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Channel: Rivista Eurasia – Pagina 327 – eurasia-rivista.org
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La Russia respinge le preoccupazioni della NATO sulle esercitazioni militari con la Bielorussia

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Fonte:http://en.rian.ru/

BRUXELLES, 18 novembre — Non vi è alcuna ragione per la NATO d’essere interessata alle recenti esercitazioni militari su larga scala russo-bielorusse, vicini alla Polonia, ha detto la Russia all’Alleanza. Il portavoce della NATO James Appathurai, in precedenza, ha detto ai giornalisti che gli ambasciatori di 28 paesi della NATO avevano espresso preoccupazione per le dimensioni e lo scenario dell’esercitazione Zapad 2009, che ha coinvolto circa 13.000 effettivi. I media Polacchi hanno sostenuto che la Russia e la Bielorussia avevano simulato attacchi nucleari alla Polonia, durante le esercitazioni. La NATO ha anche detto che il messaggio politico di questa operazione era in contrasto con il recente miglioramento delle relazioni tra l’alleanza militare e la Russia.

“I nostri colleghi della NATO dovrebbero concordare le misure di fiducia sulle attività militari al confine dei vicini, già proposte da parte della Russia, invece di cercare di pensare a un nuovo problema nei nostri rapporti”, ha detto Dmitruij Rogozin. Rogozin ha anche detto che le esercitazioni congiunte con la Bielorussia erano di natura puramente difensiva, e la Russia aveva informato la NATO delle esercitazioni con largo anticipo.

Le manovre russo-bielorusse Zapad 2009, che si sono tenute l’8-29 settembre 2009 in Bielorussia, hanno coinvolto circa 13.000 effettivi in servizio, 63 aerei, 40 elicotteri, 470 veicoli da combattimento della fanteria, 228 carri armati e 234 pezzi d’artiglieria. L’esercitazione d’interoperabilità, tra le altre cose, ha testato il sistema di difesa aerea integrata bielorusso-russo, che i due paesi hanno deciso di istituire recentemente.

Il segretario generale della NATO, Anders Fogh Rasmussen, ha detto l’8 ottobre 2009, durante la sua visita in Estonia, che Zapad 2009 in Bielorussia non rappresentava una minaccia per i membri della NATO.

Traduzione di Alessandro Lattanzio
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La Russia respinge le preoccupazioni della NATO sulle esercitazioni militari con la Bielorussia

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BRUXELLES, 18 novembre — Non vi è alcuna ragione per la NATO d’essere interessata alle recenti esercitazioni militari su larga scala russo-bielorusse, vicini alla Polonia, ha detto la Russia all’Alleanza. Il portavoce della NATO James Appathurai, in precedenza, ha detto ai giornalisti che gli ambasciatori di 28 paesi della NATO avevano espresso preoccupazione per le dimensioni e lo scenario dell’esercitazione Zapad 2009, che ha coinvolto circa 13.000 effettivi. I media Polacchi hanno sostenuto che la Russia e la Bielorussia avevano simulato attacchi nucleari alla Polonia, durante le esercitazioni. La NATO ha anche detto che il messaggio politico di questa operazione era in contrasto con il recente miglioramento delle relazioni tra l’alleanza militare e la Russia.

“I nostri colleghi della NATO dovrebbero concordare le misure di fiducia sulle attività militari al confine dei vicini, già proposte da parte della Russia, invece di cercare di pensare a un nuovo problema nei nostri rapporti”, ha detto Dmitruij Rogozin. Rogozin ha anche detto che le esercitazioni congiunte con la Bielorussia erano di natura puramente difensiva, e la Russia aveva informato la NATO delle esercitazioni con largo anticipo.

Le manovre russo-bielorusse Zapad 2009, che si sono tenute l’8-29 settembre 2009 in Bielorussia, hanno coinvolto circa 13.000 effettivi in servizio, 63 aerei, 40 elicotteri, 470 veicoli da combattimento della fanteria, 228 carri armati e 234 pezzi d’artiglieria. L’esercitazione d’interoperabilità, tra le altre cose, ha testato il sistema di difesa aerea integrata bielorusso-russo, che i due paesi hanno deciso di istituire recentemente.

Il segretario generale della NATO, Anders Fogh Rasmussen, ha detto l’8 ottobre 2009, durante la sua visita in Estonia, che Zapad 2009 in Bielorussia non rappresentava una minaccia per i membri della NATO.

Traduzione di Alessandro Lattanzio
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I doni avvelenati dell’Angelo misericordioso

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Malgrado le ripetute smentite e censure dei governi e dei militari della NATO, contro la Jugoslavia nel 1999 furono condotti bombardamenti contrari al diritto internazionale, colpendo intenzionalmente la popolazione civile e l’ambiente con agenti nocivi i cui effetti perdurano negli anni. Tra essi il più noto ed utilizzato è l’uranio impoverito, contenuto nei proiettili. Ricerche scientifiche e statistiche raccolte sul campo, sia tra i civili sia tra i soldati occupanti, dimostrano come l’uranio impoverito provochi brusche impennate nell’incidenza di tumori maligni, malattie genetiche e malformazioni congenite. Il suo effetto nocivo non rimane confinato alla sola zona bombardata, ma tramite i venti e le piogge s’estende alle regioni circostanti, anche a grandi distanze.

ERRATA CORRIGE: Nella precedente versione del presente Rapporto era stata attribuita al prof. Alessandro Massimo Gianni una frase in cui il diretto interessato non si è riconosciuto. Avendo ricevuto la sua smentita, l’erronea citazione è stata rimossa. Ci scusiamo col prof. Gianni e con i lettori per l’errore commesso in buona fede


Titolo: I doni avvelenati dell’Angelo misericordioso. I doni avvelenati dell’aggressione NATO alla Serbia
Autori: Dragan Mraovic
Numero rapporto: 3
Data di pubblicazione: 19 novembre 2009 (prima versione: 17 novembre 2009)
Leggi il Rapporto pdf (0,8 MB)

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Francesco Clementi, Città del Vaticano

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Francesco Clementi
Città del Vaticano

Società editrice il Mulino
Collana: Si governano così ( a cura di Carlo Fusaro)
Bologna 2009

ISBN 9788815131515
pp. 144 – Euri 11.00

Il libro
Quarantaquattro ettari: un minuscolo territorio a forma di trapezio che appare tanto noto quanto ignoto. Fondamentale luogo di culto per la religione cristiana, ma anche città nella città di Roma, cuore dell’espressione giuridica del governo centrale della Chiesa, ma anche enclave nella capitale italiana, lo Stato della Città del Vaticano è sorto il 7 giugno 1929 (giorno dello scambio degli strumenti di ratifica dei Patti Lateranensi, firmati l’11 febbraio da Santa Sede e Italia) a conclusione della cosiddetta questione romana, che tanto aveva tormentato i rapporti tra Regno d’Italia e Stato pontificio dopo la breccia di Porta Pia nel 1870. Con un assetto più che unico nel panorama costituzionalistico, che tipo di Stato è la Città del Vaticano? Che rapporti ha con la Santa Sede, la Chiesa cattolica e lo Stato italiano? Quali fonti normative lo regolano? Come si articolano al suo interno l’esercizio del potere e le sue istituzioni? E che diritti (e doveri) vi sono per coloro che godono della sua cittadinanza? A tali interrogativi il volume fornisce documentate quanto esaurienti risposte.

L’autore
Francesco Clementi insegna Diritto pubblico comparato nell’Università di Perugia. Ha tra l’altro pubblicato “Profili ricostruttivi sull’elezione diretta del primo ministro” (Aracne, 2005).

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Un santo vivente

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Centinaia di migliaia di persone nella Chiesa ortodossa Saborna crkva dell’Arcangelo Michele (chiesa centrale di Belgrado) in tre giorni di lutto nazionale hanno passato accanto alla bara aperta del Patriarca serbo Pavle, morto a 96 anni, per rendergli l’ultimo omaggio. I funerali svoltisi il 19 novembre hanno visto la presenza di più di seicento mila persone e le delegazioni religiose, politiche ed altre del più alto livello nazionale ed internazionale. Presenti il Patriarca ecumenico di Constantinopoli Bartolomeo, ma anche il Vaticano con il cardinale Soldano. Dopo la Messa centrale davanti il più grande tempio ortodosso attivo nel mondo, la Chiesa di San Sava, il Patriarca ortodosso serbo Pavle è sepolto nel cortile del modesto monastero di Arcangelo Michele di Rakovica in lontana periferia di Belgrado.

Un messaggio di cordoglio è arrivato anche dal papa Benedetto XVI.

Gojko Stojcevic diventato monaco Pavle (Paolo) era una persona molto modesta. Non ha mai usufruito di comodità dovute ad un patriarca, ma si spostava sempre a piedi, si preparava da mangiare anche da solo, quasi sempre le verdure e le mele secche preparate da lui stesso, beveva esclusivamente i succhi di frutta e di pomodoro, riparava da solo i propri vestiti e le scarpe, dormiva in un semplice letto di ferro in una cella di meno di dieci metri quadri nel Patriarcato di Belgrado. Il suo materasso era un sacco riempito di foglie secche di granoturco senza cuscino.

Questo santo vivente ricordava sempre i serbi di non fare i crimini per difendersi dai crimini degli altri: “Seguiamo sempre la strada della giustizia e dell’onestà, della fede e della virtù, dell’umanità e della cavalleria cristiana, senza odio e senza vendetta nei confronti di chiunque, sempre in ginocchia davanti al Dio e mai davanti agli uomini”.

A Butros Gali, quando questi era il segretario generale delle ONU, disse: “Mi auguro da lei e da tutta l’altra gente di buona volontà nel mondo di esaminare la verità da tutte le parti e di fare una giustizia uguale per tutti”.

