di quest’anno, il presidente Lula decise che il ministro degli Esteri Celso Amorim visitasse il Medio Oriente per incontrare i capi politici della regione, con lo scopo di trovare alternative. Alcuni hanno cercato di ridicolizzare la missione, caratterizzandola come una forma di megalomania. Nella regione l’impasse continua, il suo potenziale è esplosivo,la pertinenza delle nostre proposte hanno mostrato la saggezza di quella iniziativa.

Per il presidente Lula c’era  (e c’è) la necessità di “portare nuova aria” nei negoziati in Medio Oriente. L’inclusione di nuovi interlocutori potrebbe dare una comprensione cui è mancata  la credibilità

Altri paesi, come il Sud Africa, l’India e il Brasile, per citarne solo tre che non sono in possesso di seggi permanenti nel Consiglio di sicurezza, possono contribuire a realizzare ciò che finora gli interlocutori di sempre, da soli, non sono riusciti a cionseguire.

Il Brasile ha posizioni chiare. Sostiene l’esistenza di due stati, di Israele e dell’Autorità palestinese, , basata sui confini del 1967. Essa coincide con quella di Shimon Peres [presidente di Israele] e di Mahmoud Abbas [presidente dell’Autorità nazionale palestinese] sulla necessità dello scambio dei territori in cambio della di pace.

La nostra diplomazia è convinta che la stragrande maggioranza delle popolazioni colpite dal conflitto, ebrei e palestinesi, anela alla pace. Il Brasile condanna tutti coloro che si oppongono l’esistenza dello Stato di Israele. Respinge ogni forma di terrorismo. Chiede a Tel Aviv di sospendere nuovi insediamenti e la costruzione nei territori occupati e di rispettare le risoluzioni delle Nazioni Unite.

Metaforicamente, il Presidente Lula ha citato la coesistenza tra arabi ed ebrei nel nostro paese come un modello da seguire in tutto il mondo.

Chi governa un paese come il Brasile, o chi lo vuole governare, sa, o ragionevolmente dovrebbe sapere, che le questioni di politica estera, soprattutto quando si tratta di grandi problemi, come la pace nel mondo, non possono essere oggetto di opportunismo elettorale.

Il dialogo che il governo brasiliano ha avuto con le comunità arabe e israeliane, nel nostro paese e in America Latina, è trasparente e non lascia alcun dubbio sulle nostre posizioni, anche su questioni di carattere storico- come l’olocausto – come anche su quelle più recenti, altrettanto dolorose.

Questa trasparenza cristallina si differenzia dalle acque torbide di quei pescatori che lanciano le loro esche. Più per attrarre incauti elettori che per offrire valide alternative.

Marco Aurelio Garcia è consigliere speciale per la politica estera del presidente Lula.

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L’Africa nel sistema multipolare

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[Editoriale del numero 3/2009]

Il multipolarismo: uno scenario in via di consolidamento

Molteplici fattori, tra i quali principalmente: a) l’incapacità statunitense di gestire la fase post-bipolare determinatasi dopo il collasso sovietico; b) la riaffermazione della Russia operata da Putin e consolidata da Medvedev; c) la crescita economica e il peso politico di due nazioni-continente quali sono la Cina e l’India; d) lo svincolamento di alcuni importanti paesi dell’America meridionali dalla tutela di Washington, hanno posto le precondizioni per la costituzione di un sistema multipolare.
Il nuovo scenario geopolitico, dopo una prima fase di gestazione, peraltro continuamente minata da Washington, Londra e dalle oligarchie europee che politicamente fanno capo a Sarkozy ed alla Merkel, ora risulta essere in via di consolidamento, grazie alle continue attività di collaborazione che intercorrono tra Mosca, Beijing e Nuova Delhi in riferimento a grandi temi cruciali, tra cui: l’approvvigionamento e la distribuzione di risorse energetiche, la sicurezza continentale, le soluzioni in via di adozione relativamente alla crisi economico-finanziaria, il rafforzamento di alcune istituzioni a valenza multiregionale, se non continentale, come ad esempio l’organizzazione per la cooperazione di Shanghai, le realistiche prese di posizione riguardo a varie questione imposte dagli USA nel dibattito internazionale, da quella sul nucleare iraniano a quella sui diritti umani in Cina, in Russia, in Iran ed ultimamente anche in India (1). Oltre al processo di integrazione eurasiatico, occorre dire che il nuovo quadro internazionale va ulteriormente consolidandosi anche per effetto delle intese strategiche che alcuni paesi eurasiatici (Russia, Iran e Cina) hanno raggiunto con importanti nazioni sudamericane quali il Brasile, il Venezuela e l’Argentina, in campo economico ed in alcuni casi anche militare.
Alla luce delle considerazioni sopra esposte, i caratteri che contraddistinguono il nuovo quadro geopolitico sembrano essere essenzialmente due:

a) l’uno – relativo alla costituzione ed all’esistenza stessa del nuovo ordine internazionale – appare emergere dalla sinergia di intenti che animano i maggiori paesi eurasiatici e quelli dell’America indiolatina. I desiderata delle élite dirigenti di Mosca, di Beijing, di Nuova Delhi, di Teheran, e recentemente anche di Ankara (2) convergono con quelli di Brasilia, Caracas e Buenos Aires e tendono ad attualizzarsi in pratiche geopolitiche che prevedono, attraverso relazioni strategiche, il declassamento degli USA da potenza mondiale a potenza regionale. Al termine del primo decennio del presente secolo, l’Eurasia e l’America indiolatina (3) appaiono costituire i pilastri su cui poggia l’attuale sistema internazionale. Sull’integrazione interna, o meglio, sul grado di coesione interno delle due grandi masse continentali, si giocherà, molto probabilmente, nel medio e lungo periodo l’intera scommessa multipolare.
b) l’altro carattere, che a nostro avviso concernerebbe la natura del nuovo contesto geopolitico, sembra consistere nell’articolazione continentalistica con cui esso tende a manifestarsi. (4)

A fronte del consolidamento di tale nuovo scenario, occorre però tenere presente che il sistema occidentale a guida nordamericana, benché in fase declinate, o forse proprio perché in fase declinante, pare accentuare, nonostante la retorica della nuova amministrazione, la proprio indole espansionista ed aggressiva. Ciò non solo alimenterà gli attuali contrasti, ma ne genererà di ulteriori, i quali, verosimilmente, si scaricheranno nelle aree geopoliticamente e geostrategicamente più fragili. L’Africa è una di queste.

La fragilità dell’Africa e la penetrazione statunitense nell’emisfero sud

In questo quadro di riferimento, altamente gravido di tensioni giacché, come evidenziato più sopra, determinato dalla contrapposizione tra il nuovo sistema multipolare in via di accelerata definizione e quello centrato sugli USA, l’Africa stenta a trovare una sua chiara posizione, a concepirsi, cioè, come una entità geopolitica unitaria, seppur molto complessa, stante le profonde e varie disomogeneità culturali, etniche, confessionali, climatiche, economiche e sociali che l’intero continente presenta (5).
È, tuttavia, fin dal lontano 1919 (dunque in un tutt’altro contesto geopolitico, ma anch’esso in fase di transizione, vale la pena sottolinearlo), con la conferenza di Parigi, che gli Africani esprimono la necessità di unificare il proprio continente (6). Precedentemente, il movimento panafricanista, sorto negli USA e nelle Antille alla fine del XIX secolo sulla base delle idee del meticcio americano William Edward Burghardt Du Bois, cantore del movimento “pan-negro”, e del giamaicano Marcus Garvey, ideatore della parola d’ordine “ritorno all’Africa” e del cosiddetto “sionismo nero”, verteva principalmente sull’unità culturale dei popoli africani. Sul piano prettamente politico il movimento panafricanista contribuì, durante il processo di decolonizzazione, alla creazione dell’ “Organizzazione dell’unità africana”, oggi nota come “Unione africana”.
Ai giorni nostri, dopo circa un secolo di vertici e conferenze inconcludenti, dedicate all’unità (o all’integrazione) continentale (peraltro variamente intesa e teorizzata), gli ostacoli che si frappongono alla sua realizzazione sembrano risiedere nelle solite irrisolte questioni storico-politiche che comprendono, tra le altre, i classici problemi relativi alla mancanza di infrastrutture, alla frammentazione politica in stati modulati secondo il paradigma occidentale (7), all’incapacità delle classi dirigenti locali di gestire i vari tribalismi in una logica unitaria e procontinentale, o perlomeno regionale, all’eredità coloniale e, soprattutto, agli appetiti occidentali, grandemente aumentati in questi ultimi anni, in virtù della sinergica politica africana attuata dagli USA e dal suo alleato regionale, Israele (8). Una lettura veloce e superficiale degli eventi africani indurrebbe l’analista ad aggiungere agli appetiti occidentali anche quelli cinesi, russi e indiani. A tal riguardo, bisogna però osservare che gli interessi asiatici, o meglio, eurasiatici in Africa hanno una valenza particolare della quale, nel lungo periodo, ne beneficerebbe proprio l’Africa nel suo insieme, giacché ne agevolerebbe l’inserimento nel nuovo sistema multipolare, e l’ancorerebbe, pertanto, geopoliticamente, alla massa continentale eurasiatica. L’Africa, in siffatto futuro scenario, costituirebbe il terzo polo dello spazio euro-afro-asiatico.
Washington, nell’ultimo anno dell’amministrazione Bush, impantanata nei conflitti mediorientali (Iraq e Afghanistan), ostacolata dalla Russia e dalla Cina nella sua marcia di avvicinamento verso le repubbliche centroasiatiche, persa, insieme a Londra ed all’Unione Europea, la partita nella disputa russo-ucraina sul gas, uscita a testa bassa dall’avventura georgiana (agosto 2008), mal digerita l’autonomia turca sulla progettazione di South Stream (9), ha intensificato la sua politica estera nel sud del pianeta, rispettivamente nell’America meridionale e in Africa.
Nel corso del biennio 2007-2008 gli USA hanno tentano di disarticolare il BRIC (Brasile, Russia, India e Cina), il nuovo asse geoeconomico stabilitosi tra l’Eurasia e l’America indiolatina, e cercato di minare le intese volte all’integrazione sudamericana, facendo pressioni principalmente sul Brasile e sul Venezuela. È in tale strategia, che possiamo definire “strategia per il recupero del controllo dell’ex-cortile di casa”, che rientrano, ad esempio, tanto la riesumazione della Quarta Flotta, quanto episodi come quello dei moti secessionisti nella regione della mezzaluna boliviana (dipartimenti di Tarija, Beni, Pando e Santa Cruz), orchestrati, secondo diversi analisti sudamericani, tra cui il brasiliano Moniz Bandeira, proprio da Washington. Tale rinnovato interesse statunitense per il controllo dell’America meridionale, iniziato dalla precedente amministrazione repubblicana, è parimenti perseguito da quella attuale, guidata dal democratico Obama, come dimostrato da due casi emblematici: quello dell’intromissione USA nel colpo di stato in Honduras e, soprattutto, quello relativo all’istallazione di basi militari in Colombia.
Riguardo alla corrente penetrazione statunitense in Africa, essa per gli USA è un passaggio obbligato dovuto a tre ragioni principali.

Una è relativa alla questione energetica. Secondo uno studio commissionato nel 2000 dal National Intelligence Council ad alcuni esperti, gli USA si aspettano di poter usufruire per il 2015 di almeno il 25% di petrolio proveniente dall’Africa (10). La ricerca e il controllo di fonti energetiche in Africa rispondono a due esigenze considerate prioritarie da Washington e dai gruppi petrolieri che ne indirizzano e sostengono la politica energetica (11). La prima esigenza deriva ovviamente dalle strategie volte a ricercare fonti di approvvigionamento energetico, diversificate ed alternative a quelle mediorientali; la seconda, invece, riguarda la protezione del ruolo egemone, che gli USA hanno acquisito durante il scorso secolo, in riferimento al controllo ed alla distribuzione delle risorse energetiche mondiali. Tale ruolo attraversa attualmente una fase molto critica, a causa delle recenti e sinergiche politiche attuate da Russia, Cina e da alcuni paesi sudamericani nel settore energetico. L’antagonista africano degli USA è, come noto, la Cina. La Repubblica Popolare Cinese, nell’ultimo decennio ha rafforzato ed implementato le relazioni e il gettito di investimenti, in particolare in infrastrutture, nel continente africano, proseguendo peraltro una politica avviata già nel corso della Guerra fredda. La Cina non solo è interessata al petrolio africano, ma anche al gas (12) e a materiali considerati strategici per il suo sviluppo, come il carbone, il cobalto e il rame. Sul fronte energetico, un esempio, importante per le conseguenze sui rapporti tra le potenze Cina e USA, è fornito dal fondamentale apporto cinese dato al Sudan per l’esportazione del petrolio. Il Sudan, come noto, grazie all’aiuto cinese esporta petrolio fin dal 1999; ciò ha posto Khartum alle “particolari” attenzioni e cure di Washington. Recentemente (27 ottobre 2009), la Casa Bianca ha rinnovato formalmente le sanzioni economiche al Sudan per la questione dei diritti delle popolazioni del Darfur.
L’altra ragione per la quale la politica africana costituisce una delle priorità statunitensi del prossimo decennio è d’ordine geopolitico e strategico. Nel pieno dell’attuale crisi economico-finanziaria, Washington dovrebbe, in quanto grande attore globale, dirigere i propri sforzi nel mantenimento delle sue posizioni nello scacchiere globale, pena, nel migliore dei casi, un celere ridimensionamento a media potenza regionale, o, nel peggiore, un disastroso collasso, difficile da superare in tempi brevi. Invece, in linea con la tradizionale geopolitica espansionista che ne caratterizza da sempre i rapporti con le altre parti del pianeta, Washington ha scelto l’Africa quale ampio spazio di manovra, da cui rilanciare il proprio peso militare sul piano globale al fine di contendere alle potenze asiatiche il primato mondiale. In tale avventurosa iniziativa Washington coinvolgerà ovviamente l’intera Europa. La nuova politica statunitense in Africa è dovuta al fatto che gli USA trovano chiuse due delle principali vie precedentemente scelte per accedere allo spazio eurasiatico: l’Europa centrorientale e il Vicino e Medio Oriente. La prima via, dopo la ventata delle vittoriose rivoluzioni colorate che avevano attratto nello spazio geopolitico egemonizzato da Washington i paesi dell’estero vicino russo (la cosiddetta Nuova Europa), sembra per ora una strada faticosa da proseguire, giacché Mosca ha alzato il livello di guardia. Indicative, a tal proposito, le difficoltà incontrate dagli USA nella questione dello scudo spaziale. La seconda via è quella delineata, ormai da diversi anni, dalla dottrina cosiddetta del Grande Medio Oriente: controllo totale del mar Mediterraneo, eliminazione dell’Iraq, contenimento dell’Iran, occupazione militare dell’Afghanistan, penetrazione nelle repubbliche centroasiatiche. L’applicazione di questa dottrina geopolitica, tuttavia, non ha prodotto quei risultati che il Pentagono e Washington si aspettavano in tempi ragionevolmente brevi, ma al contrario si è rivelata negativa a causa del perdurante e logorante conflitto afghano e dell’irrisolta questione irachena e, soprattutto, della politica eurasiatica di Mosca, volta a recuperare prestigio e importanza nello spazio centroasiatico.
La terza ragione, infine, è d’ordine preventivo. Essa è collegata alla politica che attualmente gli USA conducono nell’emisfero meridionale del pianeta, al fine di inficiare l’asse sud-sud, faticosamente in corso di definizione tra molte nazioni africane e sudamericane. I principali capi di stato dell’America indiolatina e dell’Africa hanno recentemente riconfermato, nel settembre 2009, durante il vertice di Isla Margarita (Venezuela), la volontà di proseguire nel progetto strategico di “cooperazione sud-sud” tra Africa e America meridionale avviato nel dicembre del 2006 in Nigeria, a Abuja.
Gli strumenti di penetrazione che Washington ha adottato per controllare lo spazio africano sono di tre ordini: d’ordine militare, attraverso l’AFRICOM (13), cioè il Comando militare degli Stati Uniti per l’Africa, creato nel 2007 ed attivato l’anno successivo; d’ordine economico-finanziario (si veda il caso delle sanzioni al Sudan e l’intromissione del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale nei rapporti tra la Repubblica Democratica del Congo e la Cina) (14); ed infine uno relativo alla strategia di comunicazione di cui i discorsi di Obama, rispettivamente quelli ormai considerati “storici” del Cairo e di Accra, costituiscono un valido esempio. Sul piano militare, è importante osservare che la penetrazione statunitense pare privilegiare, quale testa di ponte per neutralizzare il Sudan e la Repubblica democratica del Congo, l’area costituita da Tanzania, Burundi, Kenya, Uganda e Ruanda. Va sottolineato che il totale controllo militare dell’Africa orientale costituisce un importante tassello nella strategia statunitense per l’egemonia dell’Oceano indiano.

Le direttrici geopolitiche dell’Africa per il XXI secolo

Nonostante le difficoltà che ostacolano oggi la sua unificazione (o integrazione) geopolitica, l’Africa, al fine di salvaguardare le proprie risorse e di mantenersi al di fuori delle dispute tra USA, Cina e, molto probabilmente, Russia e India – dispute che si risolverebbero proprio sul suo territorio – ha la necessità di organizzarsi, almeno regionalmente, lungo tre direttrici principali che fanno perno rispettivamente sul bacino mediterraneo, sull’Oceano Indiano e su quello Atlantico.
L’attivazione di politiche di cooperazione economica e strategica, almeno per quanto riguarda la sicurezza, tra i Paesi nordafricani e l’Europa, da una parte e quella analoga con l’India (a tal proposito si fa riferimento alla Dichiarazione di Delhi, stilata nel corso del Summit 2008 India-Africa) (15) dall’altra, oltre a rendere coese le regioni africane coinvolte, predisporrebbero le basi per una futura potenziale unificazione continentale articolata su poli regionali ed inserita nel un più ampio contesto euro-afro-asiatico. Parimenti, la direttrice atlantica, vale a dire il perseguimento di una cooperazione strategica sud-sud tra l’Africa e l’America indiolatina, favorirebbe, in questo caso, la coesione delle regioni dell’Africa occidentale, e concorrerebbe all’unificazione del continente. In particolare, lo sviluppo della direttrice atlantica rafforzerebbe il peso africano nei confronti dell’Asia , della Cina in primo luogo.
L’auspicabile integrazione dell’Africa – realisticamente possibile solo se strutturata su poli regionali – richiama alla mente lo sviluppo storico, antecedente il periodo coloniale, delle formazioni politiche autenticamente africane, le quali, giova ricordarlo, si sono succedute proprio su base regionale (16).