Purtroppo sappiamo che la giustizia, neanche quella delle ONU, non è uguale per tutti in questo mondo dominato dagli interessi e non dal senso di umanità.

Se l’uomo permette a se stesso di consumare tutta la propria volontà solo per la propria famiglia e per il proprio popolo rimanendo così senza buona volontà per gli altri popoli, è una disgrazia sia per lui sia per il suo popolo” – diceva il Patriarca serbo aggiungendo spesso che “le circostanze non sempre dipendono da noi, però dipende solo da noi se ci comporteremo da uomini o da non-uomini”.

La Chiesa ortodossa serba è l’istituzione nazionale alla quale i serbi credono più che al governo, esercito, polizia, presidente dello stato, ecc. Il Patriarca Pavle era l’unica persona che era apprezzata da tutti senza riguardo alla politica partitica o personale. Ora i serbi perdono un uomo che era uno degli amalgami più forti della nazione e della chiesa stessa.

Come andranno le cose nel futuro non è ancora chiaro perché nel clero serbo-ortodosso ci sono varie correnti. C’è chi vuole riforme e chi non le vuole, c’è chi vede il futuro nell’ecumenismo e nell’avvicinamento ad altre chiese cristiane e c’è chi dice che bisogna allontanarsi dai politici e dai nuovi ricchi… Non sarà facile trovare un nuovo custode del trono di San Sava.

Inoltre molte organizzazioni non governative di stampo atlantista in Serbia spingono la chiesa serba a rinunciare alla storia ed alla tradizione usando i mezzi poco civili e poco democratici mentre dall’altra parte chi è di orientamento nazionale e vede nella Chiesa ortodossa serba uno degli ultimi baluardi di salvezza della dignità nazionale. I politici maggiormente cercano di usare la chiesa solo nelle campagne elettorali e un po’ di questo si è visto purtroppo anche nei giorni di lutto nazionale per la morte del Patriarca quando certi politici coglievano questa triste occasione per farsi avanti e più di tutti il presidente serbo Tadic anche se la sua politica filoatlantista sta in netto contrasto con la politica della Chiesa ortodossa serba e con l’operato del Patriarca.

Tutto quanto stona molto con l’immagine di modestia personale di un uomo santo quale era Pavle, un vero beniamino della nazione serba, un vero uomo santo.

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Unione Europea. Il nuovo sistema SWIFT e il nuovo abbandono della sovranità

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Il caso Swift è scoppiato quando, nel 2006, la stampa statunitense rivelò che questa società aveva, dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, trasmesso clandestinamente al Dipartimento del tesoro degli USA alcune dozzine di milioni di dati confidenziali relativi alle operazioni dei suoi clienti [1].

Swift, società americana di diritto belga, tratta gli scambi internazionali di circa 8.000 istituzioni finanziarie presenti in 208 paesi. Essa assicura i trasferimenti di dati relativi ai pagamenti, ma non il trasferimento di denaro.

Malgrado le flagrante violazione delle leggi, europea e belga, sulla protezione dei dati personali, questo trasferimento non è stato mai messo in causa. Al contrario, l’UE e gli USA hanno firmato molteplici accordi per legittimare l’acquisizione dei dati riservati.

Tutti gli accordi sono stati giustificati nell’ambito della lotta al terrorismo. Il sequestro dei dati operato dalle autorità statunitensi è stato reso possibile grazie alla particolarità del sistema Swift. In pratica, tutti i dati riservati allocati nel server europeo erano parimente presenti in un secondo server di stanza negli USA. Ciò ha consentito alla dogana statunitense di prenderne possesso, giacché la legge americana consente questo tipo di sequestri.

Una razionalizzazione del sistema Swift

Dopo il giugno del 2007, era previsto che i dati Swift inter-europei non fossero più trasferiti negli USA, ma inseriti in un secondo server europeo. Tale nuova procedura si avvicinava di più alle norme europee ed eliminava la possibilità delle autorità statunitensi di acquisire le informazioni. Il nuovo server, piazzato a Zurigo, dovrebbe diventare operativo a partire dal mese di novembre 2009.

A seguito della riorganizzazione e contrariamente a ciò che era stato affermato nei precedenti accordi, Jacques Barrot, commissario europeo alla Giustizia, ha spiegato che i 27 desideravano fornire agli investigatori del tesoro degli USA l’accesso ai centri operativi europei amministrati dalla società Swift. Ha anche dichiarato che “sarebbe molto pericoloso in questa fase cessare la sorveglianza e il controllo dei flussi di informazione” ed affermato che le operazioni sul server americano di Swift si erano rivelate “uno strumento importante ed efficace”.

Barrot ha ripreso semplicemente le dichiarazioni del giudice Brugière, la “personalità eminente” designata dalla Commissione per “controllare” l’uso americano delle dozzine di milioni di dati trasferiti ogni anno. Quest’ultimo aveva detto che il sequestro aveva “permesso di evitare un certo numero di attentati”. Non era stato prodotto o citato alcun esempio che permettesse di verificare tali asserzioni. L’enunciazione del carattere indispensabile del sequestrio dei dati finanziari diventata la prova del successo di tale politica nella lotta contro il terrorismo. Veniva stabilita un’identità tra la parola e la cosa.

Un sequestro fine a se stesso
L’enunciazione della lotta al terrorismo basta a giustificare il sequestro dei dai finanziari

La ragione invocata acquista un carattere surreale quando si sa che la commissione ufficiale d’inchiesta sugli attentati dell’11 settembre 2001 non ha voluto indagare sui movimenti di capitali sospetti, registrati i giorni precedenti gli attentati stessi. Tuttavia, proprio prima degli attacchi dell’11 settembre, il 6, 7 e 8, hanno avuto luogo opzioni di vendita eccezionali sulle azioni delle due compagnie aeree (American e United Ailines) i cui velivoli furono sequestrati dai pirati, come anche sulle azioni di Merril Lynch, uno dei più grandi affittuari del World Trade Center. Queste informazioni sono state rivelate precisamente da Ernst Welteke, all’epoca presidente della Deutsche Bank, il quale ha anche dichiarato che c’erano molti più fatti attestanti che le persone implicate negli attentati avevano approfittato di informazioni confidenziali al fine di realizzare operazioni sospette. Tutti questi elementi, il fatto che un attentato terrorista non ha bisogno di importanti trasferimenti di fondi e la volontà politica di non investigare sui trasferimenti finanziari sospetti, ci mostrano che l’acquisizione dei dati finanziari dei cittadini è un obiettivo in sé.

Un abbandono della sovranità

La Commissione vuole dapprima firmare un accordo transitorio, che avrebbe effetto con la messa in marcia del server di Zurigo. Questo obiettivo è stato confidato alla presidenza svedese, rigettando così ogni possibilità di decisione condivisa con il Parlamento. Ciò ha la sua importanza, poiché il Consiglio segue praticamente ogni giorno le posizioni dei funzionari permanenti e costoro si rivelano essere, spesso, dei semplici canali dei negoziatori americani. Il commissario Barrot afferma di realizzare un accordo equilibrato, ma egli ha dovuto riconoscere che il testo attuale non include l’accesso delle autorità europee alle transazioni bancarie americane.

A questo accordo transitorio deve succedere un testo definitivo, anch’esso unilaterale. Si tratterebbe. Dopo un anno, di “rinegoziare” ciò che è stato accettato d’urgenza. Tale accordo dovrebbe essere validato dal Parlamento europeo, quando il Trattato di Lisbona, che dà a questa assemblea più poteri in materia di polizia e di giustizia, verrà applicato. La volontà proclamata di attendere la ratificazione del Trattato mostra che si tratta di far riconoscere, dal Parlamento, un diritto permanente delle autorità americane di sequestrare, sul suolo europeo, dati personali di cittadini dell’Unione. I nuovi “poteri” accordati al Parlamento trovano la loro ragione d’essere nella legittimazione dei trasferimenti di sovranità dell’UE agli USA.

Questa posizione ha il merito di essere trasparente, di presentare il Trattato, non come un testo costituzionale interno all’Unione, ma come un atto d’integrazione dell’UE in un’entità sopranazionale sotto la sovranità statunitense.

Questo nuovo accordo che permette alle dogane statunitensi di catturare, sul suolo europeo e senza alcuna reciprocità, dati personali dei cittadini dell’Unione, rappresenta un nuovo passo nell’esercizio della sovranità diretta delle istituzioni statunitensi sulle popolazioni europee.

1. « Gli scambi finanziari sotto controllo USA », Eurasia N° 1 2009, Gennaio/Marzo

Jean-Claude Paye, sociologo, autore de La fine dello Stato di diritto, manifestolibri. 

Contributi pubblicati in Eurasia: Spazio aereo e giurisdizione statunitense (nr. 4/2007, pp. 109-113), Gli scambi finanziari sotto controllo USA (nr. 1/2009, pp. 109-120).

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Medio Oriente senza pace. Da Suez al Golfo e oltre: strategie, conflitti e speranze

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È stato pubblicato per i tipi di Edilibri il volume Medio Oriente senza pace. Da Suez al Golfo e oltre: strategie, conflitti e speranze di Gaetano Colonna, con prefazione di Franco Cardini; 384 pagine, € 28,00, ISBN 8886943482.

Sommario:
Medio Oriente senza pace tenta una ricostruzione sintetica ma puntuale della storia dei rapporti fra Occidente e Medio Oriente nel corso degli ultimi cento anni, cercando di fornire gli strumenti interpretativi per cogliere nell’intreccio degli avvenimenti le forze storiche che si sono confrontate e scontrate in quest’area cruciale per gli equilibri mondiali. La questione israelo-palestinese, il fallimento del nazionalismo arabo, le guerre del Golfo, l’insorgere dell’islamismo radicale, la lotta per il petrolio e le strategie occidentali di riorganizzazione del Medio Oriente vengono collocate in un quadro di insieme dal quale emergono disegni di potenza e aneliti di libertà. Vengono così in chiaro le ragioni strutturali della costante instabilità mediorientale che, con la cronicità dei suoi conflitti, sembra minacciare la stessa pace mondiale. Il libro quindi offre uno stimolo alla riflessione e insieme propone un’interpretazione non solo della storia del Medio Oriente ma del modo in cui l’Occidente affronta ciò che reputa storicamente diverso da sé.

L’autore:
Gaetano Colonna, dottore di ricerca in Storia antica e cultore di Storia contemporanea, collabora con la rivista telematica “Clarissa.it” ed è autore de La resurrezione della Patria: per una storia d’Italia (Tilopa, 2004)

Indice:

Introduzione, di Franco Cardini
Cap. 1. Vecchi imperi e Medio Oriente
Prologo
Vittoria su onde di petrolio”
L“indipendenza” araba
I sionisti in Palestina
Il ruolo del sionismo cristiano
“Red line” e “Gulf Plus”
Cap. 2. Le nuove guerre del dopoguerra
Gli Stati Uniti entrano nel Medio Oriente
Il disegno di “occidentalizzazione” del Medio Oriente
La politica Usa tra potenze coloniali e risveglio arabo
Kennedy e Israele
La guerra dei Sei g­iorni e la risoluzione Onu n. 242
La guerra del Kippur, una guerra “diplomatica”
Cap. 3. Potere e petrolio
Gli Stati Uniti e il petrolio mediorientale nel dopoguerra
Una rivincita dei paesi produttori?
“War for oil”?
Cap. 4. 1979: una svolta epocale
L’Iran gendarme regionale
La crisi iraniana
Il nuovo ruolo di Israele
L’Afghanistan, al centro del cuore del mondo
Dalla Rapid Deployment Force all’U.S. Central Command
Cap. 5. Il conflitto Iran-Iraq
L’Iraq di Saddam Hussein e del ba’th
L’attacco all’Iran
Disinformazione e politica del doppio binario
La guerra economica e l’internazionalizzazione del conflitto
La fine del conflitto
Cap. 6. Golfo 1991
Il “nuovo mondo”
Diplomazia, petrolio e cannoni
Il Kuwait, petrolio, denaro e sabbia
L’invasione del Kuwait
“Una strana cecità”
Arrivano i nostri
Guerra di macchine e vite di uomini
Quale vittoria?
Cap. 7. Miraggi di pace
Il nuovo ordine americano nel Golfo Persico
Israele tra Intifada e politica di potenza
La lobby israeliana e la politica internazionale degli Stati Uniti
Il fallimento del processo di pace israelo-palestinese
Cap. 8. Strategie di guerra
L’utilizzazione occidentale dell’islamismo politico
Islamismo politico e strategie eurasiatiche dell’Occidente
Islamismo politico, terrorismo internazionale e “scontro di civiltà”
Cap. 9. “È la stessa guerra”
Una nuova Pearl Harbor?
La guerra al terrore e la disintegrazione del Medio Oriente
Il fallimento occidentale e l’egemonia israeliana
L’Occidente e i nemici di Israele
Conclusioni
Bibliografia essenziale
Indice dei nomi

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Sulle rovine del Muro di Berlino: dal passato al futuro

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Fonte: Strategic Culture Foundation – FONDSK

La Germania sta celebrando il 20° anniversario della caduta del Muro di Berlino, un evento ancor oggi significativo che trasformò non solo la mentalità tedesca, ma anche il sistema di sicurezza europeo del dopoguerra e l’intera struttura globale.

Il progetto finalizzato alla costruzione del Muro di Berlino, nome in codice Seconda Muraglia Cinese, fu attentamente studiato e messo in atto con encomiabile solerzia, e Berlino Ovest si trovò circondata dai 202 kilometri di una solida costruzione. Dal 13 agosto 1961 il  Muro – forse la componente architettonica più conosciuta dell’epoca della Guerra Fredda – divenne il simbolo della città divisa per anni.

Nei termini dello scopo della sua esistenza il Muro di Berlino fu un vero e proprio corrispondente della Grande Muraglia Cinese, la cui edificazione si concluse nel III Secolo a.C. (475-221). La Muraglia Cinese fu concepita per fortificare le frontiere della civiltà cinese e mantenere compatto l’enorme Impero. Il secondo muro – descritto come la struttura difensiva dell’anti-fascismo e l’interfaccia fra socialismo e capitalismo nella RDT – rappresentò per quasi tre decenni la frontiera del mondo socialista e tenne separati due mondi e due sistemi socioeconomici. Sotto questo aspetto, il Muro di Berlino divenne un simbolo di stabilità a sostegno del confronto nell’era contrassegnata dal conflitto latente fra i blocchi Occidentale e Orientale.

Il presidente statunitense J. Kennedy disse a proposito del Muro in maniera alquanto filosofica che la soluzione, ancorché fastidiosa, era sempre meglio di una guerra, e a quel tempo quasi ognuno poteva sottoscrivere il punto di vista. Essendosi spartiti il mondo, i due sistemi socioeconomici con i rispettivi blocchi e il Muro fra loro dovevano trovare un modo per coesistere.

In seguito la logica dello sviluppo globale cambiò le carte in tavola. Nell’URSS il processo di disintegrazione stava prendendo velocità in parallelo al discorso della Perestroika e l’Europa cominciò ad invocare il tema dell’unificazione tedesca. Divenne l’argomento principale durante la visita di M. Gorbachev del giugno 1989 in Germania. Esplicitando la sua opinione, il Cancelliere H. Kohl disse al leader sovietico: “Come il fiume Reno corre verso il mare, così sta naturalmente procedendo l’unificazione della Germania. Si può provare a costruire uno sbarramento lungo il fiume, ma un’onda lo scavalcherebbe ed il fiume non si fermerebbe. Questa è proprio la situazione dell’unificazione del paese. Certo, il signor Gorbachev può congelare il processo per anni… in questo caso, senza dubbio, io non avrei possibilità di vivere abbastanza a lungo per vedere quel giorno. Ciò nondimeno, il giorno dell’unificazione della Germania arriverà inevitabilmente quanto il fiume Reno giunge al mare”.

Lo sbarramento implose il 9 novembre 1989, allorché migliaia di berlinesi si precipitarono ai check-point del Muro. Il Muro che aveva tenuto separate le due parti di Berlino per 28 anni, 4 mesi e 9 giorni cadde. Sulle carte geografiche del mondo emerse una Germania unificata ed in breve assunse un ruolo di leader nelle questioni della sicurezza europea…

***

Recentemente, in concomitanza con il 20° anniversario del crollo del Muro di Berlino, il Cancelliere tedesco si rivolse per la prima volta dal 1957 a entrambe le Camere del Congresso statunitense. A. Merkel espresse gratitudine a J. Kennedy per la sua famosa affermazione di essere un berlinese, a R. Reagan che impose a Gorbachev di abbattere il Muro, e a George Bush (senior) che – contro la volontà di Francia, Gran Bretagna, Italia e URSS – dette la luce verde al progetto di unificazione di H. Kohl. Ma il quadro che lei tratteggiò non era del tutto corretto. Senza dubbio, A. Merkel ha tutte le ragioni per ringraziare gli USA. La verità però è che l’imposizione di R. Reagan piuttosto che servire da consiglio politico per Gorbachev è stata uno dei punti salienti della sua carriera di attore. Il ruolo di G. Bush fu differente. Egli fece numerosi tentativi per scoprire duranti i colloqui con la sua controparte sovietica quali mosse avrebbe adottato Mosca in caso di unificazione tedesca. Le forze del Gruppo Sovietico Occidentale sarebbero rimaste nelle caserme o avrebbero cercato di essere lo sbarramento del Reno? In definitiva capì che non c’era da attendersi una seria opposizione da parte di Gorbachev.

Nel giugno 1990 Gorbachev disse chiaramente a Bush che avrebbe accettato di riconoscere l’adesione alla NATO della Germania unificata qualora “questa dovesse essere la volontà del popolo tedesco”. Rimasto ben più che sorpreso G. Bush addirittura chiese a Gorbachev di ripetere quel che aveva appena detto.

Pertanto l’affermazione di A. Merkel che Bush “dette la luce verde” al piano di Kohl non rappresenta la realtà abbastanza adeguatamente. La situazione è ben più particolare riguardo le posizioni di Gran Bretagna e Francia.

Il Primo Ministro britannico M. Thatcher disse a Gorbachev che l’unificazione della Germania non sarebbe stata interesse della Gran Bretagna e dell’intera Europa occidentale, e suggerì di abbandonare il progetto del tutto. Lei fece presente che non c’era bisogno di alcuna revisione dei confini del dopoguerra in Europa in quanto ne sarebbe seguita la destabilizzazione, la sicurezza sarebbe stata messa a repentaglio e a tutte queste cose non si sarebbe potuto impedire di succedere. Il Presidente francese F. Mitterand disse che una nuova Germania unita avrebbe rappresentato una minaccia ancor maggiore di quanto fu sotto Hitler. Riteneva che l’unificazione tedesca avrebbe rivitalizzato i “cattivi” tedeschi che erano intenzionati a dominare l’Europa e avrebbe causato il ritorno dell’Europa alla situazione che esisteva prima della Grande Guerra…

Queste sono le motivazioni del passato. Attualmente la Germania unita è un leader europeo riconosciuto con grande potenziale economico, peso politico e prestigio internazionale. Berlino dispone ampiamente del futuro d’Europa.