1. Relativamente all’India ed alla violazione dei diritti umani, in particolare quelli afferenti la religione, si veda l’India Chapter dell’Annual Report of the United States Commission on International Religious Freedom, (http://www.uscirf.gov/) e l’interessante articolo critico di M. V. Kamath, US must stop meddling in India’s internal problems, “The Free Press Journal”, 3 settembre 2009 (http://www.freepressjournal.in/), che denuncia la strumentalizzazione operata da Washington in riferimento ai diritti umani ed alle libertà civili per evidenti scopi geopolitici.
2. Riguardo all’erosione dei rapporti tra la Turchia guidata da Erdogan e l’Occidente, si veda Soner Cagaptay, Is Turkey Leaving the West?, www.foreignaffairs.com, 26/10/2009 ed il saggio di Morton Abramowitz e Henri J. Barkey, Turkey’s Transformers, Foreign Affairs, novembre/dicembre 2009.
3. Recentemente (17-18 ottobre 2009) i 13 paesi sudamericani aderenti all’ALBA hanno firmato il trattato costitutivo del sistema unificato di compensazione nazionale (sucre), il cui obiettivo è la sostituzione del dollaro negli scambi commerciali già a partire dal 2010.
4. Tiberio Graziani, Il tempo dei continenti e la destabilizzazione del pianeta, Eurasia. Rivista di studi geopolitici, n. 2, 2008.
5. Per una rassegna delle questioni che impediscono l’integrazione africana e sui fattori di disomogeneità si rimanda a Géopolitique de l’Afrique et du Moyen-Orient, opera coordinata da Vincent Thébault, Nathan, Paris 2006, pp.69-220. Sui fattori delle origini del cosiddetto sottosviluppo africano e sull’interpretazione del “dinamismo storico” dell’Africa, si veda Claudio Moffa, L’Africa alla periferia della storia. Conflittualità interetnica, sviluppo storico, sottosviluppo, Aracne Editrice, Roma 2006.
6. Diciannove anni prima, nel luglio del 1900, aveva avuto luogo a Londra un primo convegno panafricano, dedicato – però – all’unità degli africani ed ai loro discendenti nelle Americhe.
7. L’Africa è suddivisa in 53 stati e in due enclave spagnole (Ceuta e Melilla), cui occorre aggiungere gli autoproclamati stati di El Ayun (Sahara occidentale) e di Hargeisa (Somaliland).
8. Per la recente politica israeliana in Africa si legga: Nicolas Michel, Le grand retour de Israël en Afrique, Jeune Afrique (http://www.jeuneafrique.com ), 3/9/2009; Philippe Perdrix, F. Pompey, P.F. Naudé, Israël et l’Afrique: le business avant tout, Jeune Afrique (http://www.jeuneafrique.com ), 3/9/2009; René Naba, Israël en Afrique, à la quête d’un paradis perdu, http://www.renenaba.com/ , 10/10/2009.
9. Il 6 agosto 2009, Putin e Erdogan hanno siglato un accordo che prevede il passaggio nelle acque territoriali turche del gasdotto russo, antagonista del progetto Nabucco, sostenuto dagli USA e dall’Unione Europea.
10. Lo studio citato, Global Trends 2015. A dialogue about the Future with Nongovernment Experts, dicembre 2000, è reperibile presso il sito governativo dell’Office of the Director of National Intelligence, www.dni.gov/
11. African Oil: A Priority for U. S. National Security And African Development, Proceedings of an Institute Symposium, The Institute for Advanced Strategic and Political Studies, Research Papers in Strategy, maggio 2002, 14. Il documento è reperibile nel sito: http://www.israeleconomy.org/.
12. “Il continente africano possiede enormi riserve di gas naturale che sono stimate a 14,56 trilioni di metri cubi, ovvero il 7,9% del totale mondiale. Le riserve accertate in Nigeria ed Algeria (5,22 e 4,5 trilioni di metri cubi rispettivamente) sono inferiori a quelle di Russia (43,3 trilioni di metri cubi), Iran (29,61), Qatar (25,46), Turkmenistan (7,94), Arabia Saudita (7,57) ed Emirati Arabi Uniti (6.43), ma superiori a quelle della Norvegia (2,91), che è uno dei paesi-chiave nell’esportazione di gas. Tuttavia, i livelli di produzione e consumo di gas naturale in Africa sono abbastanza bassi. La produzione di gas nel 2008 è stata di 214,8 bilioni di metri cubi, ovvero il 7% del totale mondiale (un incremento di 4,85 rispetto al 2007). Il Sudamerica è stato l’unico continente a produrre meno gas naturale nel medesimo anno. Il consumo di gas naturale nel 2008 in Africa è stato di 94,9 bilioni di metri cubi ovvero il 3,1% del totale mondiale (un 6,1% di crescita rispetto al 2007), che è il livello più basso su scala mondiale. Oltre il 50% del gas naturale prodotto in Africa – 115,6 bilioni di metri cubi – viene esportato, per lo più come gas naturale liquefatto (62,18 bilioni di metri cubi). La quota dei paesi africani (Algeria, Nigeria, Egitto, Libia, Guinea Equatoriale e Mozambico) nella fornitura globale di gas è del 14,2%, ma lo stesso livello di gas naturale liquefatto è molto più alto – 27,5%.”, Roman Tomberg, Le prospettive di Gazprom in Africa, www.eurasia-rivista.org, 16 ottobre 2009.
13. Il processo di militarizzazione dell’Africa da parte di Washington si è ultimamente intensificato. A tal proposito si legga Kevin J. Kelley, Uganda: grande esercitazione militare degli USA nella regione settentrionale, www.eurasia-rivista.org, 14 ottobre 2009.
14. Renaud Viviene et alii, L’ipocrita ingerenza del FMI e della Banca mondiale nella Repubblica democratica del Congo, www.eurasia-rivista.org , 19 ottobre 2009.
15. Il testo della Delhi Declaration è reperibili nel sito: http://www.africa-union.org.
16. A proposito del carattere “regionalista” dell’Africa, osserva l’africanista francese Bernard Lugan nell’introduzione alla sua ponderosa Histoire de l’Afrique, Ellipses, Parigi 2009, p.3.: « Le longue déroule de l’histoire du continent africain est rythmé par plusieurs mutations ou rupture qui se produisirent selon une périodisation différente de celle de l’histoire européenne. De plus, alors qu’en Europe les grand phénomènes historiques ou civilisationnels furent continentaux, dans les Afriques, ils eurent des conséquences régionales, sauf dans le cas de la colonisation ».

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“Venti anni dopo. 1989-2009”: il 3-4 dicembre a Modena

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Stefano Vernole (redattore di “Eurasia” ed autore de La lotta per il Kosovo e La questione serba e la crisi del Kosovo) sarà tra i relatori del convegno di studi “Venti anni dopo. 1989-2009”, che si terrà giovedì 3 e venerdì 4 dicembre 2009 a Modena, presso l’Aula Magna del Rettorato all’Università di Modena e Reggio Emilia, in Via Università 4. L’evento è organizzato dall’Istituto Storico di Modena in collaborazione col Dipartimento di Scienze del linguaggio e della cultura dell’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, l’Assemblea Legislativa della Regione Emilia-Romagna e la Fondazione Cassa di Risparmio di Modena, ed il patrocinio della Provincia di Modena e del Comune di Modena.
Il nostro redattore Stefano Vernole prenderà parte alla Seconda sessione, prevista per giovedì 3 dicembre alle ore 14.30-18.30, trattando nel suo intervento de “Il caso Kosovo e i suoi contesti”.

Vedi la brochure col programma completo

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“A 20 anni dalla caduta del Muro”: il 5 dicembre a Modena

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Sabato 5 dicembre 2009 alle ore 16 si terrà a Modena, presso la Sala Gradoni di Via Cialdini 4, l’incontro-dibattito “A vent’anni dalla caduta del Muro di Berlino: un bilancio dell’assetto globale”.
Interverranno: Andrea Panaccione (docente di Storia dell’Europa presso le Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia) e Alain de Benoist (filoso e scrittore, direttore delle riviste “Krisis” e “Nouvelle Ecole”).
L’organizzazione è a cura dell’associazione culturale “Pensieri in Azione”, col patrocinio della Circoscrizione Centro Storico del Comune di Modena. L’evento rientra nel Ciclo 2009-2010 dei Seminari di Eurasia.

Vedi volantino

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Aymeric Chauprade: “L’arrivo al potere di Putin è un evento più importante, nelle relazioni internazionali, dell’11 settembre”

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Fonte: “Le Courrier de Russie”, 27 novembre 2009

Aymeric Chauprade ha insegnato geopolitica per 10 anni presso il Collegio interarma di difesa. E’ l’autore del grande trattato Géopolitique: Constantes et changements dans l’histoire, diventato rapidamente un manuale di riferimento. Il suo recente atlante di geopolitica del mondo ‘Chronique du choc des civilisations’, tuttavia, ha innescato una polemica che ha portato al suo licenziamento, richiesto dal ministro della Difesa.

Si scopre che Chauprade difende e rappresenta una disciplina scientifica che tiene conto del “fattore culturale“, e quindi la rappresentazione che i popoli fanno di se stessi e degli altri nella storia. A questo titolo, ha consacrato all’11 settembre un capitolo con il quale ha voluto “dimostrare che lo scontro delle civiltà, è soprattutto il fatto che una immensa parte dell’umanità, al di fuori del mondo occidentale, non crede alla versione ufficiale della versione data dal governo degli Stati Uniti, e che divenne la versione obbligatoria dei media occidentali.” Ma il distacco scientifico non è appropriato per tutte le materie.

Le Courrier de Russie: Nell’intervista sulla Russia che avete fatto di recente alla NRH*, proponete un’interpretazione in cui, la strategia di Putin – e di Medvedev oggi – è tanto chiara quanto determinata. La sua politica in materia di energia non è solo “economica“, è al centro di un piano strategico assai preciso. Nella stessa intervista, avete anche detto che è la reazione della Russia a una certa sensazione di accerchiamento, una politica degli Stati Uniti che determina in ultima analisi il dato a priori, i giocatori più deboli si difendono con i mezzi a loro disposizione.

Aymeric Chauprade: Questo non è in opposizione, ma il contrario. La Russia viveva sentendosi sotto assedio dalla geopolitica degli Stati Uniti, prima dell’arrivo di Putin, e lo era. Gli Stati Uniti e i loro alleati avanzavano verso la periferia, nei pressi dell’estero vicino della Russia. Si disse che essa doveva riconquistare il contestato suo status di potenza regionale, e anche quello di potenza internazionale. Ma lei non aveva che una carta da giocare, sulla scena internazionale: le risorse energetiche. Questa è la leva principale che venne trovata. In quanto geopolitico, credo che gli Stati hanno un’economia che è parte della loro potenza, e vedo il momento in cui l’economia rientra nella loro strategia di potenza. Questo è in genere ciò che accade oggi, in Russia, con il settore energetico.

L’altra componente è parte integrante di questa strategia: è il modo per poter respingere l’avanzata degli Stati Uniti tramite le rivoluzioni colorate, con cui gli Stati Uniti sono impegnati a fare aderire alla NATO e al campo statunitense, una dopo l’altra, le altre repubbliche della ex Unione sovietica, e ad estendere il blocco transatlantico fino ai confini di Russia e Cina.

LCDR: Che cosa possiamo dire, da questo punto di vista, del caso degli Stati Uniti con i loro sistemi finanziari, nel contesto della crisi globale?

AC: Gli Stati Uniti hanno ora due armi per destabilizzare le nuove potenze emergenti: la loro presenza militare nel mondo, e la finanza, che è inodore e neutra. Penso che la crisi non rifletta la malattia generale di un sistema o della sovrapproduzione di beni prodotti derivati. Questi mali esistono, ma le strategie di destabilizzazione, soprattutto della Russia e della Cina, interferiscono nella finanza e la dirigono, rendendola un’arma al servizio dei progetti degli Stati Uniti.

LCDR: Che volete dire, quando, a proposito degli Stati Uniti e della Russia, voi opponete unipolarismo a multipolarismo? Comprende il concetto di pluralità centri di centri di decisione strategica, relazioni di potenza nel controllo delle risorse energetiche, ecc. Ma ci si può anche chiedere, se il multipolarismo non presume l’esistenza di una pluralità di tipi di organizzazioni sociali. La Russia è davvero un modello alternativo rispetto agli Stati Uniti?

AC: Si deve tornare alle parole: polo singolo o pali multipli. L’unipolarismo, è il modello e la proposta degli Stati Uniti dai tempi dei padri fondatori del Mayflower. Si tratta di un progetto messianico, nel senso che mira a trasformare il mondo a immagine della nazione americana. Vede se stessa come una società leader, ideale per le libertà fondamentali. Se questa nazione cerca di massimizzare la sua ricchezza a livello internazionale, è per ragioni connesse al protestantesimo e all’idea del successo mondano, materiale, come prova dell’elezione divina.

Il multipolarismo è un’altra visione del mondo, un mondo di nazioni e civiltà che hanno il diritto di difendere la propria specificità. Coloro che credono a questa forma di organizzazione del mondo pensano che ci saranno meno conflitti, se i poli di potenza si equilibrano tra loro, mentre la supremazia del potere sugli altri creerebbe un’instabilità permanente.

In realtà, non bisogna considerare gli Stati Uniti come una nazione nel senso classico. E’ un attore statuale, ma anche una rete di reti, un attore trans-statuale. Il sociologo americano Lipset ha scritto: “L’America non è solo una nazione, è una ideologia“. I cinesi non hanno queste reti, e neanche i russi l’hanno dal crollo dell’Unione Sovietica. La Russia è ridiventata una nazione-stato convenzionale, senza un’ideologia esportabile. L’unipolarismo e il multipolarismo, quindi, sono anche due realtà in tempi diversi. Il mondo del 1990, con il crollo dell’URSS e l’estensione del WTO, sembrava muoversi verso il primo. Oggi, torniamo a una realtà multipolare, con la Cina e la Russia. E in questo passaggio, desidero sottolineare il ruolo di Putin ed ho detto che il suo arrivo al potere è un evento importante per le relazioni internazionali, come l’11 settembre. Pensava alla potenza della Russia basata sulla strategia energetica, con l’obiettivo di riprendere il controllo delle risorse, il recupero di un certo numero di oligarchi, per servirsene nella ricostruzione della potenza russa, con leve come Gazprom per il gas e Rosneft per il petrolio.

LCDR: Questo è ciò che voi spiegate nell’intervista cui abbiamo già accennato. Può farci un esempio?

AC: Sì, lo smantellamento di Yukos segue un piano di ricostruzione metodica: prendere fisicamente in mano il controllo delle risorse, con due grandi operatori, e garantire che le esportazioni in molteplici direzioni, siano bilanciate tra di loro. Non tutto deve andare negli Stati Uniti, contrariamente a quanto pensava Khodorkovsky. La Russia deve diventare fondamentale per i cittadini europei, ma anche per gli asiatici. Questo è il motivo per cui il gas è ora, in parte, reindirizzato verso l’Asia.

LCDR: Molte persone, nella stessa Russia, dubitano della praticabilità di questa politica energetica a lungo termine, e hanno criticato l’attuale focalizzazione di tutte le risorse disponibili in un solo settore. Torniamo qui all’economia, il successo economico è più, quindi, l’attestazione fisica della realizzazione di un progetto egemonico, ma il semplice sostrato su cui poggiare una potenza.

AC: La Russia è un po’ oltre il 7% delle riserve accertate di petrolio e di oltre un terzo delle riserve di gas provate. Si tratta di una riserva di lunga durata, ed è un paese che ha il carbone come gli Stati Uniti e la Cina. Probabilmente c’è ancora un grande potenziale per il petrolio, perché è un paese che non è stato sondato, al contrario dell’Arabia Saudita. Si tratta di un fattore la cui importanza è evidente: se si punta su questo settore, si avrà un’utilità assai forte nel mondo e si otterrà ricchezza. Non sono sicuro che coloro che criticano la scelta del solo energia abbiano ragione. E’ solo il primo passo di una strategia di reindirizzo politico.

LCDR: Un secondo problema si pone, quella della fluttuazione dei prezzi del petrolio di cui la Russia è cronicamente dipendente. Ha fatto, oggi, in modo di operare qualche controllo sul mercato del petrolio?

AC: Gli statunitensi hanno, in ogni caso, dei mezzi per impostare il tono in questo mercato. Oggi c’è l’asse di contrappeso al petrolio degli Stati Uniti e dei suoi alleati, Arabia Saudita in testa, che si è andato formando: Venezuela, Kazakhstan, Iran, Russia. L’Iran detiene la seconda riserva mondiale di gas e petrolio. Iran, Russia e Venezuela hanno deciso di smettere di vendere petrolio in dollari e quindi di indebolire lo status del dollaro come valuta internazionale. Questa logica, secondo cui il petrolio dovrebbe essere venduto in diverse valute (il rublo, lo yuan, ecc.) è adottata da un numero crescente di paesi. Si tocca il cuore della potenza statunitense: la centralità del dollaro come valuta internazionale, che gli Stati Uniti hanno mantenuto attraverso l’invenzione dei petrodollari. Mi sembra che siamo ancora nel multipolarismo, e in questo caso è il multipolarismo monetario ad essere all’ordine del giorno. Dal 2006 è successo un sacco di cose. Non si tratta solo della borsa di Kish, creata dall’Iran per vendere prodotti energetici in tutte le valute, ad eccezione del dollaro. Ci fu, nel 2007 e 2008, tutta una serie di incontri tra i diversi paesi che hanno accettato, compresi i paesi dell’OPEC, tranne l’Arabia Saudita, l’idea del multipolarismo monetario.

LCDR: Per quanto riguarda la valutazione della possibilità di riuscita di questa strategia russa, è lecito chiedersi del rischio di cadere in un modello economico di rendita, del tipo del Venezuela.