Però, c’è una lezione particolarmente importante che dev’essere appresa dai due decenni trascorsi. Il crollo del Muro di Berlino non riuscì a lasciare solide fondamenta per la sicurezza paneuropea. Le speranza di milioni di europei di vedere un nuovo ordine mondiale migliore non si sono realizzate. Le guerre e i conflitti in Abkhazia, Afghanistan, Bosnia, Iraq, Kosovo, Macedonia, Karabakh, ex Jugoslavia ed Ossezia del Sud dimostrarono che nel mondo senza la stabilità garantita dal sistema bipolare non c’era più il tradizionale rispetto per la sovranità, l’integrità territoriale e l’indipendenza dei Paesi. Senza i principi fondamentali, la forza è diventata l’argomento principale nelle relazioni internazionali.

Vengono in mente le rime di Goethe: «Geld verloren – nichts verloren, Ehre verloren – viele verloren, Mut verloren – alles verloren, da waerst du besser nicht geboren» (Se il denaro è perso – niente è perso. Se l’onore è perso – parecchio è perso. Se il coraggio è perso – tutto è perso, perciò sarebbe meglio non essere mai nati) Sarebbe una gran cosa se il 9 novembre i leader di Europa e Russia trovassero il coraggio politico non solo di ammirare i frutti della libertà sulle rovine del Muro di Berlino, ma anche di fare un reale passo avanti assicurando una loro efficace protezione in futuro.

Traduzione a cura di Lorenzo Salimbeni

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Lo scontro Arabia Saudita – Yemen (Guerra di Saada)

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Lo scontro che sta coinvolgendo in queste settimane, la Repubblica dello Yemen e il regno dell’Arabia Saudita, ha origine dalle tensioni socio-economiche all’interno della repubblica di Sana’a. Tensioni che sono sfociate in scontri tra fazioni islamiste; da una parte il al-Tajammu al-Yamani li l-Islah (Raggruppamento Yemenita per le Riforme), movimento wahabita finanziato da Riyadh, la cui ascesa nello Yemen viene contrastata dall’imam Yahya al-Houthi, leaders di un movimento estremista zaidita (una corrente locale derivante dallo shiismo). Fu il presidente yemenita Ali Abdullah Saleh che dal 1994 armò e finanziò al-Houthi, inviandolo nella città di Saada, affinché contrastasse il diffondersi delle scuole wahabite. Ma col tempo le posizioni tra Sana’a e il movimento zaidita di al-Houthi mutarono, tanto che nel 2004 quest’ultimo ha iniziato a pretendere l’autonomia della provincia di Saada dall’autorità centrale.

L’ultima campagna militare del conflitto è iniziata nell’agosto 2009, quando le forze governative hanno aumentato la pressione militare sui guerriglieri. L’offensiva, denominata ‘Terra Bruciata’, ha provocato 3.800 morti e 16.000 feriti tra i militari e la popolazione civile, cui vanno aggiunti oltre 100.000 sfollati e vaste perdite materiali, secondo la Croce Rossa e le Nazioni Unite. Ciò ha spinto il presidente Saleh a chiedere l’aiuto dell’esercito saudita, per poter proseguire la campagna contro il movimento islamista zaidita.

Da parte sua, l’Arabia Saudita è intervenuta non solo per aiutare Sana’a, ma anche per contrastare gli sconfinamenti del movimento di al-Houthi nella località montuosa del Jebel Dukhan. L’Arabia Saudita teme di trovarsi tra due fuochi: la sollevazione zaidita a sud e un’eventuale insurrezione della numerosa minoranza sciita nel nord, che risiede nelle regioni petrolifere del paese. Le milizie zaidite, secondo Al Sharq Al Awsat, avevano preso il controllo della regione di Qatabar, nella provincia di Saada, al confine tra Yemen e Arabia Saudita. Il regno saudita si è cosi sentito sotto attacco, poiché la regione saudita del Jabal Dokhan, confinante con la provincia yemenita di Sadaa, era stata occupata temporaneamente dalle milizie di al-Houthi; un’azione che è costata due morti alle guardie di frontiera di Riyadh. Già il 10 novembre l’Arabia Saudita aveva imposto il blocco navale alle coste yemenite sul Mar Rosso, nel tentativo di bloccare i rifornimenti ai ribelli. Inoltre, il presidente Ali Abdullah Saleh, per poter strappare il sostegno saudita, ha rinunciato ufficialmente a reclamare quei territori yemeniti che sono occupati dai sauditi dal 1934, che hanno un’estensione equivalente a quella della Siria.

Il movimento zaidita ha, invece, accusato l’aviazione saudita di aver bombardato le proprie postazioni e di aver permesso alle truppe governative yemenite di attraversare il territorio saudita, con lo scopo di accerchiare le milizie del movimento di al-Houthi. Infatti, il 15 novembre 2009 l’aviazione saudita, nell’arco di 24 ore, effettuava 18 attacchi e ha lanciato più di 150 missili contro le postazioni dei ribelli zaiditi, alla frontiera con lo Yemen, colpendo le posizioni degli insorti nelle zone montuose di Jebel al-Doukhan, Jebel al-Doud, al-Sabkhayah e al-Ghaouia, mentre Sana’a inviava dei rinforzi verso la zona dei combattimenti. L’imam Abdel Malik al-Houti avrebbe annunciato, lo stesso giorno, di aver colpito con un razzo katjusha una base militare saudita. Il 19 novembre 2009 l’Arabia Saudita, secondo l’agenzia Press TV, avrebbe attaccato obiettivi civili nello Yemen, nelle regioni montuose del Malahit Maran, nella provincia di Saada. La battaglia più violenta si è svolta nella zona di Khoba, da dove i ribelli sono fuggiti dopo essere stati respinti dall’esercito saudita. La resistenza zaidita avrebbe distrutto 9 veicoli blindati delle forze armate dell’Arabia Saudita, sei Humvee e tre blindati, nelle province settentrionali di Omran e Harf Sufyan. Grave il bilancio degli scontri: 50 ribelli uccisi, 270 catturati e 400 seguaci dell’imam al-Houthi respinti dal territorio saudita, secondo la Tv satellitare ‘al-Arabiya’. Tra le fila delle forze della sicurezza saudita si conterebbero tre soldati morti, 15 feriti e tre dispersi.

Il risultato degli scontri indica quanto la guerriglia zaidita sia attiva al confine meridionale dell’Arabia Saudita. Al momento, le forze di sicurezza saudite controllerebbero la zona di frontiera con l’aiuto di civili armati, per impedire nuovi sconfinamenti da parte dei miliziani zaiditi. Ma nonostante Riyadh avesse dichiarato di aver sotto controllo la provincia, i bombardamenti contro le postazioni dei ribelli proseguivano per qualche giorno, mentre gli abitanti di 240 villaggi della zona non sarebbero ancora potuti tornare nelle proprie case, e le scuole locali rimanevano chiuse. Riyadh ha anche stabilito, nella provincia di Saada, un cordone sanitario profondo 7 miglia all’interno del territorio yemenita. L’intrusione territoriale, a quanto pare, è tollerata dal regime di Saleh.

L’esercito saudita ha detto che gli attacchi sono stati una rappresaglia per un precedente scontro tra i combattenti zaiditi e le forze di sicurezza saudite, dove sono rimasti uccisi due soldati dell’Arabia Saudita. I guerriglieri yemeniti avevano ammonito, il giorno prima, che ci sarebbero state ritorsioni contro l’Arabia Saudita, dato che Riyadh aveva acconsentito che le truppe governative dello Yemen lanciassero attacchi contro di loro, partendo dalla base militare saudita di Jabal al-Dukhan.

La rinuncia alle terre yemenite, già reclamate da Sana’a, ha suscitato viva irritazione presso la popolazione locale, provocando la reazione dei partiti d’opposizione islamici, nazionalisti e di sinistra. Un’opposizione che ha una considerevole base popolare in tutto il paese, e che al termine di un incontro, ha emesso un comunicato congiunto che accusa il governo di aver violato la sovranità nazionale, per poter condurre le operazioni contro la provincia di Saada.

Il presidente Saleh, per giustificare il suo operato e per garantirsi la legittimazione internazionale, soprattutto da USA ed emirati arabi del Golfo, invoca di volta in volta sia il presunto coinvolgimento iraniano a fianco di al-Houthi, peraltro mai dimostrato; sia la presenza di al-Qaida sul territorio nazionale, anche se fu proprio lui ad arruolare migliaia di jihadisti da utilizzare nella guerra contro la provincia di Aden (la ex-Repubblica Democratica Popolare), che nel 1994 si era ribellata all’autorità di Sana’a, e che poi impiegò contro gli altri suoi avversari nel resto del paese. Inoltre, il governo centrale di Sana’a fomenta le tensioni tra i gruppi tribali e settari, soprattutto nelle province nord-occidentali e meridionali del paese. Infatti, i miliziani del capo tribù Muhammad Ahmad Mansour, nella provincia di Ibb, a sud di Sana’a, hanno minacciato di distruggere le abitazioni di chi paga le tasse allo stato invece che al loro leader, come riferisce al-Sahwat. Mansour pretenderebbe per sé il pagamento del zaqat, la tassa islamica che i cittadini dello Yemen versano al governo. E tutto ciò accade mentre diventa sempre più aggressivo il movimento separatista filo-socialista nel sud dello Yemen, e il collasso economico causa disordini.

La milizia di al-Houthi avrebbe affermato, secondo fonti yemenite e saudite, di non appartenere più alla corrente sciita zaidita, tradizionalmente prevalentemente in Yemen, ma a quella duodecimana, prevalente in Iran. In un’intervista pubblicata sul sito iraniano Ayandenews, l’imam Issam al-Imad, che sarebbe collegato al movimento di al-Houthi, sosterrebbe che loro non sono più zaiditi e che studiano esclusivamente su testi religiosi che proverrebbero da Qom, capitale religiosa dell’Iran. Al-Imad sottolinea l’influenza di Khomeini e di Hasan Nasrallah sulla leadership del movimento di al-Houthi, augurandosi che esso instauri una repubblica islamica nel territorio yemenita da loro occupato. Nel frattempo il ministro degli esteri iraniano Manouchehr Mottaki, si é offerto di cooperare col governo dello Yemen per “ripristinare la sicurezza” nel paese, ammonendo che “coloro che versano benzina sul fuoco devono sapere che non saranno risparmiati dal fumo che si alzerà“. Intanto, secondo l’UPI del 18 novembre 2009, l’Iran ha inviato delle navi da guerra nelle acque dello Yemen, nel Golfo di Aden, col pretesto di combattere i pirati somali che predano le principali rotte di navigazione. Il dispiegamento iraniano coincide con il blocco navale dell’Arabia Saudita nel Mar Rosso, che ha inviato tre navi da guerra dalla sua base di Yanbu, per intercettare le spedizioni di armi che, asserisce Riyadh, sono inviate dall’Iran e dall’Eritrea ai ribelli sciiti che combattono le forze saudite nello Yemen del nord. Le relazioni tra l’Eritrea e Yemen sono state tese per qualche tempo, e scontri di frontiera sono stati segnalati negli anni ‘90. Il regime di Asmara è accusato dai suoi vicini di aiutare i militanti islamici che combattono in Somalia.

Il governo del presidente Saleh sostiene che anche gli iraniani armano i ribelli Zaiditi. Il regime di Sana’a sostiene che la sua marina ha intercettato nel Mar Rosso, il 26 ottobre, una nave con equipaggio iraniano carica di armi. Il comandante dell’esercito iraniano, il maggior generale Hassan Firouzabadi, ha avvertito che l’Arabia Saudita che il “terrorismo di stato wahhabita” nello Yemen potrebbe avere conseguenze in tutta la regione. La stampa ufficiale saudita ha riferito che re Abdullah s’è incontrato con il direttore generale della Central Intelligence Agency, Leon Panetta, a Riyadh il 15 novembre 2009. A Washington, il segretario alla Difesa Usa, Robert Gates, ha incontrato il vice ministro della difesa dell’Arabia Saudita, il principe Khaled bin Sultan, per discutere di “questioni di sicurezza regionale“.

22/11/2009

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I verbali di Hitler (1942-1945). Volume secondo

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Fonte: Libreria Editrice Goriziana

I verbali di Hitler

Rapporti stenografici di guerra 1942-1945

Volume secondo: 1944-1945

a cura di Helmut Heiber

Collana: “LEGuerre”, n° 60

Brossura, pagine: 563

Prima edizione “LEGuerre”, novembre 2009

ISBN: 978-88-6102-094-8

prezzo: Euro 35,00 i.i.

Note:

Traduzione di Flavia Paoli

Con 15 cartine nel testo.

Il libro

Fu la grave crisi di fiducia nei confronti dei suoi generali – in particolare Halder e Jodl -, sorta a motivo dell’arbitraria esecuzione delle sue direttive durante l’avanzata tedesca nel Caucaso nell’estate del 1942, a indurre Hitler a istituire il “Servizio Stenografico al quartier generale del Führer” (Stenographischer Dienst im Führerhauptquartier). A suo vedere, la registrazione stenografica delle riunioni con i collaboratori militari avrebbe evitato che i comandanti potessero in futuro addurre, a propria giustificazione, l’aver ricevuto ordini diversi da quelli effettivamente da lui trasmessi. Già nei primi due anni di guerra Hitler richiedeva due volte al giorno un rapporto sulla situazione bellica, senza però che i capi militari supremi venissero convocati, a meno che la situazione lo richiedesse. Con l’inizio della campagna orientale, le riunioni informative – che si tenevano nella cosiddetta “Wolfsschanze”, presso Rastenburg, nella Prussia Orientale – diventarono più regolari: quotidianamente si tenevano la riunione di mezzogiorno e la riunione serale. Successivamente, Hitler iniziò a far stenografare sinteticamente le sue “conversazioni a tavola” (verbali che abbracciano il periodo tra il 5 luglio 1941 e il 7 settembre 1942). Dopo lo scontro con Jodl (avvenuto proprio la notte del 7 settembre), Hitler ordinò la registrazione stenografica anche delle riunioni informative, affidata a personale qualificato.

Quando, a metà aprile 1945, l’attività degli stenografi presso il quartier generale del Führer si concluse, erano stati accumulati 103.000 fogli, redatti su una sola facciata. A fine mese, con il tracollo tedesco e in previsione dell’imminente occupazione americana, si dovette decidere il destino dei verbali; i primi di maggio del 1945, all’Hintersee, non distante da Berchtesgaden, i documenti furono bruciati (in tale decisione, fu determinate l’influenza dello storico militare Scherff, mentre l’ordine partì sostanzialmente da Bormann), ma un migliaio di pagine – quelle che costituiscono pressoché integralmente il materiale di questo libro, trascrizione fedele delle parole di Hitler nei suoi incontri con i vertici militari del Reich dal dicembre del ’42 alla primavera del ’45 – si salvarono, grazie al lavoro svolto dal Military Intelligence Service americano nei giorni immediatamente successivi all’occupazione.

Di inestimabile valore storico, I verbali di Hitler travalicano le valenze legate alle risoluzioni strategiche che, ormai nelle mani del Führer, gradualmente segnarono la disfatta militare tedesca e trascinarono la Germania nell’abisso; dall’opera traspaiono i rapporti quantomeno conflittuali tra Hitler e i suoi generali, quei generali che, negli anni dell’autogiustificazione, ebbero gioco relativamente facile nell’imputare il naufragio di idee sempre giuste e promettenti degli stati maggiori al dilettantismo del loro “caporale comandante”. Nella resa dei conti postbellica tra i generali e Hitler, questo è l’unico caso in cui la parola non viene data solo agli accusatori, ma anche all’accusato, anche se di norma possiamo vedere il condottiero Hitler solo attraverso gli occhi dei primi. Le scelte di “guerra totale” e “guerra fino a cinque minuti dopo la mezzanotte” non furono decisioni militari, ma politiche; queste e molte altre scelte vanno addebitate all’uomo politico Hitler, non al comandante militare.

Il curatore

Lo storico Helmut Heiber (Lipsia, 1924-Monaco di Baviera, 2003), già sottotenente dell’artiglieria contraerea durante la Seconda guerra mondiale, fu segnato dai difficili anni di prigionia in Jugoslavia. Dopo il conflitto, si dedica agli studi che negli anni ne faranno una figura di riferimento per la ricerca di storia contemporanea in Germania. Egli ha legato il suo nome ai monumentali interventi di riordino e catalogazione negli archivi della Seconda guerra mondiale, con un approccio che ha di fatto reso disponibile una grande quantità di documenti, come nel caso delle carte relative al Processo di Norimberga. A Heiber si devono biografie di Adolf Hitler e Joseph Goebbels, lavori dedicati all’università sotto il nazismo, opere fondamentali sulla Repubblica di Weimar presto diventate dei “classici” per la formazione di generazioni di studenti. Il suo lavoro sui Verbali di Hitler ha permesso di interpretare e contestualizzare con efficacia una mole di documenti archivistici altrimenti di ostico approccio.

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La lobby israeliana chiede al Congresso USA di fermare il processo Ergenekon in Turchia

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Fonte: Voltairenet 20 novembre 2009

L’inchiesta sulla rete Ergenekon, che preparava un colpo di stato per rovesciare il governo di Erdogan e stabilire una dittatura militare pro-USA, ha rivelato che l’organizzazione terroristica era una nuova forma della Gladio turca. Tuttavia, Ergenekon non avrebbe obbedito solo alla NATO, ma avrebbe avuto anche stretti legami con il Mossad, attraverso il rabbino Tuncay Guney.

Non sorprenderà sapere che il 18 Novembre 2009, si è tenuto un seminario presso il Congresso degli Stati Uniti, per negare l’esistenza di Ergenekon e garantire che è un mito creato dal governo Erdogan per screditare il generale Mehmet Yasar Buyukanit, Capo di Stato Maggiore, e gli ufficiali pro-USA che lo circondano, con lo scopo di creare uno stato islamico.

I partecipanti hanno sottolineato che gli Stati Uniti dovrebbero intervenire, con urgenza, per fermare il processo, ma non dovrebbero farlo apertamente perché così avrebbero alimentato le teorie del “complotto” secondo cui la NATO avrebbe anche istituito in Turchia, uno “stato profondo” che manipolerebbe o tenterebbe di manipolare da decenni le istituzioni pubbliche.

Il seminario è stato organizzato dalla Fondazione ARI, un think-tank discreto, incaricato di promuovere i rapporti tra Washington e Ankara. In realtà, la Fondazione ARI è una marionetta della lobby israelo-atlantista. In linea con lo stratega Robert Strausz-Hupé, si raccomanda un asse Tel Aviv-Ankara, sotto l’egida della NATO, per controllare il Medio Oriente.

La Fondazione ARI è stata istituita a Washington all’indomani degli attentati dell’11 settembre. Da due anni pubblica una rivista di scienze politiche: Turkish Policy Quaterly. Ha legami con l’AIPAC (American Israel Public Affairs Committee) e il JINSA (Jewish Institute for National Security Affairs). Il suo direttore, Yurter Ozcan è un dipendente del WINEP (Washington Institute for Near East Policy).
La Fondazione ARI conterebbe tra i suoi membri più attivi Antony Blinken, il consigliere per la sicurezza nazionale del Vice-Presidente Joe Biden.