AC: Io penso che ci sia un grande differenza tra la Russia e l’Iran, che si concentra al 100% sui profitti del petrolio e del gas, senza altra visione che l’energia perduri. La prova è che gli iraniani vogliono sviluppare l’energia nucleare per produrre l’energia elettrica, e poter riservare i petrolio esclusivamente all’esportazione. In Russia, vi è un vero stato in grado di sviluppare una strategia, e penso che l’interdipendenza energetica porterà ad altri tipi di flussi economici. Quando un canale esiste, ed un primo prodotto passa, altri possono passare attraverso lo stesso percorso, come dimostra la storia.

LCDR: Tornando, per concludere, alla questione del modello economico, vale a dire anche sociale. Il multipolarismo può essere definita in modo diverso dalla sua opposizione all’unipolarismo?

AC: Nel multipolarismo, ogni paese inventa il proprio rapporto tra l’economia e lo stato. Gli occidentali spesso si offendono per certi tipi di interventi pubblici, nei paesi che desiderano infiltrare. Tuttavia, dobbiamo accettare quello che è per me una differenza culturale e, soprattutto, il fatto che lo Stato abbia un ruolo più forte da giocare in alcuni paesi, rispetto ad altri. Il rapporto della Cina alla proprietà individuale non è certamente la stessa cosa che nel mondo occidentale. Dovreste sapere, se si investe in Cina, che la proprietà è fragile. In qualsiasi momento, lo Stato può annullare la proprietà privata se ritiene che il bene comune dell’impero lo richiede.

Questo è il problema del pensiero liberale: esso presuppone che tutto dovrebbe funzionare allo stesso modo, in tutto il mondo. Tuttavia, ci saranno sempre più interdipendenze, ma tra i sistemi politico-economici. La globalizzazione ben ordinata, è innanzitutto accettare il fatto che il ruolo dello Stato in Cina e in Russia, non è lo stesso del mondo occidentale. Il principio di base è il rispetto per le differenze tra i modelli politici, i diritti economici e sociali delle nazioni.

La géopolitique de la Russie», in La Nouvelle Revue d’Histoire n° 38, sept.-oct. 2008.

Per approfondire:

Géopolitique: Constantes et changements dans l’histoire (Ellipses, 3e édition, 2007)

Géopolitique de l’énergie (Document PDF) –

http://www.societede-strategie.asso.fr/pdf/ca01txt2.pdf

Traduzione di Alessandro Lattanzio

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Primi due appuntamenti del Master Enrico Mattei in Vicino e Medio Oriente

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Il master Enrico Mattei in Vicino e Medio Oriente torna all’Università di Teramo, dopo due edizioni “romane” sotto l’egida dello IEMASVO.

Si comincia il 17 e 18 dicembre con due appuntamenti.

Giovedì 17 dicembre

C’ERA UNA VOLTA
L’ITALIA DI MATTEI:
i documentari ENI
degli ‘50 e ‘60

presentati e commentati da
prof. Claudio Moffa e prof. Mauro Rosati di Monteprandone

I documentari e i cinegiornali sono ormai una fonte riconosciuta di conoscenza storica: ma sono anche un materiale visivamente godibile, perché alle generazioni più anziane fanno ricordare “come eravamo” e a quelle più giovani trasmettono le immagini dell’Italia dei loro nonni e padri. Filmati spesso brevi ma di amplissimo respiro, in bianco e nero ma pieni del colore della vita, della politica e dei costumi italiani degli anni Cinquanta e Sessanta. Un tuffo nel passato di un paese uscito semidistrutto dalla guerra, ancora immerso in una antica cultura contadina e impegnato verso la rinascita economica e lo sviluppo industriale: quel “boom” di cui Enrico Mattei fu uno dei protagonisti principali – se non addirittura l’artefice, grazie alla metanizzazione dell’apparato produttivo e della stessa economia domestica – e fatto di 500 fiat, di nuovi elettrodomestici, delle bombole a gas che raggiungevano i più sperduti villaggi di montagna, di gasdotti e oleodotti che si diffondevano dal Nord al Sud in una rete che faceva concorrenza a quella delle prime grandi autostrade. Un modo di studiare la storia, divertendosi.

9, 30 – Saluti

prof. Francesco Bonini
Direttore del Dipartimento di Storia e Critica della Politica
9,45 –Proiezioni: una selezione da

L’ITALIA CHE DECOLLA
Le vie del metano (1952) di Ubaldo Magnaghi – Ricerche del metano e del petrolio (1953) – Pozzo 18 profondità (1955) di Alessandro Blasetti – Prigionieri del sottosuolo (1956) – I gas liquidi al servizio del progresso (1960) – Gela 1959: pozzi a mare (1960) di Franco Dodi – L’isola del petrolio (1962) – Il gigante di Gela (1964) – Gela antica e nuova (1964)

IL “MINISTRO DEGLI ESTERI” ENRICO MATTEI
Viaggio del Presidente Gronchi i n Iran (1957) – Sulle vie dell’oro nero (1958) – Le opere e i giorni (1958) – Questioni d’oggi: il Marocco (1960) di Franco Dodi – Oro nero sul Mar Rosso (1962)

ENRICO MATTEI IL PRECURSORE: IL PROGETTO NUCLEARE
Latina: dall’uranio all’energia (1964) – Taccuino di una centrale (1964)

LA MEMORIA PER LE NUOVE GENERAZIONI
Ricordo di Enrico Mattei (1968 ) di Sergio Zavoli

CINEGIORNALI
Cinegiornali (1958 e 1961)


Venerdì 18 dicembre

L’ISLAM, GLI ISLAM

9, 30 – Saluti
prof. Rita Tranquilli Leali

Magnifico Rettore

prof. Adolfo Pepe
Preside di Scienze Politiche

10,00 – Prolusione

Europa, Islam, Occidente
Due realtà storiche complementari, un’ipotizzabile
identità comune e un fantasma ideologico antagonista

prof. Franco Cardini
Università di Firenze


11,00 – Relazioni

Le prospettive della democrazia nel mondo islamico
I sistemi istituzionali dei paesi islamici fra mito e realtà

prof. Massimo Campanini
Università L’Orientale di Napoli


Geopolitica dei movimenti islamici

Fattori geografici, diritto internazionale, alleanze: un’analisi delle organizzazioni della resistenza islamica

prof. Claudio Moffa
Università di Teramo


Diversità e Unità dell’Ummah
Sunniti e sciiti: un’analisi storico-sociologica delle due principali articolazioni della religione islamica

prof. Anna Vanzan
Università IULM di Milano

Coordina

prof. Mauro Rosati di Monteprandone
Università di Teramo

Aula Tesi della Facoltà di Scienze Politiche

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Fabrizio Di Ernesto, Portaerei Italia

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Fabrizio Di Ernesto
Portaerei Italia
Sessant’anni di NATO nel nostro Paese

Fuoco Edizioni, 2009
Pagine 120,
ISBN 9-788890-375293

Il libro
Formalmente l’Italia è uno Stato indipendente e sovrano che ripudia la guerra. Forma e sostanza, però spesso non coincidono tra loro; come può infatti essere considerato sovrano un Paese che all’interno dei suoi confini ha concesso oltre cento installazioni militari ad una nazione straniera, gli Usa, che qui ha portato migliaia di propri uomini armati di tutto punto? Da queste basi nel corso degli anni, inoltre sono spesso partite azioni militari contro altre nazioni, guerre mascherate da operazioni di pace o perfino da interventi umanitari che hanno spesso visto i nostri uomini in prima fila per via di patti di mutuo soccorso sottoscritti decenni prima quando il Mondo era molto diverso da quello attuale. All’interno di questi presidii poi, spesso sono state collocati, in alcuni casi vi si trovano ancora, ordigni nucleari, e ciò, nonostante Roma abbia sottoscritto il trattato di non proliferazione nucleare e quindi non potrebbe detenerli.
L’Italia non è diventata la Portaerei Nato del Mediterraneo dall’oggi al domani, è una storia che si protrae dal 1945, questo volume ne ripercorre le tappe, svelando anche interessanti retroscena.

L’autore
Fabrizio Di Ernesto, giornalista, saggista, esperto di relazioni internazionali, è redattore del quotidiano Rinascita.

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La dottrina militare della Russia: le armi nucleari come maggior argomento rilevante nella deterrenza strategica

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Fonte: Fondsk – Strategic Culture Foundation 26.11.2009

Il Segretario del Consiglio di Sicurezza della Russia, Nikolaj Patrushev, ha detto che la Russia presto svelerà il suo progetto di dottrina militare e lo sottoporrà al Presidente, per l’esame, entro la fine del corrente anno. La dichiarazione prova che la Russia è finalmente vicina ad avere la sua dottrina militare, che definirà tutte le minacce che il paese si trova ad affrontare oggi, e il modo di neutralizzarle.

La dottrina militare è stata considerata dai suoi autori (uno gruppo di lavoro inter-agenzie, coinvolge funzionari dello Stato, membri del Parlamento e del Consiglio della Federazione, plenipotenziari del Presidente, accademici, esperti e personaggi pubblici) come un insieme di documenti essenziali, che definiscono il meccanismo comune di garanzia per la sicurezza nazionale.

Nel maggio 2009 Dmitrij Medvedev ha approvato un documento nuovo di zecca, la Strategia di Sicurezza Nazionale della Russia per il 2020. Tra le principali priorità strategiche nazionali, assieme alla sicurezza pubblica e dello stato, viene menzionato il concetto di difesa nazionale, i suoi obiettivi da conseguire soprattutto attraverso l’uso della forza. Citazione: “la sicurezza militare è garantita attraverso lo sviluppo del sistema militare e il potenziale di difesa dello stato, e anche attraverso la ripartizione delle risorse finanziarie sufficienti, e di altre risorse, per l’attuazione di questi obiettivi“. Pertanto, la logica della strategia di sicurezza nazionale richiede una dettagliata analisi di tutta la gamma di questioni connesse con la sicurezza militare, dopo tutto, questo è ciò che definisce il nucleo della dottrina militare.

Questa dottrina non è qualcosa di nuovo per la Russia moderna. Questo documento è stato svelato, la prima volta, nel 1993. I suoi autori insisterono sul fatto che un qualsiasi tipo di conflitti bellico che coinvolga l’esercito russo, sarebbe inammissibile, come hanno dimostrato in pieno le illusioni del regime Eltsin. Il Cremino, in seguito, ha dovuto imparare due amare lezioni: le due campagne cecene e la guerra della NATO contro la Jugoslavia. La versione più recente della dottrina militare della Russia, è stata pubblicata nel 2000. Essa si basa sulla probabilità di grandi conflitti su vasta scala e guerre cui la Russia potrebbe essere coinvolta, permettendo anche l’uso di armi nucleari per respingere l’aggressione di un nemico che utilizza armi convenzionali in una guerra su larga scala.

Indubbiamente, questa è una visione più realistica. Tuttavia, alcuni svantaggi diventarono evidenti con il tempo. Ad esempio, questa versione della dottrina si concentra principalmente sui temi della sicurezza militare, puntando sulle minacce militari e le modalità per contrastarle con la forza. Ma dobbiamo essere consapevoli del fatto che, a seguito di cambiamenti radicali, apparvero anche minacce tali che possono essere attuate attraverso mezzi non militari. Quindi, la sicurezza militare deve essere garantita non solo da parte dell’esercito, ma anche attraverso l’utilizzo di risorse economiche, diplomatiche ed altre.

La dottrina più recente si differenzia dalle sue versioni precedenti. Si parla di queste minacce esterne e interne, che non erano state prese in considerazione prima, tra cui anche una guerra per le risorse energetiche, la proliferazione delle armi di distruzione di massa, il terrorismo internazionale, le rivendicazioni territoriali, i conflitti etnici e il separatismo. La nuova dottrina presta attenzione anche al l’utilizzo di armi ad alta precisione, aerei senza pilota, veicoli autonomi subacquei, sistema biocybernetico, ecc.

La prevenzione di eventuali conflitti militari, è proclamata una delle massime priorità per la Russia. Allo stesso tempo, si afferma che la Russia considera legittimo l’uso della forza per respingere un’aggressione, per proteggere i propri alleati, prendere parte alle operazioni di mantenimento della pace, sancite dal Consiglio di sicurezza dell’ONU e da altre organizzazioni che si occupano di sicurezza collettiva. La dottrina cita anche gli emendamenti apportati, nel mese di ottobre, alla legge sulla difesa, che prevedono l’uso della forza militare all’estero.

Ciò che è particolarmente importante per la nuova dottrina militare della Russia, è che permette di usare armi nucleari per respingere l’aggressione di un nemico, anche se questo utilizza armi convenzionali per una guerra su larga scala. Se la sicurezza nazionale si trova ad affrontare una grave minaccia, la Russia non esclude la possibilità di un attacco nucleare, anche preventivo, contro un aggressione, sia in una guerra regionale, sia in una guerra a grande scala. In realtà, vediamo che la Russia ha abbassato la soglia della deterrenza nucleare.

Così, strategia nucleare della Russia inizia a somigliare sempre più a quella degli Stati Uniti. Suggerirei, perfino, che le modifiche di cui sopra alla dottrina sono prima di tutto rivolte contro Washington, dopo che essa aveva fatto qualche passo per spingere Mosca a ridurre il proprio arsenale nucleare, e allo stesso tempo assicurarsi la sua superiorità strategica con l’aiuto di armi ad alta precisione, tra cui i missili da crociera navali. In altre parole, gli Stati Uniti hanno cercato di indebolire la capacità di deterrenza strategica della Russia.

Così, in vista della fase finale dei colloqui Russia-USA sul nuovo trattato START, Mosca dimostra di non aver intenzione di respingere le armi nucleari quali uno dei più importanti mezzi di deterrenza strategica. Ecco perché il Consiglio di Sicurezza della Russia ha fatto ogni sforzo per completare il lavoro sulla nuova dottrina militare, fin dal momento in cui il nuovo trattato START è stato ratificato.

Traduzione di Alessandro Lattanzio
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11 settembre: il volo 77 non poteva essere dirottato

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Fonte: Voltairenet 29 novembre 2009

Secondo la relazione della Commissione Presidenziale Kean-Hamilton, il volo 77 sarebbe stato dirottato dai pirati dell’aria, l’11 Settembre 2001, e si sarebbe schiantato contro il Pentagono.

La relazione afferma che il dirottamento ha avuto luogo tra le 8:51 (ora dell’ultimo contatto radio) e le 8:54 (momento in cui l’aereo cambiò rotta) e che essendo stato spento il transponder, si persero le tracce del velivolo alle 8:56. Fu solo alle 9:32 che l’aviazione civile notò un aereo presso Washington, che fu identificato per deduzione come il volo AA77.

Il rapporto precisa, inoltre, che due dei passeggeri, Renee May e la giornalista Barbara Olson avrebbero riferito per telefono, ai parenti, che vi erano sei dirottatori (non cinque) armati di taglierini. Secondo la testimonianza di Ted Olson, procuratore generale degli Stati Uniti, sua moglie avrebbe detto che i passeggeri e l’equipaggio erano stati raggruppati nella parte posteriore del Boeing, e gli avrebbe domandato quali fossero le istruzioni che doveva trasmettere al capitano con cui lei si trovava.

Le testimonianze dei passeggeri sono già state invalidate dall’inchiesta dell’Fbi, durante le udienze del processo a Moussaoui. In quella occasione, si è stabilito che non era possibile comunicare per via  telefonica a quella quota di volo e, inoltre, non vi è alcuna traccia di tali comunicazioni nelle trascrizioni delle società telefoniche.

Documenti del National Transportation Safety Board (NTSB), recentemente declassificati su richiesta dell’associazione “Pilot for 9/11 Truth (http://pilotsfor911truth.org/)”, mostrano la registrazione del parametro “CI”, intitolato “Flight Deck Door. Ciò dimostra che la porta della cabina di guida era rimasta chiusa. Era dunque impossibile sia entrare nella cabina dei piloti e farli uscire durante il volo.

In queste condizioni, solo il comandante Charles F. Burlingame e il copilota David Charlebois erano nella cabina di volo quando l’aereo fu dirottato.

Il comandante Charles F. Burlingame era un ex pilota di caccia della Navy. Era stato il portavoce del Pentagono durante l’operazione Desert Storm. È stato anche responsabile di una simulazione riguardante il possibile crash di un aereo di linea contro il Pentagono. In virtù di una legge ad hoc, i suoi resti sono stati sepolti nel prestigioso cimitero militare di Arlington, anche se è considerato morto da civile.

Sua sorella, Debra Burlingame, è co-presidente con Liz Cheney (figlia del Vice Presidente Dick Ceney) dell’associazione Keep Safe America (http://www.voltairenet.org/article162521.html).

Traduzione di Alessandro Lattanzio
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L’India si aspetta che gli Usa aboliscano le sanzioni sul trasferimento di tecnologia

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AFP 25 novembre 2009 – L’India ha detto che si aspetta che gli Stati Uniti aboliscano le “significative” restrizioni sul trasferimento di tecnologie statunitensi al gigante asiatico, dopo i colloqui tra i leader delle due nazioni. Il Presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, e il primo ministro indiano, Manmohan Singh, concordavano, dopo colloqui a Washington, che “intensificare gli scambi commerciali di alta tecnologia tra i loro paesi, è nello spirito del dialogo e del partenariato strategico“. Il consigliere economico di Singh, Montek Singh Ahluwalia, ha detto che sul fronte economico, “l’azione principale” che gli Stati Uniti devono prendere per far progredire la collaborazione è “la rimozione dei controlli sui trasferimenti di tecnologia”. Ha detto che il governo degli Stati Uniti avevano assicurato l’India che una revisione ad “alto livello” delle limitazioni alla tecnologia, erano in corso, quattro anni dopo che i due paesi avevano firmato l’accordo quadro sul nucleare civile. “Siamo molto fiduciosi che, a seguito di tale esame, vi sia un significativo allentamento dei controlli sulla tecnologia”, ha detto Ahluwalia, parlando a un forum del Peterson Institute for International Economics di Washington.