(Foto: il senatore John McCain insieme con Duygu e Yurter Ozcan alla cena annuale del JINSA).

Riferimenti:

«Ergenekon: une légende urbaine?», Orhan Kemal Cengiz, Réseau Voltaire, 9 luglio 2009.
«L’organisation Ergenekon mise en cause pour ses relations privilégiées avec Hizb ut-Tahrir», Mutlu Özay e Mustafa Turan, Réseau Voltaire, 3 agosto 2009.

Traduzione di Alessandro Lattanzio
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Cina e Corea del Nord s’impegnano a rafforzare l’alleanza

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AFP 23 novembre 2009 – I ministri della difesa cinese e della Corea del Nord si sono impegnati a rafforzare la loro alleanza militare – che risale alla guerra di Corea – durante i colloqui a Pyongyang. La mossa arriva dopo che il ministro della difesa cinese, Liang Guanglie, è arrivato in Corea del Nord per colloqui, ha detto la Korean Central News Agency (Kcna).

Liang ha detto al ministro della difesa di Pyongyang, Kim Yong-Chun, che le relazioni bilaterali sono state “sigillate col sangue” quando lui e le altre truppe cinesi hanno combattuto la guerra coreana del 1950-1953 dalla parte della Corea del Nord. “Nessuna forza sulla terra può rompere l’unità degli eserciti e dei popoli dei due paesi, che durerà per sempre”, ha detto Liang. “E’ da sempre obiettivo costante delle forze armate e del popolo della Corea, consolidare e sviluppare l’amicizia Cina – Corea del Nord, che ha superato tutte le prove della storia”, ha detto Kim Yong-Chun.

I ministri della difesa hanno avuto colloqui “camerateschi e amichevoli”, secondo il rapporto della Kcna; Liang è arrivato a Pyongyang in aereo il 22 novembre, ha ispezionato un picchetto d’onore, ha partecipato a una festa, ha presentato un dono per il leader nordcoreano Kim Jong-Il, ed ha incontrato Kim Yong-Chun, ma non hanno fornito ulteriori dettagli sul suo viaggio. I media di Stato cinesi hanno annunciato che Liang avrebbe viaggiato in tre nazioni, Corea del Nord, Giappone e Tailandia, dal 22 novembre al 5 dicembre. Il viaggio precede con quello di Stephen Bosworth, rappresentante degli Stati Uniti per la politica con la Corea del Nord, che è in programma per l’8 dicembre, al fine di convincere lo stato comunista a tornare ai colloqui a sei sul disarmo nucleare. La Corea del Nord ha chiuso i colloqui ad aprile, un mese prima di testare una sua seconda arma atomica. Pyongyang ha detto ad ottobre, che era pronta a tornare ai colloqui, ma solo se gli incontri bilaterali con gli Stati Uniti facevano dei progressi. Pur essendo uno dei pochi alleati rimasti della Corea del Nord, la Cina ha aderito alle sanzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, per punire Pyongyang per il suo programma di armi nucleari e i test missilistici. Ma la Cina si oppone fermamente a qualsiasi iniziativa che possa aggravare ulteriormente le tensioni nella instabile penisola coreana.

Il Rodong Sinmun, quotidiano del partito comunista e organo ufficiale della Corea del Nord, ha denunciato il recente scontro navale del 10 novembre, quale mossa di USA e Corea del Sud per innescare una nuova guerra. Imbarcazioni delle marine delle due Coree hanno avuto un breve, ma intenso, scontro a fuoco nei pressi del contestato confine marittimo sul Mare Giallo; la prima scaramuccia in sette anni. Seoul ha detto che la sua flotta ha incendiato un pattugliatore della Corea del Nord, e i media locali hanno detto che un marinaio nordcoreano è stato ucciso e tre feriti.

Pyongyang ha minacciato di prendere delle “spietate” azioni militari per proteggere il proprio versante del Mar Giallo, al confine con la Corea del Sud, ed ha avvertito che Seul pagherà a caro prezzo un qualsiasi futuro scontro navale. Il Nord si rifiuta di riconoscere il confine fissato dalle Nazioni Unite dopo la guerra del 1950-1953, e chiede che sia spostato più a sud.

Traduzione di Alessandro Lattanzio
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Brasile e Venezuela sostenitori di Ahmadinejad sul nucleare

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AFP 22 novembre 2009 – Di fronte alla crescente pressione per le ambizioni atomiche del suo paese, il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad ha iniziato un viaggio in cinque nazioni, tra cui il Brasile, nel tentativo di rafforzare i legami con l’economia più grande dell’America Latina e sostenitore del programma nucleare di Teheran.  Da quando è salito al potere nel 2005, Ahmadinejad ha cercato di rafforzare i legami con i leader della sinistra sud americana, e gode di “legami fraterni” con Hugo Chavez, presidente del Venezuela.

Il suo viaggio di cinque giorni riguarderà anche il Venezuela, così come un altro paese latinoamericano di sinistra, la Bolivia e dei paesi dell’Africa occidentale, Senegal e Gambia. “Le nazioni come l’Iran, Brasile, Venezuela, Gambia e Senegal hanno la capacità di ristabilire un nuovo ordine mondiale“, ha detto Ahmadinejad, prima di lasciare Teheran. Evidenziando i crescenti legami di Teheran con il Brasile, ha detto: “l’Iran e il Brasile hanno una visione comune sulla situazione nel mondo e sono decisi a sviluppare la loro cooperazione.”

L’influenza della repubblica islamica nel ‘cortile di casa’ degli Stati Uniti ha innervosito Washington e il suo alleato chiave del Medio Oriente, Israele, suscitando speculazioni secondo cui Venezuela e Bolivia potrebbero fornire uranio all’Iran per il suo controverso programma nucleare.

Il presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva sostiene il programma di sviluppo nucleare dell’Iran, il Brasile vuole elevare il suo profilo diplomatico, giocando un ruolo di mediazione in Medio Oriente. Lula, che ha ospitato il presidente israeliano Shimon Peres all’inizio di novembre, è fermamente contrario alle sanzioni contro l’Iran ed ha chiesto diplomazia e colloqui. In un’intervista con l’AFP a settembre, Lula ha detto che le critiche all’Iran gli ricordano la falsa giustificazione di Washington per la guerra in Iraq. “Anche oggi, i leader a favore della guerra all’Iraq, non sono in grado di spiegare perché l’hanno invaso, se non c’erano le armi chimiche. Beh, io sto vedendo che lo stesso genere di cose incomincia ad accadere anche per ‘Iran“, ha detto. L’Iran è già sottoposto a tre sanzioni dell’Onu, per il suo rifiuto di sospendere l’arricchimento dell’uranio.

Prima della visita, Ahmadinejad ha accolto con favore il sostegno di Brasilia al programma nucleare di Teheran. “Sebbene ci sia una polemica pretestuosa, nei paesi occidentali, nei confronti dell’Iran, il programma nucleare è pacifico, ed il popolo del Brasile sta con il popolo iraniano“, ha detto Ahmadinejad in un comunicato. “Se il popolo brasiliano e il popolo iraniano sono uniti su questioni come l’attacco crudele del regime sionista alla popolazione inerme di Gaza, questo, a sua volta, mostrerà desiderio per la pace”, ha aggiunto.

Durante la visita di Ahmadinejad, si discuterà di cooperazione nei settori della tecnologia, produzione di petrolio ed esplorazione dello spazio. Nel suo viaggio in Bolivia, che possiede la seconda riserva di gas più grande del Sud America, Ahmadinejad e il suo omologo Evo Morales, terranno un incontro privato e firmeranno accordi bilaterali, ha detto La Paz. E in Venezuela, il presidente iraniano riceverà un caloroso benvenuto per i suoi buoni rapporti con Chavez, essendo i due leader noti per le loro politiche economiche populiste e per gli attacchi agli USA. Chavez, che supporta il programma nucleare di Teheran, è stato frequentemente in Iran, fin dalla presidenza del predecessore di Ahmadinejad, Mohammad Khatami, il presidente riformista.

Traduzione di Alessandro Lattanzio
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Michel Collon, Les 7 péchés d’Hugo Chavez

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Michel Collon
Les 7 péchés d’Hugo Chavez
Investig’Action – Couleur livres

Prezzo: 20.00 €
408 pagine
Formato : 16 x 24 cm
ISBN: 2-87003-530-6
Per ordinare il libro, scrivere a : commandes@investigaction.info

Il libro
Narra la storia sconosciuta del petrolio e come essa abbia determinato la nostra storia e determinerà i grandi conflitti del futuro.

Narra la faccia nascosta dell’America meridionale e rivela i meccanismi di sfruttamento del terzo mondo, occultati dai media ufficiali.

Analizza la strategia statunitense per la dominazione del mondo.

Descrive i meccanismi  e i luoghi delle multinazionali.

Si interroga sui loro piani strategici.

Ma è anche il racconto di un osservatore privilegiato della formidabile avventura del Venezuela.

Un uomo dice che si può resistere alle multinazionali e vincere la povertà.

Populismo o alternativa reale? Quali sono i veri “peccati” di Hugo Chavez?

Un libro fondamentale, ma semplice ed appassionato.

Una  chiave per comprendere dove va il mondo…

L’autore
Michel Collon, scrittore e giornalista belga, ha condotto analisi sulle strategie di guerra degli Stati Uniti e sulle campagne di disinformazione.
Consigliere di TeleSur, analista dei media e fondatore del sito d’informazione alternativa Investig’Action.

Tra le sue pubblicazioni: Attention, médias ! , Poker menteur, Monopoly e Bush le cyclone.