I controlli sono stati parte delle sanzioni economiche imposte all’India nel 1998, dopo che aveva condotto una serie di test nucleari. Essi vietano alle imprese americane di esportare beni e servizi a vari enti indiani, senza aver prima ottenuto una licenza di esportazione. Tuttavia, i rapporti tra i due paesi sono migliorati in modo significativo negli ultimi anni. Hanno firmato un patto nel 2005 per l’esportazione di tecnologia nucleare degli Stati Uniti all’India, ma l’attuazione è stata rinviata, in quanto i due paesi devono elaborare le complesse normative internazionali che regolano tali scambi. “Molte delle nostre aziende incontrano ancora ostacoli sulla questione del trasferimento di tecnologia”, ha detto Ahluwalia, vice presidente della commissione della pianificazione del governo indiano. Ha detto che anche nei circoli degli Stati Uniti, “tali restrizioni non promuovono, effettivamente, la realizzare di un qualsiasi tipo di sicurezza“. Obama e Singh avevano detto, in una dichiarazione congiunta, che mentre si è convenuto che il rafforzamento degli scambi di alta tecnologia è in linea con il nuovo spirito di collaborazione, “un impegno condiviso per la sicurezza della tecnologia” è critico. Singh ha detto che l’abolizione dei controlli sulle esportazioni dagli Stati Uniti dell’alta tecnologia all’India “apre grandi opportunità per la ricerca e lo sviluppo. Consentirà alle imprese statunitensi di beneficiare della rapida trasformazione economica e tecnologica che è attualmente in corso nel nostro paese“, ha detto.

Sull’accordo sul nucleare civile, che è stato siglato durante l’amministrazione di George W. Bush, Ahluwalia ha detto, “ci sono due o tre cose che sono da fare, per renderlo pienamente operativo dal punto di vista degli Stati Uniti.” Una componente essenziale della transazione, che dovrebbe portare 150 miliardi di dollari alle imprese, soprattutto per quelle statunitensi, è la firma di un accordo sul ritrattamento del combustibile nucleare. I due paesi “continuano a negoziare accordi e procedure di ritrattamento“, ha detto il Dipartimento di Stato Usa.

Citando i colloqui tra Obama e Singh, il dipartimento ha detto che “gli Stati Uniti sono fiduciosi che le modalità e le procedure saranno definite con largo anticipo, rispetto alla scadenza dell’agosto 2010.” Obama ha ribadito a Singh l’”impegno della sua amministrazione ad attuare pienamente l’accordo nucleare”, fugando ogni dubbio che ci possa essere minore impegno, da parte della sua amministrazione, nel concludere l’accordo. Funzionari indiani hanno detto anche di non vedere alcun problema fondamentale, per il loro parlamento, ad approvare una normativa efficace che limita le responsabilità dei fornitori in caso di incidente nucleare.

Traduzione di Alessandro Lattanzio
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Il presidente del Pakistan cede il controllo sull’arsenale nucleare

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AFP 28 novembre 2009 – Il presidente Asif Ali Zardari ha ceduto il controllo dell’arsenale nucleare del Pakistan, nel tentativo di respingere le pressioni che minacciano di indebolire il suo potere e complicare ulteriormente la guerra contro i taliban. Zardari ha preso la decisione con una amnistia che protegge lui e i collaboratori chiave dai casi di corruzione decaduti, e che rischiano di gettare il paese nella crisi politica, mentre si lotta per contenere l’insurrezione dei taliban nel nord-ovest. La Presidenza ha annunciato che il controllo del National Command Authority, che gli analisti hanno confermato essere responsabile per le armi nucleari, ora è stato assegnato al primo ministro Yousuf Raza Gilani.

Il presidente mi ha consegnato il suo potere per quanto riguarda il comando nazionale e l’autorità di controllo ed ha emesso un’ordinanza,” ha detto Gilani ai giornalisti.

Islamabad all’inizio di questo mese ha respinto una relazione nella rivista The New Yorker, che ha sollevato dei timori sul sequestro, da parte dei militanti islamisti, delle armi nucleari del Pakistan, e ha suggerito che gli Stati Uniti dessero una mano per proteggere l’arsenale. Gli analisti dicono che Zardari può solo sperare di sopravvivere all’impopolarità crescente all’interno del suo partito, e un rapporto ha riferito di tensioni con l’esercito, per aver fatto la promessa elettorale di devolvere maggiori poteri al Parlamento. Il predecessore di Zardari, Pervez Musharraf, manteneva lo stato di emergenza nel 2007, con l’introduzione dell’emendamento 17 alla Costituzione, che conferisce al Presidente il potere di sciogliere il parlamento e il licenziamento del primo ministro. “Stiamo andando nella giusta direzione. Non vi è alcun pericolo per la democrazia e per l’attuale governo“, ha detto Gilani, membro del Partito del popolo pakistano (PPP), ma che si ritiene goda di relazioni più strette con i militari. “Lui crede nell’equilibrio di potere tra la presidenza e il parlamento, e si è impegnato ad annullare l’emendamento 17“, ha aggiunto.

Zardari è al minimo della popolarità, mentre il Pakistan lotta contro i taliban, la recessione e lo stallo sulle riforme. Ha trascorso diversi anni in carcere per corruzione ed è ancora soprannominato “signor Dieci Percento“, a causa della sua reputazione nel chiedere tangenti. Il portavoce presidenziale Farhatullah Babar, ha salutato il trasferimento della National Command Authority, come “un gigantesco balzo in avanti nel legittimare il parlamento eletto e il primo ministro”. Ma gli avvocati hanno detto che è solo una mossa di facciata. “Il presidente vuole dare l’impressione che lui rafforza il suo primo ministro. Questo trasferimento è fondamentalmente cosmetico“, ha detto l’avvocato Akram Sheikh.

Il presidente, secondo i media, avrebbe detto che avrebbe revocato l’emendamento a dicembre. L’amnistia, per la corruzione passata, emessa da Musharraf nel 2007, noto come Decreto di riconciliazione nazionale, o NRO, è scaduto quando il Pakistan ha celebrato il primo giorno della festa musulmana del sacrificio, Eid al-Adha. Aveva annullato le accuse contro Zardari, e sua moglie ed ex-primo ministro Benazir Bhutto, che è stata assassinata due mesi dopo, ed altri politici, con un apparente gesto di riconciliazione politica. Il PPP ha continuato a vincere le elezioni nel 2008, ripristinando il potere civile in un paese governato per la maggior parte della sua esistenza dall’esercito. Ma il governo oggi è visto come troppo debole per ottenere una proroga del NRO in Parlamento, e in attesa di un altro decreto, la fine del condono consente di adire delle cause contro i beneficiari e le condanne potrebbero essere ripristinate.

Sebbene non vi sia alcun rischio immediato contro Zardari, che gode di immunità come presidente, gli oppositori dicono che il giudice supremo potrebbe ancora dichiarare illegale la sua elezione. Più di 8.000 persone hanno beneficiato del condono, collegato a 3.478 casi, che vanno dall’omicidio, all’appropriazione indebita, all’abuso di potere e all’emissione di falsi prestiti bancari per milioni di dollari. Il ministro dell’Interno Rehman Malik e il ministro della Difesa Ahmed Mukhtar sono tra i 30 uomini politici che ne sono stati beneficiati.

L’analista Talat Masood ha detto che tali controversie potrebbero distogliere l’attenzione dalla lotta contro i Taliban e Al-Qaida, i cui attacchi con le bombe hanno ucciso oltre 2.550 persone negli ultimi 29 mesi. “E influenzerà la campagna contro i ribelli. L’opposizione e le altre forze continueranno a fare pressione sul governo per uscirne. Zardari dovrà cedere i suoi poteri, per essere in grado di sopravvivere“, ha detto.

Traduzione di Alessandro Lattanzio
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La Russia ha assicurato l’Iran sulla consegna dei missili

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AFP 27 novembre 2009 – La Russia ha assicurato l’Iran che onorerà l’accordo per la consegna alla Repubblica islamica degli avanzati missili per la difesa area S-300, ha detto l’ambasciatore di Teheran a Mosca.

Avevamo sentito dire, da varie fonti, che la Russia non avrebbe consegnato tali sistemi all’Iran, abbiamo chiesto alla controparte russa, ed ha smentito la notizia,” ha detto Seyed Mahmoud Reza Sajadi ai giornalisti a Mosca. “Il termine di consegna è già passato, ma la controparte russa ha citato problemi tecnici sulla cui risoluzione si sta lavorando“, ha aggiunto. “Riteniamo che la questione sarà risolta nel giro di uno o due mesi“. I commenti dell’inviato sono giunti dopo che funzionari iraniani avevano accusato Mosca di violare il contratto e di soccombere alla crescente pressione degli Stati Uniti e d’Israele, per fermare la consegna dei sistemi missilistici.

La Russia, il più stretto alleato dell’Iran tra le grandi potenze mondiali, non ha mai ufficialmente confermato il contratto degli S-300, ma si è riservato il diritto di vendere armi all’Iran, a condizione che siano di natura difensiva.

L’agenzia di stampa russa Interfax, ha riferito che il contratto chiede a Mosca di vendere a Teheran cinque batterie di missili S-300PMU1, per un prezzo totale di circa 800 milioni di dollari (530 milioni di euro).

Un alto generale iraniano ha detto che, a novembre, la Russia aveva già sei mesi di ritardo nella fornitura dei missili. “Il contratto per la fornitura dei sistemi russi è stato firmato. Queste sono armi di difesa, destinati in particolare per la difesa di Bushehr (la centrale nucleare), che gli specialisti russi stanno costruendo nel sud dell’Iran“, ha detto Sajadi. “Nessuna delle due parti ha in programma di recedere da questo contratto …. E’ vantaggioso per entrambe le parti“, ha detto il diplomatico.

L’S-300PMU1, nome in codice della NATO SA-20 Gargoyle, è una sistema mobile terrestre progettato per abbattere aerei e missili da crociera. La Russia ha in gran parte sostenuto le rivendicazioni dell’Iran e sta costruendo la prima centrale nucleare iraniana a Bushehr.

Traduzione di Alessandro Lattanzio
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Ennio Remondino, Niente di vero sul fronte occidentale Da Omero a Bush, la verità sulle bugie di guerra

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Ennio Remondino

Niente di vero sul fronte occidentale
Da Omero a Bush, la verità sulle bugie di guerra

Rubbettino Editore 2009

http://www.rubbettino.it/

Il libro
La storia occidentale raccontata dal cronista del terzo millennio. Che focalizza l’inquadratura sul rapporto fra guerra e politica. Lo sguardo disincantato e ironico che conosce l’inganno di ogni conflitto, militare, culturale, sociale ed economico. L’argomentare disinvolto e lucido dell’onestà intellettuale.

L’occasione di richiamare alla memoria del lettore il percorso storico dell’Occidente, dalla guerra di Troia al terrorismo d’attualità. Mentre Ulisse torna a essere l’Odioso e la grandezza di Roma passa per spie, legioni ed escort di Pompei; i Borgia competono con l’orologio a cucù e l’uovo di Colombo produce la frittata americana; il Risorgimento tenta di sfuggire al solito strabismo e Nuvola Rossa vince la sfida simpatia con Giorgio Cespuglietto Bush.

La provocatoria segnalazione delle responsabilità politiche che stanno dietro a ogni fronte, con l’alibi della gloria, della civiltà, della ragion di Stato, del soccorso umanitario. Spunti di rilettura che partono dall’alto dell’Olimpo per arrivare al pantano dell’Afghanistan, mentre il giornalista nota la funzione apologetica e propagandistica dei narratori di ogni corte, antica o contemporanea, regale o editoriale. Con occhio vigile sulle istituzioni, artefici e complici della divulgazione distorta del proprio agire, dall’Impero di Roma alla Chiesa, dal III Reich all’Unione Sovietica, dall’Europa all’America. Fino ai nuovi imperi finanziari e mediatici, di cui il cittadino è suddito, a volte inconsapevole.

Una proposta di lettura agile e insieme profonda, accattivante e intensa, che si rivolge a un pubblico eterogeneo, il giovane curioso e l’adulto impegnato, che voglia indagare la verità del rapporto fra ideal e realpolitik,  in tema di guerre  e informazione. Fino all’oggi della Tv, «che – dice Ennio Remondino – mi ritrovo a raccontare già al passato, nel mio ieri, diverso dall’oggi della televisione, che globalizza gli ascolti e restringe le proprietà che la controllano. Che ci impone i suoi eroi discutibili, senza neppure la poesia di Omero».

L’autore
Ennio Remondino, inviato speciale del Tg1, negli anni ‘80 si occupa di giornalismo investigativo. Sue le interviste ai capi delle Brigate rosse, Curcio, Moretti e Balzerani, e ai boss mafiosi Gaetano Badalamenti e Tommaso Buscetta. Una sua inchiesta sui rapporti occulti fra la Cia e la Loggia P2, svela l’esistenza della struttura atlantica segreta Stay Behind. Diventa reporter di guerra con la prima Guerra del Golfo. Segue la guerra in Bosnia e l’assedio di Sarajevo, la sommossa popolare in Albania e, da Baghdad, i nuovi bombardamenti angloamericani. Corrispondente per l’intera area dei Balcani da Belgrado, racconta della crisi in Kosovo, dei bombardamenti Nato contro la Jugoslavia, della caduta di Milosevic. Responsabile per un anno dell’ufficio di Corrispondenza per il Medio Oriente, nel 2001 è in Afghanistan e nel 2006 in Libano per l’attacco israeliano. Da tre anni, dirige l’ufficio di corrispondenza Rai di Istanbul. È autore di diversi saggi tra cui, La Televisione va alla guerra, Sperling & Kupfer 2002; Tutti sporchi comunisti?, Sperling & Kupfer 2003; Senza Regole. Gli imperi televisivi all’assalto dell’Europa, Editori Riuniti 2004; Il braccio legato dietro la schiena. Storie di giornalisti in guerra, Baldini Castoldi Dalai 2005, volume collettaneo a sostegno di Reporters Sans Frontières.

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Giovanna Canzano intervista Deborah Callegari Hasanagic

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Fonte: http://www.politicamentecorretto.com

All’interno della comunità islamica in Italia do fastidio a molte persone, a differenza dei bosniaci musulmani che mi sostengono moralmente e, sempre secondo il noto settimanale SAFF www.saff.ba, in Bosnia io rappresento la donna musulmana combattiva ed esemplare” (Deborah Callegari Hasanagic)

Canzano 1– Con il suo libro La mia fuga verso l’Islam ha voluto spiegare ai cattolici italiani le ragioni della sua scelta e la superiorità della sua nuova fede. Perché scrivere della sua conversione in un libro?

Callegari – Voglio precisare che non ho scritto il mio libro solo per spiegare ai cattolici italiani i motivi della mia scelta e vorrei ricordare che in Italia non esistono solo persone cattoliche, ma ci sono anche altre confessioni religiose e, quindi, il mio libro è rivolto a tutti. È stato tradotto anche in lingua bosniaca.  Non ho voluto testimoniare la superiorità della mia fede, ma ho solo ritenuto necessario e doveroso portare a conoscenza di tutti l’esempio positivo che c’è nell’Islam che, come dico sempre, per me è stata la scelta migliore. In questi ultimi anni sono diventati tutti “esperti di Islam”, specialmente dopo l’attentato del 11.09.2001; nonostante sia aumentata l’attenzione dei mas media verso i paesi musulmani permane un notevole livello di ignoranza rispetto all’islam. La mia decisione di scrivere un libro sulla mia “fuga” verso l’Islam è stata determinata anche dalla volontà di dare la parola alle donne che in occidente vengo viste come “sottomesse” all’Islam solo perché vedono che indossiamo l’hijāb, cioè il “velo” che tra l’altro tutti confondono con il burqa.

Canzano 2– Se fosse stata in un qualsiasi Paese islamico avrebbe potuto lasciare la religione musulmana per abbracciare quella cattolica?

Callegari – Questa domanda mi viene fatta spessissimo e, mi fa capire che di Islam la gente non conosce quasi niente. Poi, per la religione cristiana io sarei un’apostata e, se stiamo ai dettami biblici, il mio Paese e tutto quello che sta intorno dovrebbe essere raso al suolo e bruciato!  Nel Deuteronomio, 13 versetto 7-18   (http://www.ora-et-labora.net/bibbia/Deuteronomio.html) , come possiamo vedere, c’è scritto che persino il bestiame del paese va passato a fil di spada ([16]allora dovrai passare a fil di spada gli abitanti di quella città, la voterai allo sterminio, con quanto contiene e passerai a fil di spada anche il suo bestiame). In Bosnia, il Paese musulmano che conosco di più in quanto è quello di mio marito, queste cose non succedono. E’ successo invece che un ragazzo musulmano si convertì al Cristianesimo diventando poi prete cattolico. Successivamente, forse dopo una lunga riflessione sulla sua vera vocazione, capì che aveva intrapreso una strada sbagliata e, ritornò di nuovo all’Islam. Ora ringrazia Allāh per averlo salvato dall’inganno. Nessuna fatwa o minaccia di morte è stata emessa verso il ragazzo. Ho scritto di questa storia sul mio blog ed il caso è finito su tutti i giornali bosniaci.

Canzano 3– Da musulmana convertita al cattolicesimo le avrebbero lasciato pubblicare un libro dal titolo La mia fuga verso il cattolicesimo?

Callegari – Mi riaggancio di nuovo alla realtà che c’è oggi in Bosnia, in quanto, ripeto, è il Paese musulmano che conosco meglio, e posso affermare che, nonostante la guerra del 1992/95 che, come sappiamo, scoppiò per problemi politici, ora i bosniaci vivono tutti insieme indipendentemente dalla diversa religione professata, senza  darsi fastidio. E credo che dai bosniaci abbiamo molto da imparare. Per quanto riguarda invece il comportamento dei musulmani di fronte a una conversione “verso” il Cristianesimo, va ricordato  che nei Paesi arabi ci sono anche arabi cristiani e non solo arabi musulmani. E’ per questo motivo che mi sono decisa a scrivere il mio libro e proprio con quel titolo e le posso dire che in Italia ho avuto grandi difficoltà a trovare un editore disponibile alla sua pubblicazione.

Canzano 4– La Lega e la Santanchè, come Lei scrive sul suo blog (http://muamera.bloog.it/riflessioni.html) soffrono di islamofobia solo perché non conoscono l’Islam?

Callegari – Certo sono assolutamente ignoranti sull’Islam! La Lega all’inizio attaccava i meridionali, poi ha visto che non funzionava e ha iniziato ad attaccare i musulmani, ma i leghisti non hanno fatto bene i loro calcoli, perché tra i musulmani ci sono anche italiani convertiti all’Islam come me. Della signora Santanchè non ne parliamo, lei vive grazie ai musulmani. Mi spiego, se non ci fossimo noi, lei praticamente non saprebbe di cosa parlare e nessuna tv la inviterebbe. La Santanchè dice sempre che la donna islamica è sottomessa, schiavizzata, maltrattata e picchiata dal marito; poi si preoccupa del fatto che un uomo potrebbe avere più di una moglie, ma non si rende conto che questi sono problemi che affliggono anche le donne che non sono musulmane? Tante donne subiscono violenze, ma alla Santanchè questo sembra non interessare, vuole fare la paladina dei diritti delle donne, ma alla fine si rende solo ridicola specialmente dopo le ultime affermazioni fatte  come ospite del programma “Domenica 5”. Senza conoscere bene la Bibbia e cosa fece Lot, (Genesi 19/30-38) dimostra la sua completa ignoranza. E poi oltre alla Santanchè c’è anche Souad Sbai – tra l’altro sono amiche – la quale non è da meno, anzi forse ancora peggio. Infatti dice di essere musulmana e, in un confronto televisivo (lei era al telefono) le chiesero  cosa c’era scritto in un preciso versetto del Corano, a proposito di donne e velo, lei  non  rispose… e con questo non aggiungo altro, chi vuol capire capisce.

Canzano 5– Il suo libro La mia fuga verso l’Islam più che una testimonianza di conversione è un libro dove lei prende delle posizioni politiche. Ci sono anche motivi politici nella sua conversione?

Callegari – Vedendo la situazione islamica e politica in Italia è ovvio che alla fine si prendono delle posizioni di tipo “politico”. Chi abbraccia una nuova religione la studia in modo approfondito e fa il confronto con la sua fede originaria. Io ho letto la Bibbia molte volte e anche il Vangelo e, studiato bene l’Islam e ho visto che con l’Islam io sto bene. Le posizioni politiche nascono semplicemente dal fatto che alla fine io mi sento “straniera a casa mia”. Come italiana conosco bene anche la costituzione, e so quali sono i miei diritti e posso avere la pretesa che mi vengano riconosciuti. La maggior parte degli italiani non sa neanche la propria storia e si permette di offendere le persone di un’altra religione. La paura del diverso in questo caso dettata dalla totale ignoranza crea l’islamofobia, in un clima che istiga solo all’odio è normale che si prendano posizione politiche.

Canzano 6– Magdi Cristiano Allam ha fatto invece un percorso inverso al suo, da musulmano è diventato cattolico. Lei da musulmana come vive la sua conversione?

Callegari – Sulla scelta personale di questo signore non dico niente, io ho fatto la mia e lui la sua, l’unica  differenza è che lui prima di ufficializzare la sua conversione con una cerimonia  imponente dal papa, ha sempre parlato male dell’Islam e ha sempre offerto alla gente una visione molto personale e perfida dell’ Islam, tutto per “marciarci” sopra e avere quel tanto di notorietà che tutto il mondo mediatico italiano gli ha gentilmente concesso. E poi la scorta ce l’aveva anche prima di convertirsi proprio perché incitava all’odio contro i musulmani. Io ho scelto una religione alla quale sento di appartenere di più e non è tanto difficile capire che se ho scelto di essere islamica e sono anche felice non faccio nulla di male, e che sono  una persona e non un “oggetto di moda.”

Canzano 7– In molti Paesi europei si sta diffondendo tra i musulmani la cucina halāl; il cibo è preparato in modo accettabile per la legge islamica. Utilizza anche lei prodotti halāl per la sua cucina?

Callegari – Certo, tutto quello che si può trovare con l’indicazione halāl lo uso; peccato che in Italia non sia come in Germania dove si trova proprio tutto.

Canzano 8– Quanto ha influito nella sua conversione il suo matrimonio? La scelta è stata determinata solo dall’amore per suo marito o ha scoperto l’Islam avendo contatti con la sua cultura?

Callegari – Come ho  scritto  nel  mio  libro, mio  marito  ha influito solo nel senso che ha accelerato il mio percorso che in realtà si era aperto già a 15 anni, quando mi rifiutai di ricevere il sacramento della cresima e cominciai a guardarmi intorno.  Frequentando mio marito ho capito che l’Islam mi apparteneva, e solo nel dicembre 2001 durante la festa di Natale ho iniziato a fare dei grossi passi avanti verso l’Islam. Nel 2002, esattamente nel mese di luglio, durante una mia vacanza in Bosnia, nella città di Sarajevo, sentii il richiamo alla preghiera.  Era un venerdì, il giorno che i musulmani dedicano alla preghiera, allora capii  che non potevo più tornare indietro, il mio cammino verso l’Islam aveva raggiunto un punto di non ritorno: quel giorno sarà sempre nel mio cuore. E come disse Napoleone Bonaparte: ”L’Islam conquistò mezzo mondo per mezzo secolo grazie alla forza dell’idea dell’Islam”.

Bibliografia

Deborah Callegari è nata il 07/02/1979 a  Trento. Sposata con un bosniaco ex-soldato e reduce di guerra in Bosnia, ha due figli  Aisha di 5 anni e Nasrallah di 2. Si è convertita all’Islam ufficialmente dal 21 giugno 2003. Ha scritto il libro “LA MIA FUGA VERSO L’ISLAM” che è stato pubblicato anche in Bosnia

E’ fondatrice e presidente dell’associazione “SHAHRAZAD la voce dell’islam”. L’associazione è rivolta alle donne italiane islamiche e alle islamiche immigrate. Questa associazione cerca di combattere per i diritti che spettano alle donne e sopratutto per far vedere che le donne islamiche non sono sottomesse agli uomini. Il blog dell’associazione è:

http://shahrazad09.blogspot.com/.

La Callegari collabora anche per il sito

www.mondoraro.org. La sua rubrica si chiama “ISLAM TUTTO QUELLO CHE NON SAI” che viene aggiornato ogni domenica. Il suo blog personale è:

http://muamera.blogspot.com.

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Africa

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Editoriale
L’Africa nel sistema multipolare (Tiberio Graziani)

Eurasiatismo
Aethiopia (Claudio Mutti)
Islam e Cristianesimo. La relazione distorta (Dimitris Michaelopoulos)
Terra ed essenza egiziana (Aladár Dobrovits)

Dossario AFRICA
Scannatoio, discarica, magazzino e granaio del mondo “civile” (Giovanni Armillotta)
Prospettive di unità continentale panafricana: Thomas Sankare e il Burkina Faso (Marco Bagozzi)
Africa oggi: una scheda (Aldo Braccio)
L’india in Africa: passato e presente (Côme Carpentier de Gourdon)
La riconfigurazione della lusofonia (Maria do Céu Pinto)
L’AFRICOM, la Cina e le guerre congolesi (F. William Engdahl)
La Russia e l’Africa (Vagif A. Gusejnov)
Il programma nucleare del Sudafrica (Alessandro Lattanzio)
L’esperienza politica africana di Barack Obama (Thierry Meyssan)
La nostra Africa (Fabio Mini)
1956: l’aggressione contro l’Egitto (Claudio Mutti)
Il ruolo della Libia nel Nordafrica e nel Mediterraneo (Claudio Mutti)
La zuffa per l’Africa (Spartaco Alfredo Puttini)
L’Africa nella politica estera italiana (Daniele Scalea)
Africa e Cina: presente e futuro, problemi e prospettive (Roman Tomberg)
La Francia e l’Africa nel XXI secolo (Pierre Verluise)

Interviste
Luisa Todini, imprenditrice (Tiberio Graziani e Antonio Grego)
Ramatanu Maitra, analista (Tiberio Graziani e Daniele Scalea)
Fabio Pipinato, direttore “Unimondo” (Enrico Galoppini)

Recensioni

Con il velo in Europa? La grande sfida della Turchia di Bassam Tibi (Aldo Braccio)
Il rischio Cecenia di Carlo Benedetti (Luca Bionda)
Note sul genocidio armeno (Costanzo Preve)
Paride, o il futuro della guerra di Basil Liddell Hart (Daniele Scalea)
Chasing the Dragon. Will India catch up with China? di Mohan Guruswamy e Zorawar Daulet Singh (Daniele Scalea)
La Mecca e Medina. Le città sante dell’Islam di Ali Kazuyoshi Nomachi e Seyyed Hossein (Enrico Galoppini)

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Abkhazia, complete trust in Sergej V. Bagapsh

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An uncertain election campaign and four challengers have not created too many problems to the outgoing President of the Republic of Abkhazia, who at the end of the voting day has been again appointed to lead the country for five years more. The multiethnic population of the country, mainly composed by Abkhazians, Russians, Georgians, Ukrainians and Armenians, chose to be fully confident of Sergej V. Bagapsh, the head of the State who in recent years has become a true symbol of Abkhazia. Bagapsh proved to be a wise and balanced politician, able to overcome many vital challenges for the country: from the transition of post-war period up to the most recent political tensions that preceded the 12th December’s voting day.

The whole elections’ day has passed with a high turnout, nearly 70%, with large differences in every polling district. About 127,000 citizens were registered as able to vote, men and women owning an Abkhazian passport. Remarkable has also been the turnout at the two polling stations in the Russian towns of Cherkessk and Moscow, where also voted Fazil Iskander, the most famous Abkhazian contemporary writer.

Bagapsh’s challengers proved to be difficult opponents: Beslan Butba (leader of the Party for Economic Development, owner of local television Abaza TV), Zaur Ardzinba (director of the leading sea shipping company of Abkhazia), Raul Khadzhimba (former Vice President of Abkhazia) and Vitalij Bganba (philosopher and lecturer). Overall, however, the winner proved to be too popular if compared to all these opponents, gaining nearly 60% of the votes, far more than what was necessary to avoid the second election round. A quite largely expected victory, considering the historical result which Sergei Bagapsh reached before the elections, namely the Russian recognition of Abkhazian independence signed by Dmitrij Medvedev, after the brief Ossetian war of August 2008.

The presence of a high number of international observers, more than 80 experts and officials coming from nearly 20 countries of the world, could give greater emphasis to the criteria of electoral transparency. The observers, which included also American lawyers, as well as their European colleagues expressed largely positive comments about the whole presidential election’s organization and management. Even Vladimir Churov, head of the Central Electoral Commission of the Russian Federation, visited different regions of the country as well as the district of Gal’, the “hottest” zone with mixed ethnic population at the borders with Georgia. According to many agencies, it seems that even in that area the turnout was quite high, though everything passed in a calm atmosphere.

Observers, as previously mentioned, came also from many European countries, including Finland, Switzerland, France and Poland. No observer noted during the monitoring operations problems which could formally affect the voting process. The “new States of Caucasus” keep on attracting the interest of European experts, politicians and journalists, as shown by the media coverage by newspapers and international information agencies.

The European Union has shown, once again, a rather ambiguous approach in the Caucasus, detached from its objective geopolitical reality: Europe officially plans to ignore the political path of the Republic of Abkhazia, even though many Europeans are very much interested in the development of governmental institutions of the country.

While the voting process has been greeted positively in Russia, Georgian authorities has maintained a rather hostile approach. As usually Tbilisi has criticized the elections, calling it a “comedy supported by Russia” and a “violation of the sovereignty and laws of Georgia”, referring to some 3,600 Russian soldiers based in Abkhazia. Strangely, Mikheil Saakashvili declares Abkhazia an “occupied country”. So, Georgian politicians seem to be surprised by the fact that Abkhazians want to rule Abkhazia!

In Europe, when our politicians will choose to study these problems using their hearts and brains, it will seem nothing strange about an Abkhazian government in Abkhazia, just as we think it’s normal for France to be ruled by a government composed of French politicians…

However, the confidence of a large part of the population in the politics of the President of Abkhazia can be considered as the main point for the elections’ analysis. Even this vote, held substantially in accordance with international standards, won’t change the European and American approach toward the “new Caucasian states”; moreover, the ambiguous behavior of the international community has been a long time unsolved issue.

Abkhazia has long ago chosen its own direction, and the public reliance towards the current leadership is an important resource to rule this very particular country. Indeed, Abkhazia will soon clarify the main targets of its economic development, focusing especially on tourism and agronomy. Today, thanks to the improved political stability, there seems to be all the requirements for highly profitable investments, as stated in these days Christina Ozgan, the local Minister of Economy.

For a long time, regional conflicts and international tensions have hampered the development of an extremely varied landscape which proved to be very interesting for different business initiatives.

But today, in sight of the 2014 Olympic Winter Games in Sochi, few miles from the Abkhazian border, Sergej Bagapsh and his government could show to the international community the reality of a finally resurrected Abkhazia.

It will also be an opportunity to show the positive impact of Russian diplomacy in the Caucasus, hoping that “someone” won’t try to oppose these positive perspectives with a new threatening season of borders’ militarization.

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Aбхазия – полное доверие Cергею Багапш

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Избирательная кампания четырёх претендентов не создали слишком много проблем уходящему в отставку из-за окончания сроков полномочий президенту республики Абхазии, который в конце «голосующего» дня был переизбран править страной в течении следующих пяти лет. Многоэтническое население страны, главным образом представленной абхазами, русскими, грузинами, украинцами и армянами, высказало полную уверенность Сергею Багапш, главе государства, который в последние годы стал истинным символом Абхазии. Багапш был мудрым и уравновешенным политическим деятелем, способным преодолеть много жизненных проблем страны: от перехода послевоенного периода до новых политических отношений, которые предшествовали избирательному дню 12-ого декабря.
День выборов прошел при высокой явке, почти 70 %, с большими различиями в каждом голосующем районе. Приблизительно 127 000 граждан были зарегистрированы для участия в голосовании – мужчины и женщины, имеющие абхазский паспорт. Хорошей также была активность на других двух избирательных участках – в российских городах Черкесск и Москва, где также проголосовал самый известный современный абхазский писатель Фазиль Искандер.


Противники у Багапша оказались трудными: Беслан Бутба (лидер партии за Экономическое развитие, владелец местного телевизионного канала «Абаза»), Заур Ардзинба (директор ведущей морской транспортной компании Абхазии), Рауль Хаджимба (прежний вице-президент Абхазии) и Виталий Бганба (философ и лектор). В целом, однако, победитель оказался более популярен по сравнению с противниками, получив почти 60 % голосов, что явилось причиной избежать второго тура выборов. В свете исторического события, которого Сергей Багапш достиг перед выборами, а именно, российского признания абхазской независимости, подписанного Дмитрием Медведевым, после краткой осетинской войны августа 2008, в значительной степени победа стала ожидаемой.


Присутствие международных наблюдателей, больше чем 80 экспертов из 20 стран мира, повлияло в большой степени на избирательную прозрачность. Наблюдатели, среди которых были американские адвокаты и их европейские коллеги, высказывали положительные отзывы об организации и управлении хода президентских выборов. Владимир Чуров, глава Центральной избирательной комиссии Российской Федерации, посетил различные регионы страны, среди которых и “самая горячая” зона со смешанным этническим населением на границе с Грузией. Согласно многим информагентствам, избирательная явка была весьма высока и все прошло в спокойной атмосфере.
Наблюдатели, как ранее упомянуто, приехали из многих европейских стран, включая Финляндию, Швейцарию, Францию и Польшу. Ни один наблюдатель не отметил наличие проблем, которые могли формально затронуть избирательный процесс. Как отмечают международные информационные агентства, “новые государства Кавказа” продолжают вызывать интерес со стороны европейских экспертов, политических деятелей и журналистов.

Европейский союз показал еще раз довольно неоднозначный подход к региону Кавказа, отдаленному от его объективной геополитической действительности: Европа официально планирует проигнорировать политический путь республики Абхазия, даже при том, что много европейцев очень интересуются развитием страны.

В то время как избирательный процесс приветствовали в России, грузинские власти выказали довольно враждебный подход. Тбилиси раскритиковал выборы, назвав их “комедией, поддержанной Россией” и “нарушением суверенитета и законов Грузии”, ссылаясь на базирование приблизительно 3 600 российских солдат в Абхазии. Странно, но Михаил Саакашвили называет Абхазию “оккупированной страной”. Почему грузинских политических деятелей удивляет факт, что абхазы хотят управлять Абхазией?

В Европе, когда наши политические деятели захотят, используя сердце и мозги, изучить эти проблемы, то не будет казаться ничем странным наличие абхазского правительства в Абхазии, так же, как мы думаем, что нормально для Франции управление правительством, составленным из французских политических деятелей…

Голосование, проведенное по всем международным стандартам, когда большая часть населения высказало уверенность в проводимой политике, не послужит анализом для изменения европейского и американского подхода к “новым Кавказским государствам”, так как неоднозначное поведение международного сообщества до сих пор является неразрешенной проблемой.

Абхазия давно выбрала свое собственное руководство и уверенно в нынешнем лидере – важный ресурс, чтобы управлять этой очень специфической страной. Абхазия начинает определять свой путь экономического развития, сосредотачивая внимание на туризме и агрономии. Как заявлено в эти дни Кристиной Озган, министром экономики Абхазии, сегодня, благодаря улучшенной политической стабильности, есть все основания для очень выгодных инвестиций.
В течение долгого времени, региональные конфликты и международные напряженные отношения препятствовали развитию деловых контактов.

Сегодня Сергей Багапш и его правительство смогли показать международному сообществу возрождение Абхазии, в нескольких миль от границы которой в 2014 году пройдут зимние Олимпийские игры в Сочи.

Это также возможность показать положительное воздействие российской дипломатии на Кавказе, в надежде, что “кто-то” не будет пытаться противостоять этим положительным перспективам новым витком милитаризации границ.

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África en el sistema multipolar

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En el nuevo orden multipolar, en plena fase de consolidación, África corre el riesgo de convertirse, por razones económicas y geoestratégicas, en la apuesta entre el sistema occidental guiado por los Estados Unidos y las potencias eurasiáticas, Rusia, China e India. Con el fin de evitar y obstaculizar tal eventualidad, y sobre todo para adquirir una determinante función global a medio y largo plazo, la integración continental de África parece una necesidad y un desafío, a los cuales han de dar respuesta urgentemente las clases dirigentes africanas. De forma verosímil, tal integración se debería configurar sobre una base regional, siguiendo tres directrices principales, constituidas respectivamente por el Mar Mediterráneo, el Océano Índico y el Océano Atlántico.