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L’uranio in Iraq, l’eredità avvelenata della guerra

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Fonte: Globalresearch – 15 novembre 2009

Recensione a:
Uranium in Iraq
The Poisonous Legacy of the Iraq Wars
di: Abdul-Haq Al-Ani e Joanne Baker
Vandeplas Publishing, 2009

Hegel ha messo in rilievo la comparsa del ”male concreto” nella storia, cioè l’eruzione intermittente  della malvagità umana che, applicata su  larga scala, è capace di distruggere intere società.

Hegel nota che alcuni autori di crimini planetari storici nascono unicamente dalla passione, dall’amor proprio e dall’avidità dall’odio e che questi autori ignorano completamente ”l’ordine, la moderazione, la giustizia e la moralità” [1].

L’aggressione imperialista contro l‘Iraq è iniziata con la prima guerra del Golfo .

Questa ha raggiunto il suo parossismo con gli attacchi” d’urto e terrore” lanciati dagli eserciti  statunitense e britannico nel 2003 e proseguiti ancor oggi quasi vent’anni dopo,manifestarono un orribile esempio di cattiveria  estrema in uno scenario dantesco.

Il  fondamentale librodi Abdul-Haq Al-Ani e Joanne Baker (Uranium in Iraq: the poisonous legacy of the Iraq wars), descrive una spaventosa impresa criminale  che si sta realizzando unicamente in Iraq: la contaminazione    premeditata della nazione irakena, del suo popolo e del suo ambiente naturale attraverso le radiazioni   finora sconosciute, attuate da un’arma di distruzione di massa che è  strumento di   guerra implacabile, confezionato a partire da una discarica mondiale praticamente inesauribile di uranio impoverito.

Alla fine di febbraio 1991 le inquietanti fotografie della stampa e le immagini televisive dell’”Autostrada della morte” mostravano  le vedute del deserto con i veicoli irakeni civili e militari carbonizzati e accartocciati , distrutti a sangue freddo da colpi inferti dagli aerei statunitensi  durante l’uscita precipitosa di Saddam Hussein dal Kuwait.

All’epoca, molti pensavano  che il mondo sarebbe stato sicuramente disgustato da una tale barbarie. Ma la sola vista di quelle  immagini sarebbe stata sufficiente a rafforzare   il sentimento popolare contro la guerra ,incitando i combattenti alla pace?

La sequela di crudeltà   sulla strada   che và dal  Kuwait a Bassora era il segnale d’inizio di una crociata che si sarebbe svolta durante la maggior parte dei due decenni successivi.

E nessuna fotografia, nessun video televisivo, nemmeno il senso della vista, del gusto, della sensibilità e dell’odorato dei testimoni sul posto  avrebbe potuto rivelare la  segreta perversità  di quelle virulenti immagini dei mortali detriti radioattivi e tossici emessi come  nuvole di vapore  invisibile dai missili, dalle granate e da altre armi all’uranio impoverito ,che avrebbero in seguito contaminato  la regione del Golfo  per almeno un millennio.

Nel 1988,  dichiarando che Saddam Hussein era ”peggio di Hitler”, George H. W. Bush instaurò un’offensiva di propaganda diffamante  e di gran successo contro il popolo iracheno.

La calunnia contro l’Iraq si è protratta fino ad oggi nella sua incapacità di sollecitare una protezione contro l’avvelenamento radioattivo e chimico dell’uranio impoverito o anche nell’effettuare e far conoscere al pubblico le ricerche scientifiche sul pericolo di contaminazione  per gli esseri umani e e per gli animali. Il libro ci descrive come i governi statunitense e britannico si preoccupino seriamente dei depositi di uranio impoverito solo se si tratta del  proprio territorio e dei suoi  cittadini.

La nazione irachena è diventata una gigantesca  colonia di sperimentazione che serve a misurare il pericolo degli irradiamenti  ionizzanti  e la tossicità associata alla dispersione irresponsabile di uranio impoverito.

Da un punto di vista puramente militare, l’uranio impoverito ha un ottimo rapporto qualità-prezzo [2]

Si tratta di uno scarto radioattivo  proveniente dai  reattori nucleari  e dalle fabbriche di armi nucleari.

I fornitori sono impazienti di sbarazzarsene, perché la sua cessione gratuita ai militari è un’attraente alternativa  con un  costo proibitivo  di smaltimento senza pericolo di “scarti nucleari”.

L’uranio impoverito è chimicamente tossico allo stesso livello del piombo ma è quasi due volte più denso e molto più duro.

L’uranio impoverito si profila  da solo: trapassa  le materie più dure aumentando la sua capacità di penetrazione. A gran velocità, l’uranio impoverito brucia attraversando i bersagli compatti come la blindatura dei carri armati e fuoriesce dall’altra parte con un’intensa esplosione di fuoco e di gas mortali.Come riferito da questo libro, dal 1991, più di 2000 tonnellate di uranio impoverito bruciato,  esploso e polverizzato sono state disperse in Iraq dagli eserciti statunitense e britannico.

Dal 1991, davanti al mondo indifferente, l’imperialismo occidentale ha imposto un embargo totale nei confronti dell’Iraq: è la prima volta nella storia moderna che una nazione viene completamente isolata dal commercio estero e dalle comunicazioni.

Solo gli assedi dei barbari nel Medioevo somigliano vagamente a questo spettacolo di sofferenza in Iraq.

Anche sotto il profilo scientifico e di ricerca l’Iraq ha dovuto soccombere.

Senza un minimo motto di dissidenza da  parte  della comunità internazionale, per i ricercatori e per gli scrittori iracheni, l’imperialismo ha proscritto non solo gli elementi vitali e necessari alla ricerca, ma anche le fonti internazionali della ricerca scientifica e la loro diffusione.

Abdul-Haq Al-Ani e Joanne Baker  sostengono in quest’opera un calcolo scientifico iniziale di spoliazioni all’uranio impoverito dietro la cortina dell’uranio [3].

Gli autori non sostengono apertamente che il cattivo stato di salute della popolazione irachena sia interamente dovuto alla contaminazione dell’uranio impoverito.

Tuttavia, diversi motivi sono dietro l’enorme  aumento delle malattie, specialmente oncologiche  e correlate a  malformazioni neonatali tra gli iracheni.

L’imperialismo statunitense e quello britannico  hanno distrutto l’infrastruttura  sociale  del paese, in particolare le installazioni per il trattamento delle acque, le centrali elettriche, i mercati delle provviste , gli ospedali e le scuole. Gli incendi  incontrollati per la combustione del  petrolio hanno  inquinato l’aria.

Vittima della malnutrizione e  delle sorgenti di acqua contaminata, il sistema immunitario di molti bambini ha subito un  drastico calo.

Anche la farsa del processo e dell’assassinio di Saddam Hussein non hanno soddisfatto l’invasore occidentale. Dopo l’eliminazione del leader iracheno, l’embargo è rimasto e l’infrastruttura si è deteriorata ed è  peggiorata a livelli ante guerra, periodo in cui  l’Iraq  beneficiava di un servizio sanitario composto da  34.000 medici registrati.

Nel 2006, erano già fuggiti  20.000 medici. I duemila medici  rimasti sono stati   uccisi e 250 sono stari rimossi dal loro incarico.

Nel 2007, 8 milioni di iracheni avevano bisogno del pronto soccorso e più della metà dei 22 milioni di abitanti era nella povertà più assoluta.

La Croce Rossa ha segnalato l’anno scorso che la situazione umanitaria in Iraq  è tra le più critiche del globo.

Gi apologisti parlano di un ” fallimento” della politica statunitense e britannica in Iraq, dell’impotenza dell’occupante di costruire un sistema democratico stabile per rimpiazzare l’ordine del partito Bhaas sotto Saddam Hussein [4].

Ma la pace e la sicurezza non sono mai state nel programma del militarismo statunitense e britannico.

Il loro lavoro consiste nel depredare , nel dividere, nell’avvilire e nel paralizzare   l’Iraq per assicurare che questo paese non si beffasse mai più del dominio e  del potere supremo occidentale..

Secondo la Convenzione del 1948 sulla prevenzione del genocidio, il crimine del genocidio comprende gli atti  commessi con l’intenzione di distruggere un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso. Questi atti comprendono il massacro dei membri di un gruppo, l’oltraggio  grave all’integrità fisica o mentale dei membri del gruppo e l’azione di infliggere deliberate condizioni destinate a distruggere il gruppo nella sua totalità o in parte.

Gli autori del libro presentano prove convincenti sull’uso scriteriato  dell’uranio  impoverito in Iraq fatto dalla potenza occupante così come le ripercussioni dell’embargo e dell’invasione, sono conformi ai rudimenti della  definizione di genocidio.

Questo libro include i risultati  tratti da studi controllati da scienziati iracheni, sulla relazione tra la presenza dell’uranio impoverito, le radiazioni ionizzanti e il tasso di patologie maligne contratte in condizioni estremamente sfavorevoli dai 7 ai 10 anni dopo l’aggressione del 1991.

Questi studi   epidemiologici e le misure degli irradiamenti    elevati sono per forza rudimentali e incompleti.

Tuttavia, associati ai rapporti documentati sulle malformazioni neonatali e sulle patologie oncologiche legate all’esposizione delle radiazioni dall’invasione del 2003 (di cui un aumento marcato del carcinoma mammario tra le donne  irachene) questi    studi sono i primi a presentare un quadro  estremamente inquietante.

Alcune prove allarmanti rivelate dagli autori di questo libro costituiscono una raccolta ben articolata sul  genocidio in Iraq, messo in atto dagli invasori statunitensi e britannici grazie al ricorso indiscriminato di armi rinforzate all’uranio impoverito.