El multipolarismo: un escenario en vía de consolidación

Múltiples factores, entre los cuales se encuentran principalmente: a) la incapacidad estadounidense de gestionar la fase post-bipolar surgida después del colapso soviético; b) la reafirmación de Rusia llevada a cabo por Putin y consolidada por Medvedev; c) el crecimiento económico y el peso político que han alcanzado dos naciones-continente como China e India; d) la desvinculación de algunos países importantes de la América meridional respecto a la tutela de Washington, han planteado las precondiciones para la constitución de un sistema multipolar.

El nuevo escenario geopolítico, después de una primera fase de gestación, por otra parte continuamente minada por Washington, Londres y por las oligarquías europeas a cuya cabeza se encuentran Sarkozy y Merkel, está en estos momentos en vía de consolidación, gracias a las continuas actividades de colaboración que tienen lugar entre Moscú, Pekín y Nueva Delhi en referencia a grandes temas cruciales, como los siguientes: el aprovisionamiento y la distribución de recursos energéticos, la seguridad continental, la soluciones que se van adoptando con respecto a la crisis económico-financiera, el refuerzo de algunas instituciones de valor multi-regional, o incluso continental, como, por ejemplo, la organización para la cooperación de Shangai, las posturas realistas sobre varias cuestiones impuestas por los EE.UU. en el debate internacional, desde la referente al tema nuclear iraní hasta la temática de los derechos humanos en China, Rusia, Irán y últimamente también en India (1). Más allá del proceso de integración eurasiático, es preciso indicar que el nuevo marco internacional se va consolidando ulteriormente también por efecto de los acuerdos estratégicos que algunos países eurasiáticos (Rusia, Irán y China) han alcanzado con importantes naciones sudamericanas como Brasil, Venezuela y Argentina, en el ámbito económico y en algunos casos también en el militar.

A la luz de las consideraciones que acabamos de exponer, los rasgos que distinguen el nuevo marco geopolítico parecen ser esencialmente dos:

  1. uno –relativo a la constitución y a la existencia misma del nuevo orden internacional –parece surgir de la sinergia de intenciones que animan a los mayores países eurasiáticos y a los países de la América indiolatina. Los desiderata de las élites dirigentes de Moscú, Pekín, Nueva Delhi, Teherán y últimamente también Ankara (2) convergen con los de Brasilia, Caracas y Buenos Aires y tienden a materializarse en prácticas geopolíticas que prevén, a través de relaciones estratégicas, el desclasamiento de los EEUU que de potencia mundial pasaría a potencia regional. A finales de la primera década del siglo actual, Eurasia y la América indiolatina (3) parecen constituir los pilares sobre los que se apoya el actual sistema internacional. Sobre la integración interna, o mejor, sobre el grado de cohesión interno de las dos grandes masas continentales, muy probablemente, se disputará a medio y largo plazo toda la apuesta multipolar.

  1. el otro rasgo, que, a nuestro juicio, se referiría a la naturaleza del nuevo contexto geopolítico, parece consistir en la articulación continentalista con la que este tiende a manifestarse (4)

Ante la consolidación de tal escenario nuevo, sin embargo, hay que tener presente que el sistema occidental guiado por los EEUU, aunque esté en fase declinante, o quizás precisamente por eso, parece acentuar, pese a la retórica de la nueva administración su carácter expansionista y agresivo. Esto no solo alimentará los actuales enfrentamientos, sino que generará otros adicionales, que, con verosimilitud, se descargarán en las áreas geopolítica y geoestratégicamente más frágiles. Y África es una de estas.

La fragilidad de África y la penetración estadounidense en el hemisferio sur

En tal marco de referencia, altamente cargado de tensiones ya que, como hemos puesto de relieve anteriormente, está determinado por la contraposición entre el nuevo sistema multipolar en fase de acelerada definición y el sistema centrado en los EE.UU, a África le resulta difícil encontrar una posición propia clara, por tanto, le cuesta concebirse como una entidad geopolítica unitaria, si bien muy compleja, si atendemos a las profundas y variadas deshomogeneidades culturales, étnicas, confesionales, climáticas, económicas y sociales que todo el continente presenta (5).

Sin embargo, desde el lejano 1919 (por tanto, en un contexto completamente distinto, pero también entonces en fase de transición, vale la pena subrayarlo) con la conferencia de París, los africanos expresan la necesidad de unificar su continente (6). Anteriormente, el movimiento  panafricanista, surgido en los EE.UU y en las Antillas a finales del siglo XIX sobre la base de las ideas del mestizo americano William Edward Burghardt Du Bois, cantor de movimiento ‘pan-negro’, y del jamaicano Marcus Garvey, ideador del lema ‘retorno a África’ y del llamado ‘sionismo negro’, trataba principalmente de la unidad cultural de los pueblos africanos. En el plano netamente político, el movimiento panafricanista contribuyó, durante el proceso de descolonización, a la creación de la ‘Organización de la unidad africana’, hoy conocida como ‘Unión Africana’.

En nuestros días, después de casi un siglo de cumbres y conferencias inconcluyentes dedicadas a la unidad (o a la integración) continental (entendida y teorizada de formas distintas) los obstáculos que se interponen para su realización parecen residir en las habituales cuestiones histórico-políticas nunca resueltas que comprenden, entre otras cosas, los clásicos problemas referentes a la ausencia de infraestructuras, a la fragmentación política en estados modulados según el paradigma occidental (7), a la incapacidad de las clases dirigentes locales para gestionar los diversos tribalismos en una lógica unitaria y pro-continental, a la herencia colonial y, sobre todo, a los apetitos occidentales, adicionalmente aumentados en estos últimos años, en virtud de la sinérgica política africana llevada a cabo por los EE.UU. y su aliado regional, Israel (8).

Una lectura veloz y superficial de los acontecimientos africanos llevaría al analista a añadir a los apetitos occidentales también los apetitos chinos, rusos e indios. A tal respecto, sin embargo, hay que observar que los intereses asiáticos, o mejor, eurasiáticos en África tienen un valor particular del que, a la larga, se beneficiaría precisamente África en su conjunto, ya que facilitaría su inserción en el nuevo sistema multipolar y, por tanto, lo situaría geopolíticamente en la masa continental eurasiática. África, en tal escenario futuro, constituiría el tercer polo del espacio euro-afro-asiático.

Washington, en el último año de la administración Bush, empantanado en los conflictos mediorientales (Irak y Afganistán), obstaculizado por Rusia y China en su marcha de aproximación hacia las repúblicas centroasiáticas, habiendo perdido, junto a Londres y a la Unión Europea, la partida en la disputa ruso-ucraniana sobre el gas, habiendo salido con cabeza gacha de la aventura georgiana (agosto de 2008), habiendo digerido mal la autonomía turca sobre la proyectación del South Stream (9), ha intensificado su política exterior en el sur del planeta, respectivamente en la América meridional y en África.

En el curso del bienio 2007-2008, los EE.UU. han tratado de desarticular el BRIC (Brasil, Rusia, India y China), el nuevo eje geoeconómico que se ha establecido entre Eurasia y la América Indiolatina, y ha tratado de minar los acuerdos orientados a la integración sudamericana, presionando principalmente a Brasil y a Venezuela. En tal estrategia, que podemos definir como ‘estrategia para la recuperación del control del patio trasero’, se sitúan, por ejemplo, tanto la reexhumación de la Cuarta Flota, como episodios como el de los movimientos secesionistas en la región de la media luna boliviana, orquestados, según diversos analistas sudamericanos, entre ellos el brasileño Moniz Bandeira, precisamente por Washington. Tal renovado interés estadounidense por el control de la América meridional, iniciado por la precedente administración republicana, es igualmente continuado por la actual administración, guiada por el demócrata Obama, como han demostrado dos casos emblemáticos: el de la intromisión estadounidense en el golpe de estado de Honduras y, sobre todo, el referente a la instalación de bases militares en Colombia.

Respecto a la corriente penetración estadounidense en África, esta es para los EE.UU. un pasaje obligado debido a tres razones principales.

Una se refiere a la cuestión energética. Según un estudio encargado en el año 2000 por el National Intelligence Council a algunos expertos, los EE.UU. esperan poder disfrutar para el 2015 de al menos el 25% de petróleo procedente de África (10). La búsqueda y el control de fuentes energéticas en África responden a dos exigencias consideradas prioritarias por Washington y por los grupos petroleros que dirigen y sustentan su política energética (11). La primera exigencia deriva obviamente de las estrategias destinadas a buscar fuentes de aprovisionamiento energético, diversificadas y alternativas a las mediorientales; la segunda, en cambio, afecta a la protección de la función hegemónica, que los EE.UU. adquirieron durante el siglo pasado, en referencia al control y a la distribución de los recursos energéticos mundiales. Tal función atraviesa actualmente una fase muy crítica, a causa de las recientes y sinérgicas políticas llevadas a cabo por Rusia, China y por algunos países sudamericanos en el sector energético. El antagonista en África de los EE.UU. es, como se sabe, China. La República Popular China, en la última década, ha reforzado e implementado las relaciones y el lanzamiento de inversiones, en particular, en infraestructuras en el continente africano, prosiguiendo, por otra parte, una política puesta en marcha ya en el curso de la Guerra Fría. China no sólo está interesada en el petróleo africano, sino también en el gas (12) y en los materiales considerados estratégicos para su desarrollo como el carbón, el cobalto y el cobre. En el frente energético, un ejemplo, importante para las consecuencias sobre las relaciones entre las potencias de China y los EE.UU., lo proporciona la fundamental contribución china a Sudán para la exportación del petróleo. Sudán, como se sabe, gracias a la ayuda china exporta petróleo desde 1999; esto ha llevado a que Jartum reciba las ‘particulares’ atenciones y cuidados de Washington. Recientemente (27 de octubre de 2009), la Casa Blanca ha renovado formalmente las sanciones económicas a Sudán por la cuestión de los derechos de las poblaciones de Darfur.

La otra razón por la cual la política africana constituye una de las prioridades estadounidenses de la próxima década es de orden geopolítico y estratégico. En medio de la actual crisis económico-financiera, Washington debería, en cuanto gran actor global, dirigir sus esfuerzos hacia el mantenimiento de sus posiciones en el tablero global, a riesgo de que, en el mejor de los casos, tenga lugar una rápida reducción de su papel a potencia regional media, o, en el peor, un desastroso colapso, difícil de superar a corto plazo. Sin embargo, en línea con la tradicional geopolítica expansionista que desde siempre caracteriza sus relaciones con las otras partes del planeta, Washington ha elegido a África como amplio espacio de maniobra, desde el cual relanzar su peso militar en el plano global con el fin de disputar a las potencias asiáticas la primacía mundial. En tal aventurada iniciativa, Washington obviamente implicará a toda Europa. La nueva política estadounidense en África se debe al hecho de que los EE.UU. encuentran cerradas dos de las principales vías anteriormente elegidas para acceder al espacio eurasiático: la Europa centroriental y Oriente Próximo y Medio. La primera vía, tras la ráfaga de victoriosas revoluciones coloradas que habían atraído al espacio geopolítico hegemonizado por los EE.UU. a los países del exterior próximo ruso (la llamada Nueva Europa), parece por ahora un camino difícil de seguir, ya que Moscú ha elevado el nivel de guardia. A tal respecto, son indicativas las dificultades encontradas por los EE.UU. en la cuestión del escudo espacial. La segunda vía es la trazada, ya desde hace años, por la doctrina llamada del Gran Oriente Medio: control total del mar Mediterráneo, eliminación de Irak, ocupación militar de Afganistán, penetración en las repúblicas centroasiáticas. La aplicación de esta doctrina geopolítica, sin embargo, no ha producido los resultados que Washington y el Vaticano esperaban en tiempos razonablemente breves, sino que, al contrario, se ha revelado negativa a causa del duradero y desgastador conflicto afgano y de la no resuelta cuestión iraquí y, sobre todo, de la política eurasiática de Moscú, orientada a recuperar prestigio e importancia en el espacio centroasiático.

La tercera razón, finalmente, es de orden preventivo. Está conectada a la política que actualmente los Estados Unidos conducen en el hemisferio meridional del planeta, con el fin de invalidar el eje sur-sur, fatigosamente en vías de definición entre muchas naciones africanas y sudamericanas. Los principales jefes de Estado de la América indiolatina y de África han vuelto a confirmar recientemente, en septiembre de 2009, durante la cumbre de Isla Margarita (Venezuela) la voluntad de continuar en el proyecto estratégico de ‘‘cooperación sur-sur’’ entre África y América meridional puesto en marcha en diciembre de 2006 en Nigeria, en Abuja.

Los instrumentos de penetración que Washington ha adoptado para controlar el espacio africano son de tres órdenes : de orden militar, a través del AFRICOM (13), es decir, el Mando militar de los Estados Unidos para África, creado en 2007 y activado al año siguiente ; de orden económico-financiero (véase el caso de las sanciones a Sudán y la intromisión del Fondo Monetario Internacional y del Banco Mundial en las relaciones entre la República Democrática del Congo y China) (14) ; y, finalmente, otro referente a la estrategia de comunicación ejemplificada gráficamente por los ya considerados ‘históricos’ discursos de Obama pronunciados respectivamente en Cairo y Accra. Sobre el plano militar, es importante observar que la penetración estadounidense parece privilegiar, como cabeza de puente para neutralizar a Sudán y a la República democrática del Congo, el área constituida por Tanzania, Burundi, Kenia, Uganda y Ruanda. Hay que subrayar que el control militar total constituye una importante pieza en la estrategia estadounidense para la hegemonía del océano Índico.

Las directrices geopolíticas de África para el siglo XXI

Pese a las dificultades que obstaculizan hoy su unificación geopolítica, África, con el fin de salvaguardar sus propios recursos y mantenerse fuera de las disputas entre EE.UU., China y, muy probablemente, Rusia e India –disputas que se resolverán precisamente sobre su territorio –necesita organizarse, al menos regionalmente, según tres directrices principales que pivotan respectivamente sobre la orilla mediterránea, sobre el Océano Índico y sobre el Atlántico.

La activación de políticas de cooperación económica y estratégica, al menos en lo referente a seguridad, entre los países norteafricanos y Europa, por un lado, y, por otro, lo mismo con India ( a tal respecto, hay que hacer referencia a la Declaración de Delhi, firmada durante la Cumbre 2008 India-África) (15) , además de cohesionar las regiones africanas implicadas, predispondría las bases para una futura y potencial unificación continental articulada sobre polos regionales e insertada en un más amplio contexto euro-afro-asiático.

Igualmente, la directriz atlántica, es decir, la continuación de una cooperación estratégica sur-sur entre África y la América indiolatina, favorecería, en este caso, la cohesión de las regiones del África occidental, y contribuiría a la unificación del continente. En particular, el desarrollo de la directriz atlántica reforzaría el peso africano con respecto a Asia, y con respecto a China en primer lugar

La deseable integración de África –realistamente posible sólo si se estructura sobre polos regionales –evoca el desarrollo histórico, anterior al periodo colonial, de las formaciones políticas auténticamente africanas, que, conviene recordarlo, han tenido lugar precisamente sobre bases regionales (16).

(traducido por Javier Estrada)


* Tiberio Graziani es director de Eurasia. Rivista di studi geopolitici – www.eurasia-rivista.org


1. Con respecto a India y a la violación de los derechos humanos, en particular los referentes a la religión, véase el India Chapter del Annual Report of the United States Commission on International Religious Freedom, ( http://www.uscirf.gov/ ) y el interesante artículo crítico de M. V. Kamath, US must stop meddling in India’s internal problems, “The Free Press Journal”, 3 de septiembre de 2009 (http://www.freepressjournal.in/ ), que denuncia la instrumentalización llevada a cabo por Washington en referencia a los derechos humanos y a las libertades civiles por evidentes finalidades geopolíticas.

2. En relación con la erosión de las relaciones entre la Turquía guiada por Erdogan y Occidente, véase Soner Cagaptay, Is Turkey Leaving the West?, www.foreignaffairs.com, 26/10/2009 y el ensayo de Morton Abramowitz y Henri J. Barkey, Turkey’s Transformers, Foreign Affairs, noviembre/diciembre 2009.

3. Recientemente (17-18 octubre de 2009) los trece países sudamericanos adheridos al ALBA han firmado el tratado constitutivo del sistema unificado de compensación nacional (sucre), cuyo objetivo es la sustitución del dólar en los intercambios comerciales a partir del 2010.

4. Tiberio Graziani, Il tempo dei continenti e la destabilizzazione del pianeta, Eurasia. Rivista di studi geopolitici, n. 2, 2008.

5. Para una reseña de las cuestiones que impiden la integración africana y sobre los factores de deshomogeneidad remitimos a Géopolitique de l’Afrique et du Moyen-Orient, obra coordinada por Vincent Thébault, Nathan, Paris 2006, pp.69-220.

6. Diecinueve años antes, en julio de 1900, había tenido lugar en Londres el primer congreso dedicado a la unidad de los africanos y a sus descendientes en las Américas.

7. África está subdividida en 53 estados y en dos enclaves españoles (Ceuta y Melilla), a los que hay que añadir los autoproclamados estados de El Ayún (Sahara occidental) y de Hargeisa (Somaliland).

8. Para la reciente política israelí en África léase: Nicolas Michel, Le grand retour de Israël en Afrique, Jeune Afrique (http://www.jeuneafrique.com ), 3/9/2009; Philippe Perdrix, F. Pompey, P.F. Naudé, Israël et l’Afrique : le business avant tout, Jeune Afrique (http://www.jeuneafrique.com ), 3/9/2009; René Naba, Israël en Afrique, à la quête d’un paradis perdu, http://www.renenaba.com/ , 10/10/2009.

9. El 6 de agosto de 2009, Putin y Erdogan han firmado un acuerdo que preve el paso por las aguas territoriales turcas del gaseoducto ruso, antagonista del proyecto Nabucco, sostenido por los EE.UU. y por la Unión Europea.

10. El estudio citado, Global Trends 2015. A dialogue about the Future with Nongovernment Experts, diciembre de 2000, se encuentra en el sitio gubernamental del Office of the Director of National Intelligence, www.dni.gov/

11. African Oil: A Priority for U. S. National Security And African Development, Proceedings of an Institute Symposium, The Institute for Advanced Strategic and Political Studies, Research Papers in Strategy, maggio 2002, 14. El documento se encuentra en: http://www.israeleconomy.org/.

12. “El continente africano posee enormes reservas de gas natural que se estiman en 14,56 trillones de metros cúbicos, es decir, el 7,9% del total mundial. Las reservas verificadas en Nigeria y Argelia (5,22 e 4,5 trillones de metros cúbicos respectivamente) son inferiores a las de Rusia (43,3 trillones de metros cúbicos) Irán (29,61), Qatar (25,46), Turkmenistán (7,94), Arabia Saudita (7,57) Y Emiratos Árabes Unidos (6.43) pero superiores a las de Noruega (2,91), que es uno de los países clave en la exportación del gas. Sin embargo, los niveles de producción y consumo de gas natural en África son bastante bajos. La producción de gas en 2008 ha sido de 214,8 billones de metros cúbicos, es decir, el 7% del total mundial (un incremento de 4,85 respecto al 2007). Sudamérica ha sido el único continente que ha producido menos gas natural en el mismo año. El consumo de gas natural en 2008 en África ha sido de 94,9 billones de metros cúbicos, es decir, el 3,1% del total mundial (un 6,1% de crecimiento respecto al 2007) que es el nivel más bajo a escala mundial. Más del 50% del gas natural producido en África – 115,6 billones de metros cúbicos –es exportado, por lo demás, como gas natural licuado (62,18 billones de metros cúbicos). La cuota de los países africanos (Argelia, Nigeria, Egipto, Libia, Guinea Ecuatorial y Mozambique) en el suministro global de gas es del 14,2 % pero el mismo nivel de gas natural licuado es mucho más alto – 27,5%.”, Roman Tomberg, Le prospettive di Gazprom in Africa, www.eurasia-rivista.org, 16 octubre de 2009.

13. El proceso de militarización de África se ha intensificado últimamente por parte de Washington. A tal respecto, véase Kevin J. Kelley, Uganda: grande esercitazione militare degli USA nella regione settentrionale, www.eurasia-rivista.org, 14 de octubre de 2009.

14. Renaud Viviene et alii, L’ipocrita ingerenza del FMI e della Banca mondiale nella Repubblica democratica del Congo, www.eurasia-rivista.org , 19 de octubre de 2009.

15. El texto de la Delhi Declaration se encuentra en: http://www.africa-union.org.

16. A propósito del carácter “regionalista” de África, observa el africanista francés Bernard Lugan en la introducción a su ponderosa Histoire de l’Afrique, Ellipses, Parigi 2009, p.3.: « El largo despliegue de la historia del continente africano está ritmado por varias mutaciones o rupturas que se produjeron según una periodización diferente a la de la historia europea. Además, cuando en Europa los grandes fenómenos históricos o civilizacionales fueron continentales, en los africanos tuvieron consecuencias regionales, excepto en el caso de la colonización ».

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La strategia delle basi in Colombia. La costruzione di un nemico su misura

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Fonte: http://licpereyramele.blogspot.com

Nel corso di quest’ultima settimana si è conosciuta la portata dell’accordo che ha firmato gli Stati Uniti e la Colombia per quanto concerne l’insediamento di basi militari che costituiscono motivo di preoccupazione continentale. Allo stesso tempo si è approfondito il conflitto nella frontiera colombiana-venezuelana.

Per capire quello che sta accadendo nel nostro continente dobbiamo fissare alcuni punti preliminari. Gli Stati Uniti, con la scomparsa (implosione) dell’Unione Sovietica nel 1989, si sono trovati senza il “nemico classico” che aveva forgiato, nei confronti del quale elaborò una serie di dottrine e di strategie per bloccarlo e distruggerlo. La fine di questo “nemico” lo vide sprovvisto di una politica strategica alternativa che lo sostituisse per continuare a sostenere la sua impareggiabile superiorità militare tecnologica.

I suoi serbatoi d’idee (tink thank) cominciarono a sviluppare nuovi obiettivi strategici e di sicurezza nazionale per conservare la sua egemonia e il controllo planetario raggiunto fino a quel momento. Dalle idee forza che sorsero da lì il governo degli Stati Uniti e il suo complesso militare e intellettuale adottò la scelta esposta nel 1997 e che si conosce sotto il nome di “Progetto per un nuovo secolo americano” (PNAC in inglese). In concreto evidenzia che “il secolo XXI è il secolo americano”. Gli Stati Uniti avevano raggiunto il culmine del potere mondiale e guidava il processo di globalizzazione asimmetrica imposto dai suoi pianificatori, conoscitori della storia che fornisce questa posizione instabile e con la quale s’inizia il processo di declino. Essi stabilirono i fondamenti su come mantenere quella posizione e, per farlo, fecero ricorso a nuovi paradigmi come: scegliere un nemico, ma, fondamentalmente: interferire nello sviluppo degli eventuali concorrenti, favorendo le cause che possano indebolirli (divisioni, separatismi, conflitti etnici, sociali o religiosi, ecc.). Questa è la teoria che sviluppò il geopolitico polacco-americano Brzezinski (uomo della Trilaterale e consulente del presidente Obama), e per rendere concreti questi piani devono far convergere tutti gli sforzi nella creazione di un nemico che sostituisca quello sovietico e qui il ruolo del complesso intellettuale yankee è stato determinante, giacché fissò le sue direttrici nella dottrina sviluppata dal prof. di scienze politiche Samuel Huntington, il quale forgiò un nuovo nemico con la sua tesi dello “scontro delle civiltà”. A partire da questa tesi gli Stati Uniti crearono nuovi “nemici”, spostando quello ormai defunto dell’est con il nemico del sud e, in seguito, stilò una lista di stati canaglia o asse del male (Libia, Iran, Corea del Nord, Serbia e Iraq).

Notevolmente, il processo che si approfondisce a partire dell’11 settembre con l’attacco “terrorista” a New York e del quale non partecipa nessuno dei cosiddetti paesi dell’asso del male, comprometteva a vari paesi “alleati” degli USA, come l’Arabia Saudita (gli attentatori erano sauditi, così come il loro capo, Bin Laden) e Pakistan (mediante i loro servizi segreti che agiscono indipendentemente da chi governa in Islamabad, oltre a rappresentare una potenza nucleare regionale). Ciò mostra la certificazione nell’applicazione di questi nuovi paradigmi.

Come accade con ogni piano, il progetto del SXXI secolo americano, iniziò ad avere le sue contraddizioni e problemi che descriveremo brevemente. Il principale fu, in quanto effetto della globalizzazione imposta, la rinascita delle vecchie potenze: Cina e Russia e di nuove potenze emergenti: Brasile e India, che attualmente sono identificati con la sigla BRIC, una struttura per nulla affidabile da parte degli strateghi di Washington e che competono con questi per il controllo delle risorse a livello globale. Si è anche sopravalutato l’immenso sviluppo tecnologico del complesso militare industriale americano, il quale sarebbe stato sufficiente a “intimorire, terrorizzare e annichilire” quei nemici scelti dalla loro debolezza. La realtà delle durissime condizioni dei due conflitti nei quali si trovano immersi gli Stati Uniti e i loro alleati, le cui pretese prospettano un esito finale dubbioso giacché, in pratica, non hanno fatto tesoro delle esperienze militari della guerra di Corea e di Vietnam o dei bombardamenti di massa sull’Europa occupata nella seconda guerra mondiale, i quali non raggiunsero l’esito voluto, ma, al contrario, ressero ancora più viva la resistenza delle popolazioni civili bombardate.

Attualmente la paralisi della palude irachena e le perdite territoriali in Afghanistan (quest’ultimo noto come la tomba degli imperi: poiché lì sono stati sconfitti gli inglesi e i sovietici), mette allo scoperto le debolezze dell’idea di superiorità basata unicamente nel feticcio tecnologico (fu molto utile per vincere gli eserciti del terzo mondo), ma che non può sconfiggere quelle popolazioni che considerano l’occupante come un invasore e non come un liberatore e che questo invasore, inoltre, commette l’errore d’imporre governi fantoccio e corrotti che stanno in piedi solo per la forza delle armi americane o di quelle della NATO, come nel caso afgano.

È sfuggita anche da ogni forma di pianificazione globale la crisi finanziaria economica che ha sviluppato “il sistema” e che ha come base le banche degli Stati Uniti e dell’Europa, dalla quale non è facile uscirne, nonostante i messaggi tranquillizzanti trasmessi dai mezzi di comunicazione dominanti, crisi che, inoltre, mette in dubbio la forma di continuare a sostenere lo sconvolgente deficit creato per il mantenimento delle banche e delle guerre che sono lontane dall’essere considerate vittoriose.

Tutto questo ci deve introdurre nell’analisi di quanto sta accadendo nel nostro continente sudamericano. All’America centrale e del sud ci hanno imposto la globalizzazione asimmetrica tramite il “Consenso di Washington”, con le gravi conseguenze socio-economiche che conosciamo. Per poterla portare a termine era stato imposto un sistema politico amministrato da una “Vulgata politica” (Vulgata intesa nei termini di mediocrità delle classi dirigenti senza un pensiero strategico proprio, semplici amministratori di conflitti che, inoltre, non sono in grado di risolvere) e queste “classi” necessariamente devono applicare una “democrazia di bassa intensità”, vale a dire procedurale, ma non partecipativa né inclusiva, per mantenersi al potere. È qui, dove dobbiamo trovare le chiavi delle crisi politiche ricorrenti in America.

A causa di quanto descritto, cominciarono a svilupparsi sacche di resistenza che costrinsero ad alcuni paesi sudamericani a percorrere strade non “convenzionali” e a differenziarsi dai progetti pensati per ciascuno di essi. Ciò portò alla creazione di nuovi schemi e spazi che si erano opposti al progetto egemonico già descritto, strutture come: ALBA, MERCOSUR, Grupo Rio, UNASUR, Consiglio di Difesa Sudamericano, Banca del Sud, ecc., furono e sono state la conseguenza della resistenza al processo globalizzatore nella nostra regione. Evidentemente, all’interno di questo schema, ciò che più preoccupa agli Stati Uniti è la crescita del Brasile che lo fa diventare un concorrente diretto nella loro regione, ecco perché la comparsa dei campanelli d’allarme da parte dei pianificatori del nord.

È all’interno di questa cornice concettuale che dobbiamo cominciare a capire i recenti spiegamenti militari degli USA in Colombia (paese al quale perfettamente gli si potrebbe applicare la teoria dello stato fallito, giacché non controlla il proprio spazio e non può garantire i diritti e gli obblighi a tutti i suoi cittadini). Purtroppo, un paese importante come la Colombia, trascinata dalla sua dirigenza politica verso quest’avventura militarista, è rischioso e pericoloso. Giacché rappresenta l’anello più debole, è adoperato dai pianificatori USA come eccellente strumento per impedire e paralizzare i difficili passi che si stanno facendo nel continente meridionale con l’obiettivo di unirsi e svilupparsi come uno Spazio Continentale Industriale, caratteristica dell’attuale tendenza mondiale, che si vuole mettere a confronto con un mondo globale dominato dagli USA.

In America si è fatta circolare, tramite i mezzi d’informazione, la voce che esiste una “corsa agli armamenti”, una fallacia insostenibile, i principali organismi internazionali che monitorano la spesa e l’investimento nel mondo rilevano che il nostro è il continente che meno spese realizza nel settore degli armamenti. La spesa militare della regione nel 2008 (34.070 milioni di dollari) equivale al 2,6% della spesa mondiale, capeggiata dagli Stati Uniti, con 607 milioni di dollari deficitarii del proprio budget, secondo quanto riferito dallo studio annuale dell’Istituto degli Studi per la Pace di Stoccolma (SIPRI).

La domanda che realmente dovremmo porci i sudamericani per lasciare le cose ben in chiaro è la seguente: chi è che possiede nel nostro continente?. Portaerei nucleari, sottomarini nucleari, basi militari in tutto il mondo (più di 850), satelliti militari, in America hanno accumulato una nefasta storia d’interventi e soprusi verso le sovranità (compresi gli appoggi ai colpi di stato) e che, inoltre, conta con arsenali di armi di distruzione di massa come: bombe atomiche, biologiche, chimiche, ecc., la risposta ha un solo esito: gli Stati Uniti del Nord America. Allora, qual è il pericolo o la minaccia verso la sua sicurezza nazionale americana che può provenire dalla nostra regione? La risposta logica è che gli USA applica la sua teoria nel nostro continente: scegliendo un nemico debole (il Venezuela) e cercando d’impedire il consolidamento di una potenza emergente (il Brasile) che metta in gioco la sua attuale superiorità. È per tale ragione che diciamo che si sta costruendo un nemico su misura, sicuramente vedremmo un aumento dei conflitti interni nel continente e gli stessi potrebbero condurci a cause belliche che si spingano fino a militarizzare tutto il conflitto politico.

Per illustrare il lettore di quanto sta accadendo, analizzeremo sinteticamente alcuni articoli dell’accordo colombiano americano, concernente l’insediamento delle nuove basi e, così, confermeremo la matrice di quanto stiamo asserendo. Il trattato in questione si chiama: “Accordo complementare per la Cooperazione e l’Assistenza Tecnica in materia di Difesa e di Sicurezza tra i Governi della Repubblica di Colombia e degli Stati Uniti d’America”. Il quale dimostra nei suoi articoli principali la perdita della scarsa sovranità che deteneva o che gli restava allo stato “quasi fallito di Colombia”. L’accordo è composto di un preambolo e XXV articoli, vale la pena mettere in chiaro che la Repubblica di Colombia ha fatto richiesta di assistenza militare agli Stati Uniti sin dal 1952, il che dimostra la lunga situazione d’instabilità che vive il suddetto paese. In Colombia sono cinque le basi della Forza Aerea e dell’Armata che incorporano l’accordo: Apiay, Malambo, Palanquero, Cartagena e Bahía di Málaga. Le basi farebbero parte della nuova “architettura del teatro”, come ha definito il Comando Sud all’estesa rete di facilità e funzioni militari in America latina e nei Caraibi.

Usando l’argomento “legale” della lotta contro il narcotraffico o narcoterrorismo, come preferiscono dire gli strateghi americani, si stipula il presente accordo, il quale è solo di facciata, poiché in dieci anni dall’applicazione del famoso “Plan Colombia”, avviato dal presidente Clinton per combattere la produzione e la vendita di cocaina, possiamo asserire che, a questo punto, i risultati non si sono raggiunti, e questa lotta si è “persa” giacché i grandi cartelli si sono riorganizzati in minicartelli e la produzione si è estesa e diversificata mediante l’incorporazione dell’eroina e dell’oppio “all’offerta” dei minicartelli colombiani.

Per non stancare il lettore ci soffermeremo a elencare gli articoli più in vista dell’accordo e le conseguenze degli stessi.

Articolo VII: dello Status dei componenti delle basi:

Colombia concederà al personale degli Stati Uniti e alle persone in carica i privilegi, esenzioni e immunità concessi al personale amministrativo e tecnico di una missione diplomatica previsto dalla Convenzione di Vienna (…) personale degli Stati Uniti e dipendenti a suo carico resi sospetti di qualche attività criminale in Colombia, saranno consegnati alle autorità diplomatiche o militari appropriate degli USA in tempi brevi (…)

Articolo IX: Credenziali per entrare, uscire o viaggiare

Il (…) personale registrerà le sue entrate e le sue uscite dal territorio colombiano con i rispettivi documenti d’identità (militare o civile) rilasciati dagli Stati Uniti, senza l’obbligo di presentare passaporto o visto. Il personale civile e le persone a carico che non siano titolari di passaporto degli Stati Uniti potranno entrare con visto di cortesia (…) Colombia agevolerà le procedure di migrazione per l’entrata e l’uscita, senza ritardi da parte sua, del personale americano, le persone a carico, gli appaltatori degli americani, gli impiegati degli appaltatori americani e gli osservatori aerei che entreranno o usciranno dalla Colombia per portare a termine attività previste dal presente Accordo.

Articolo X: Importazione, esportazione, acquisto e utilizzo di beni e fondi

(…) presenteranno le dichiarazioni doganali dei beni importati o esportati per le attività che porteranno a termine nell’ambito del presente Accordo, le quali otterranno il permesso automatico, in virtù del quale non saranno oggetto d’indagine.

Articolo XII: Contrattazioni

(…) Gli Stati Uniti potranno aggiudicare contratti a qualsiasi offerente e portare a termine opere di costruzione e altri servizi facendo uso del proprio personale. In conformità con la politica degli Stati Uniti, affinché la procedura di richiesta di contratto sia aperta.

Articolo XIV: Agevolazione amministrativa

(…) nell’ambito del presente Accordo, riceveranno da parte delle autorità colombiane tutta la collaborazione occorrente per l’inoltro senza ritardo di tutte le procedure amministrative.

Articolo XVII: Patente di guida, matricole, polizze assicurative delle autovetture e licenze professionali.

(…) le autorità colombiane accetteranno la validità, senza alcuna verifica né riscossione, delle licenze o patenti guide di autovetture, navi o aeronavi rilasciate dalle autorità competenti degli Stati Uniti al personale americano, agli appaltatori degli Stati Uniti e agli impiegati degli appaltatori degli Stati Uniti, che si trovino temporaneamente presenti in Colombia.

Articolo XXII: Agevolazione per gli osservatori aerei.

(…) le autorità degli Stati Uniti agevoleranno la permanenza degli osservatori aerei di paesi terzi negli impianti e luoghi convenuti.

Come possiamo rilevare da una semplice lettura dei paragrafi sopraccitati concernenti alcuni degli articoli dell’accordo, la “libertà” di cui dispongono gli effettivi americani non solo è molto ampia, ma incorpora militari, appaltatori e civili nordamericani che operano nelle basi. Qui dobbiamo aprire un interrogativo, a partire dalla gestione di Bush gli Stati Uniti hanno praticato una specie di “privatizzazione” della guerra, con il Pentagono che dispone di favolose cifre per pagare questa nuova versione guerriera dei cani della guerra, vale a dire, i mercenari, che ora operano come “appaltatori della sicurezza”, come nel caso della famosa ditta “Black Water” che ha già annunciato la sua decisione di espandere i suoi servizi e i suoi affari in America latina. Questi “esperti della sicurezza” possiedono ampia libertà di azione, giacché non devono sottostare nemmeno alle leggi degli USA; ricordiamo la loro azione in Iraq, dove le denunce di torture e assassini seguono permanentemente questa “ditta”.

Un altro argomento non meno importante lo costituisce l’entrata e l’uscita di materiali dalla Colombia, senza che siano “ispezionati” dalle autorità doganali (accadrà come nella guerra del Vietnam, quando gli aerei Hercules che tornavano negli Stati Uniti trasportavano tonnellate di eroina e di oppio proveniente dal sudest asiatico?).

Un’altra caratteristica di quest’accordo, giustamente respinta dal Brasile e dall’Argentina, prevedeva lo svolgimento di manovre congiunte delle rispettive forze armate nei propri territori, insieme agli Stati Uniti. L’attribuzione di “personale diplomatico” è concesso ai partecipanti dell’accordo e, per questo motivo, qualunque azione criminale commessa da questi effettivi non potrà essere giudicata in territorio colombiano e non potranno essere applicate le leggi penali della Colombia, ma dovranno essere giudicate da leggi e tribunali nordamericani (ricordiamo i “processi” svolti negli Stati Uniti ai torturatori di Abu Gahabi –Iraq-, che sono finiti senza condanna nei confronti dei colpevoli e non per investigazioni svolte dalle autorità penali in questione).

È evidente che la Colombia sia entrata definitivamente nell’era del “realismo periferico”, sviluppata dall’argentino Carlos Escude (nuova teoria della dipendenza a favore del primo mondo), autore dei nefasti “rapporti carnali” nel decennio menemista e della teoria dello Stato fallito, che si adatta molto bene con la Colombia.

Ma vogliamo approfondire di più i nuovi rischi che accompagnano quest’accordo firmato dieci anni fa e prorogabile per latri dieci. Dunque, siamo alla presenza di un piano strategico del Pentagono e del Commando sud che oltrepassa qualsiasi amministrazione governativa americana (le quali durano quattro anni).

Nel proprio sito della Cancelleria della Colombia è stato pubblicato che, a partire da questo momento, gli aerei USA potranno usare tutti gli aeroporti civili della Colombia, ciò è stato anche confermato alla stampa dal Sig. Uribe. Barranquilla, San Andrés e Cartagena (nord Caraibi), Bogotá (centro), Cali (sud), Medellín (nordest) e Bucaramanga (est). Sulla terra ferma sarà presente del personale straniero (per la fornitura di combustibile e, in alcuni casi, per il controllo tecnico).

Un documento ufficiale della forza aerea americana ci indica le vere intenzioni delle basi in Colombia, questa relazione è molto chiara nel contenuto, giacché dimostra che l’uso delle basi non si esaurisce con il combattimento del narcotraffico sul territorio colombiano, questo punto è secondario alle reali intenzioni, poiché considera che la base di Palanquero: “Garantisce l’opportunità di condurre operazioni ad ampio spettro in tutta l’America meridionale”. Ciò manda a monte le dichiarazioni fatte dal Sig. Presidente Uribe nelle quali sosteneva che l’accordo intrapreso con gli Stati Uniti non avrebbe nuociuto i suoi vicini.

Il documento in questione afferma in modo tassativo: “(…) Stabilendo un Luogo di Cooperazione e Sicurezza (CSL) a Palanquero, si appoggerà la Strategia di Posizione del Teatro di Commando Combattente (COCOM) e dimostrerà il nostro compromesso nei riguardi della Colombia. Lo sviluppo di questo CSL ci dà un’opportunità senza precedenti per l’operazione ad ampio spettro nella sub regione critica del nostro emisfero, dove la sicurezza e la stabilità sono sotto costante minaccia da parte delle insorgenze terroriste finanziate dal narcotraffico, dai governi antiamericani, dalla povertà endemica e dalle frequenti calamità naturali (…)”.

È evidente che i vicini si devono preoccupare, giacché si sta, come abbiamo fin qui affermato, costruendo un “nemico” che alla fin fine non sia difficile da distruggere. Ma, fondamentalmente, lo scopo maggiore di questa strategia è quello d’impedire lo sviluppo e il decollo del Brasile, procurandogli situazioni d’instabilità nella sua frontiera e, se anche fosse necessario, acuendo i conflitti interni dello stesso. Recentemente, un ex ministro della difesa colombiano minacciava il Venezuela dopo la firma del trattato con gli Stati Uniti, asserendo: Chávez ha i giorni contati. Anche nelle ultime ore sono venute a conoscenza dichiarazioni da parte della cancelleria brasiliana concernente il fatto che il Brasile deve modificare gli accordi con gli USA riguardo all’implementazione delle basi.  Ciò deve impensierire a tutti i latinoamericani, poiché l’argomento della lotta contro il narcotraffico è, come abbiamo visto, puerile (gli Stati Uniti con il 5% della popolazione mondiale consumano il 60% della produzione mondiale di doghe e possiamo rilevare lo scarso successo nella lotta contro la stessa che si porta avanti in questo paese).

E come si è già affermato poc’anzi, il Commando sud, con sede in Florida, che da quest’anno ha incrementato la sua presenza continentale con la riattivazione della IV flotta, agisce da proconsole imperiale con ampissime facoltà che oltrepassano le proprie funzioni militari e, per questa ragione, gli obiettivi che sono stati espressi sulla Base di Palanquero ci devono mettere in stato di allerta, poiché lo stesso documento della forza aerea nordamericana rende esplicite le sue funzioni:… “incrementerà anche la nostra capacità per condurre operazioni d’Intelligenza, Spionaggio e Riconoscimento (ISR), affinerà la portata globale, appoggerà i requisiti di logistica, migliorerà i rapporti con i soci, perfezionerà la cooperazione dei teatri di sicurezza e aumenterà le nostre capacità per realizzare una guerra spedita”.

In un mondo contraddistinto da forti lotte per imporre il multilateralismo contro l’unipolarismo americano, si possono capire questi passi adottati dalla Repubblica Imperiale il cui fine è quello di assicurarsi la propria supremazia globale, poiché vede seriamente in pericolo la propria egemonia e altro ancora, dopo il disastro economico e finanziario subito. Gli USA stanno perdendo terreno sotto l’aspetto economico con la presenza della Cina in Sudamerica che l’ha già rimpiazzato come socio commerciale principale del Brasile, oltre agli ingenti investimenti che questa sta realizzando nei vari paesi del continente. Un’altra preoccupazione degli strateghi americani è quella della comparsa di un altro membro del BRIC nel continente: la Russia e, per questa ragione, i mezzi di comunicazione affini alla repubblica imperiale la fanno apparire come fornitore di armi dei governi antiamericani quando, in realtà, Russia è solo un giocatore economico e geopolitico nel nostro continente; questo aspetto danneggia il potere che gli americani hanno tradizionalmente avuto nella regione.

È a partire da questo punto che sorge la loro preoccupazione e la loro azione per frenare o riordinare questi avvenimenti che lo stanno indebolendo. Ed è anche un riconoscimento della nostra importanza in quanto sudamericani nel nuovo ordine mondiale che si sta organizzando, in particolar modo, Argentina e Brasile (l’asse o nucleo forte dell’America meridionale), che sono destinati a essere la testa di ponte del continente con misure e strategie convenienti per arrestare quest’offensiva imperiale e resistere agli impeti dello stesso, senza cascare nelle provocazioni che sicuramente si svilupperanno a partire dalle nostre debolezze e contraddizioni. Sarebbe anche molto ingenuo dimenticare gli insegnamenti della storia che dimostrano che quando gli imperi soffrono il declino del loro potere diventano più aggressivi e distruttori. Il giornalista, Enrique Lacolla, ha scritto un articolo su questo atteggiamento degli USA: “Tutti i movimenti dell’Impero successivi alla caduta del Muro, puntano verso una esacerbazione dei suoi connotati più rapaci. Non solo sul piano economico, ma anche su quello militare. Gli attentati dell’11 settembre fornirono il pretesto ideale (forse, troppo ideale?) per scatenare una forza bellica lungamente trattenuta: le invasioni in Iraq e Afganistan, la destabilizzazione di aree decisive come i paesi dell’Asia centrale per sottrarli all’influsso russo, l’agitazione nel Tibet, le oscure operazioni in Pakistan, i sintomi della riattivazione di una ingerenza nordamericana in America latina, sembrano essere diretti per il sostegno di un potere globale che va oltre i propri problemi interni e accerchiare e, se necessario, distruggere gli avversari che possono contendergli il controllo delle riserve naturali del pianeta, fattore decisivo per il consolidamento o la precarizzazione di un potere egemonico”.

La risposta dei paesi iberoamericani deve essere quella di approfondire le alleanze e l’integrazione del continente, poiché la nostra forza fondamentale si trova nel controllo delle nostre risorse naturali rinnovabili e non e nel porci come un nuovo spazio continentale industriale come quelli che si stanno consolidando nel mondo: Nafta, UE, Gruppo di Shangai, ecc. Solo una insubordinazione continentale fondante ci consentirà formar parte della storia del secolo XXI, la storia ci mette nuovamente davanti a una decisione irreversibile come avvenne duecento anni fa quando decidemmo smettere di essere colonia europea.

(trad. di Vincenzo  Paglione)

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Un amerikano fuori onda

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Un amerikano fuori onda. E anche fuori di qualcosa d’altro. Il presidente della Camera è stato beccato fuori onda (è proprio tutto involontario?) a dire “cose carine” e soprattutto divertenti. In ogni caso, sappiamo già che andrà negli Usa, dove incontrerà Nancy Pelosi (una specie di sua “pari grado”; si fa per dire e…..per ridere). Però, stando a quanto scritto di recente sulla Stampa, sembra che si cercherà pure di fargli incontrare Obama. Credo sia facile supporre ciò che potrebbero dirsi. Ormai, non dovrebbero proprio esserci dubbi che, per “mettere in riga” la politica estera italiana, gli Usa non possono contare che su questa parte della “destra”. La “sinistra” e i “casinisti del centro” sono già a tutto tondo filo-americani, diciamo pure quinte colonne di una potenza straniera che dal 1992-93 tenta di ridurci a suo “stuoino”.

Cosa sia accaduto nell’estate del 2003, che a mio avviso rappresenta il punto di svolta dell’atteggiamento di Berlusconi (considerato il vero amerikano dell’epoca) verso l’amico (solo presunto) Putin, è difficilmente supponibile. Per me è un mistero, anzi “il mistero”. Resta il fatto che, da quel momento, è apparso sempre più chiaro quanto il sottoscritto aveva sostenuto fin dai suoi scritti del 1994-95: gli effettivi, integrali, servitori degli americani sono i rinnegati del piciismo, salvati proprio per questo – unico PC dell’occidente – dal “crollo del muro” e successiva dissoluzione dell’Urss. I mediatori tra questi voltagabbana e gli Usa furono la nostra finanza e Confindustria (dell’epoca di Agnelli e della Fiat ancora al comando). Ovviamente, quando si “cambia di casacca” in questo modo osceno, in “due balletti” e senza uno straccio di riflessione autocritica, si è legati mani e piedi, perché ricattabili in ogni momento, ai nuovi “padroni”.

La “prova del nove” si ha nel fatto che, mentre questa sedicente sinistra è stata sempre all’attacco dell’industria “pubblica” italiana (svenduta ai privati quasi al completo) e cerca costantemente di ostacolare i progetti veramente strategici dell’Eni nei suoi rapporti con la Gazprom (oggi rafforzati dall’entrata nel consorzio della francese Edf, anch’essa sotto controllo “pubblico”), la sinistra tedesca con Schroeder – proprio perché non ha “scheletri nell’armadio”, non ha dovuto rinnegare un bel nulla – sta portando avanti il progetto del ramo nord del gasdotto in ottimo accordo con l’azienda russa. Noto, per inciso, che tale fatto dimostra come sia del tutto fasulla la distinzione tra destra e sinistra. Ormai esiste solo la distinzione tra chi è servo della superpotenza – che ha cambiato tattica, dato l’avvio di una fase multipolare, ma nutre ancora i suoi progetti di riconquista del predominio – e chi sfrutta detta fase per perseguire anche interessi nazionali. La sinistra tedesca è “nazionale”; quella italiana è parte di uno schieramento di mortale lesione dei nostri interessi. Punto e basta.

Divertente è constatare che, al fine di rinvigorire nuovamente il progetto che fu portato avanti con “mani pulite” – non quindi mediante una chiara azione politica, ma solo con manovre giudiziarie che hanno distrutto la stessa idea di politica presso la popolazione italiana – e che in parte fallì, oggi ci si affida ad un’altra schiera di rinnegati di sponda opposta, quella della “camicia nera”. Tuttavia, è interessante notare che questi hanno dovuto abbracciare l’antifascismo (e il filo-sionismo). Può sembrare una pena del contrappasso. Falsa impressione. Recentemente (in “presa di posizione netta”) ho fatto constatare come certi fenomeni storici cambino segno da un’epoca all’altra. Gli ebrei, sottoposti 70 anni fa ad un feroce e ignobile sterminio, appoggiano oggi in grande maggioranza uno Stato divenuto oppressore e uccisore “di massa” di un altro popolo. Così pure gli antifascisti hanno subito una “mutazione”. Sono oggi loro a voler sottostare al predominio di un altro paese, sono loro che hanno preso il posto dei “repubblichini” di ieri; ovviamente, cambiando paese da servire.

Le manovre delle quinte colonne antinazionali costringono un Berlusconi – che non mi sembra affatto, lo dico senza esitazione, il “tipo” adatto alla bisogna – ad accentuare certe aperture “a est”. Così si è recato in Bielorussia, scatenando le ire dei servi degli Usa, che considerano dittatori e antidemocratici tutti quelli che, pur eletti, non sono filo-americani; anzi, i bielorussi sono stretti alleati della Russia. Hamas ha vinto le elezioni in Palestina, ma il verdetto non è stato accettato. Ahmadinejad è stato eletto in Iran (con undici milioni di voti di scarto sul secondo), ma è stato tutto un imbroglio. Solo se vengono eletti dei Quisling come in Georgia e Ucraina, è tutto regolare.

Assolutamente paradigmatico quanto è avvenuto in Afghanistan. Karzai, troppo remissivo verso certi settori talebani, non godeva più della fiducia degli Usa (del “simpaticone” di Obama, che adesso invierà in quel paese altri 30.000 uomini); lo si voleva perciò sostituire con un più fedele servitore. Avendo ufficialmente preso Karzai la maggioranza assoluta dei voti, ci si è rassegnati a rivelare che, in un paese occupato da truppe straniere (e dove queste non ci sono, ci sono i guerriglieri), vi erano ben oltre un milione di voti fasulli. Karzai era in realtà di poco sotto il 50%: quindi ballottaggio. Tuttavia, il prediletto dagli Usa era troppo distanziato (poco sopra il 30%); inoltre, lo scontro poteva sconquassare il già inesistente equilibrio in quel paese cruciale per la geopolitica statunitense. Allora, ritiro dello sfidante (con la scusa che era sicuro di nuovi brogli) e conferma dell’elezione di Karzai, infamato dai brogli già denunciati al primo turno. Questa è l’allegra “democrazia all’americana”!

Che dire d’altro? Salvo che si chiarisce con il viaggio in Bielorussia anche il precedente viaggio solitario di Berlusconi in Russia (con videoconferenza a tre: lui, Putin e il premier turco, anch’esso non più troppo fidato per gli Usa). Sembrerebbe di dover ammettere che il Premier non può contare su ciò che normalmente sta alla base della difesa nazionale di un qualsiasi paese indipendente: i cosiddetti “corpi speciali in armi”, i servizi di intelligence, ecc. Naturalmente, faccio “fantapolitica” (ma non penso di farla). Il viaggio in Bielorussia è, nella mia fantasia, il seguito del precedente viaggio; e il dono dei fascicoli KGB (sui “prigionieri italiani” in Urss), che è stata una “lieta sorpresa”, immagino fosse già previsto (nei miei sogni, non si tratterebbe di fascicoli semplicemente controllati dalla Bielorussia, che li potrebbe dare a chi vuole). Lo “spilungone” dell’ex Pci, che è un po’ giù di nervi, si è agitato abbastanza scompostamente alla notizia; un D’Alema avrebbe avuto (credo almeno) maggiore freddezza.

In ogni caso, non è piacevole quanto sta avvenendo. Perché, ancora una volta, sembra che per contrastare l’effettiva azione antinazionale dei “rinnegati” già citati, ci sia bisogno di ricordare loro quel passato che hanno già rinnegato in favore della superpotenza avversaria dell’Urss, nell’epoca bipolare ormai trascorsa da molto tempo. Continuando con questa solfa, si continua a pasticciare, a non dire qual è la partita attuale che si sta giocando. Gli Usa vogliono abbattere la nostra politica estera, che è per almeno l’80% favorevole a loro, ma per un 20% guarda ad est. Gli Usa non vogliono nemmeno questo 20%; e si fidano solo delle forze antinazionali dei due “opposti rinnegamenti”. Adesso poi – dopo l’avanzamento degli accordi della Germania con la Gazprom, colà patrocinati dalla sinistra; dopo che la Francia consente l’entrata dell’Edf nel Southstream (Eni-Gazprom) e, per di più, vende 5 navi Mistral (da assalto anfibio) alla Russia, di cui una costruita in tale paese, il che sembra configurare anche cessione di tecnologie avanzate al nuovo polo avversario degli Usa – questi ultimi non possono più aspettare a buttare giù questo Governo in Italia.

La resa dei conti è perciò sempre più vicina. Una domanda per finire: questo presidente della Camera, colto in fuori onda, avrà il minimo di sensibilità – che è poi di dignità – di dimettersi dalla carica, dopo che ha mostrato “al popolo” la sua mal celata speranza a che il premier possa essere accusato di collusione con la mafia? Non solo perché chi lo ha appoggiato (nelle elezioni a sindaco di Roma), quando ancora era in “camicia nera”, è stato il sospettato mafioso, ma soprattutto perché ha quella carica essendo stato votato dalla maggioranza del presunto mafioso. Domanda ovviamente retorica, riferendosi ad uno che non ha avuto alcun problema a divenire rapidamente, e senza tante spiegazioni autocritiche, “antifascista” (del piffero). Abbiamo un ceto politico che irradia attorno a sé fiducia e speranza in un luminoso avvenire. Non scordiamoci però mai chi c’è dietro: i nostri parassiti finanziario-industriali, fedeli “alleati” (sappiamo in che senso) degli Stati Uniti.

1 dicembre 2009

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