Traduzione a cura di Stella Bianchi, italiasociale.org

Note:
1.  Lectures on the Philosophy of World History.Introduction:Reason in History.Trans.H.B.Nisbet.Cambridge:Cambridge University Press 1975 p.21

2. Per un riassunto utile delle problematiche relative l’uranio impoverito, vedere Rob White Depleted Uranium, state crime and the politics of knowing Theoretical Criminology.vol.12(1):31-54,2008

3. La Commissione sull’energia atomica statunitense ha fatto scoppiare la prima bomba all’idrogeno nel 1954 sulle Isole Marshall, sotto il nome in codice “Bravo”.Le radiazioni mortali dell’enorme palla  di fuoco nucleare si abbatterono sugli abitanti delle isole , sugli scienziati e  sul personale dell’esercito statunitense. L’amministrazione di Eisenhower tentò invano di soffocare la notizia della catastrofe. L’occultamento operato dagli Stati Uniti fu soprannominato The uranium curtain (La cortina dell’uranio) dai suoi censori. Citato da Shane Maddock nel  The Fourth CountryProblem:Eisenhower’s Nuclear Nonproliferation Policy pubblicazione trimestrale degli Studi Presidenziali; estate 1998; 28,3 p.555Ad esempio Daniel Byman,   An autopsy of the Irak Debacle:Policy Failure or Bridge Too Far? Security Study 17:599-643, 2008

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Gianfranco La Grassa, Tutto torna ma diverso. Capitalismo o capitalismi?

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Gianfranco La Grassa
Tutto torna, ma diverso. Capitalismo o capitalismi?
Mimesis Edizioni, Milano 2009.
ISBN 9788884839459
Euro 14,00

Il libro
Questo libro tratta degli aspetti economici (produttivi e finanziari) del(dei) capitalismo(i), tuttavia nell’ambito di prevalenti “strutture” dei rapporti tra gruppi e raggruppamenti sociali. L’ipotesi centrale è che gli agenti capitalistici giocano un conflitto di strategie che comporta dinamici processi di sviluppo-crisi-trasformazione (dei rapporti sociali).

Il gioco del conflitto capitalistico ha sue regole generali, ma è condotto da giocatori “individuali” (gruppi sociali) che le interpretano e le modificano, venendosi così a trovare in un “mondo nuovo”, di cui si ha in genere comprensione alla fine del periodo storico di trapasso. Da qui nasce l’esigenza della memoria storica, della comprensione del nostro passato (il “tutto torna”), servendoci però d’essa al fine di apprestare nuovi orientamenti utili nella presente epoca, in cui tutto si manifesta in forme differenti. A partire dall’interpretazione dei caratteri di quello che l’autore denomina capitalismo borghese (grosso modo, dagli anni trenta-quaranta dell’ottocento alla prima guerra mondiale), si conduce l’analisi di quello più moderno dei funzionari del capitale, traendone previsioni per le future trasformazioni già iniziate nella fase storica che stiamo vivendo.

L’autore
Gianfranco La Grassa già docente di Economia politica nelle Università di Pisa e Venezia. Allievo di Antonio Pesenti e di Charles Bettelheim. Studioso di marxismo e di strutture della società capitalistica. Autore di innumerevoli articoli e decine di libri. Fra gli ultimi: Gli strateghi del capitale (2006) e Finanza e poteri (2008), entrambi con la Manifestolibri. Per maggiori notizie e bibliografia, vedi: www.lagrassagianfranco.com.

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Il leader iraniano salutato con gli onori militari in Bolivia

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AFP 24 novembre 2009 – Il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad è arrivato in Bolivia per una breve visita, e ha prontamente rilasciato una dichiarazione congiunta con il presidente Evo Morales, relativa al diritto di tutte le nazioni a perseguire l’uso dell’energia nucleare per scopi pacifici. Nel viaggio nelle tre nazioni di sinistra, dell’America Latina, in sintonia con la sua amministrazione, Ahmadinejad è stato salutato da Morales, all’aeroporto internazionale di La Paz, con gli onori militari, prima di andare con lui al centro della città.

In una conferenza stampa congiunta dopo il loro incontro, Ahmadinejad e Morales hanno espresso la loro alleanza contro “l’imperialismo“, cioè gli Stati Uniti. Il leader iraniano ha detto al padrone di casa che, “nonostante gli ostacoli posti da parte dell’imperialismo e dai nostri nemici, la collaborazione tra i nostri due paesi cresce di giorno in giorno“. Morales ha detto: “E’ mia esperienza sapere che l’imperialismo soffoca lo sviluppo.” I due presidenti hanno firmato una dichiarazione congiunta che “riconosce il legittimo diritto di tutti i paesi a utilizzare e sviluppare l’energia nucleare per scopi pacifici, nel quadro del diritto internazionale“. In questo modo, la Bolivia ha implicitamente sostenuto la ricerca iraniana per l’energia nucleare.  I leader hanno, inoltre, firmato un accordo che vedrà l’Iran coinvolto nella ricerca mineraria in Bolivia, a Salar de Uyuni, un vasto deserto di sale vicino al confine con il Cile, che detiene la metà delle riserve conosciute mondiali di litio, un minerale strategico, utilizzato nelle batterie ricaricabili per telefoni cellulari, laptop e auto elettriche. Aziende francesi, giapponesi e sud coreane sono in competizione per investire nel settore, che si stima contenga fino a 100 milioni di tonnellate di litio.

Il leader iraniano ha iniziato il suo itinerario in Brasile, dove il suo ospite, il presidente Luiz Inácio Lula da Silva, ha ribadito il sostegno all’Iran sul controverso programma nucleare. Eppure, Lula ha invitato il suo omologo iraniano a proseguire i colloqui con i paesi occidentali. Teheran dovrebbe “proseguire i contatti con i paesi interessati a una soluzione giusta ed equilibrata sulla questione nucleare dell’Iran“, ha detto Lula.

La visita di Ahmadinejad in Bolivia e in Venezuela, volta a rafforzare i rapporti con i paesi latinoamericani, è stata preceduta da una riunione con uomini d’affari iraniani, in rappresentanza di 70 società, nella capitale del Venezuela, Caracas, per i colloqui sul commercio. “Abbiamo una base solida, che abbiamo creato in questi anni di nostri rapporti, e mostra come siano falsi gli attacchi dell’impero mondiale“, ha detto il ministro degli Esteri venezuelano, Nicolas Maduro, riferendosi agli Stati Uniti, nei commenti trasmessi dalla rete televisiva VTV.

Traduzione di Alessandro Lattanzio
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Si intensificano i rapporti tra Iran e Bielorussia

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26-11-2009
Mercoledì è arrivato a Minsk Mahmoud Bahmani, governatore della Banca centrale della Repubblica iraniana . Lo scopo della visita, che durerà tre giorni, è quello di intensificare la cooperazione economica e finanziaria tra Minsk e Teheran.
Mahmoud Bahmani incontrerà il primo ministro bielorusso Sergei Sidorsky, il ministro dell’economia Nikolai Zaichenko, quello dell’industria e il direttore della Banca nazionale bielorussa, Pyotr Prokopovich.

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America del sud nella geopolitica mondiale

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Mercoledì  25 novembre a Córdoba (Argentina), nella sede del Palacio Ferreyra ha avuto luogo la conferenza America del sud nella geopolitica mondiale. Nel corso della conferenza è stata presentata  l’opera “Diccionario Latinoamericano de Seguridad y Geopolitica“.

La conferenza è stato organizzta dal Laboratorio Cultural latinoamericano col patrocinio della Secretaria de cultura de Córdoba .

Tra i partecipanti il Dr. Marcelo Gullo (a destra nella foto e Lic. Carlos Pereyra Mele (a sinistra nella foto), esperti di relazioni internazionali e geopolitica.

Carlos A. Pereyra Mele, geopolitico argentino, membro del Centro de Estudios Estratégicos Suramericanos. Contributi pubblicati: Difesa nazionale e integrazione regionale (nr. 3/2007, pp. 101-106), La guerra infinita in America (nr. 4/2008, pp. 125-129).
Molti suoi articolo sono stati pubblicati nel sito di Eurasia. Rivista di studi geopolitici www.eurasia-rivista.org.

Marcelo Gullo, docente universitario argentino. Tra le sue recenti pubblicazioni: Argentina-Brasil. La gran oportunidad, Editorial Biblos, Buenos Aires 2005; La insubordinacion fondante. Breve historia de la construccion del poder de las naciones, Editorial Biblos, Buenos Aires 2008.
Alcuni suoi articolo sono stati pubblicati nel sito di Eurasia. Rivista di studi geopolitici www.eurasia-rivista.org.

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Accordi tra Cina e Ecuador

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L’Ecuador acquista aerei da guerra cinesi

AFP 24 novembre 2009 – Ecuador e Cina hanno firmato tre accordi di cooperazione del valore di 442 milioni di dollari e l’Ecuador ha ottenuto un credito per acquistare quattro aerei da guerra. Gli accordi sono stati firmati durante la visita di Jia Qinglin, presidente del Comitato consultivo politico dell’Assemblea Nazionale del Popolo Cinese, che ha incontrato il presidente Rafael Correa, durante la visita nell’America Latina.

Secondo l’ufficio di Correa, gli accordi di cooperazione economica e tecnica includono una donazione di 1,4 milioni di dollari, come pure due linee di credito – una per 2,9 milioni di dollari da pagare entro dieci anni, e un’altra di 438 milioni di dollari per acquistare i quattro aerei militari cinesi destinati all’aviazione dell’Ecuador.

Gli investimenti diretti di Pechino in Ecuador, hanno raggiunto i 2,2 miliardi di dollari, divenendo uno degli obiettivi più importanti degli investimenti cinesi in America Latina, ha detto Qinglin ai giornalisti. Gli scambi commerciali tra i due paesi hanno raggiunto i 2,4 miliardi di dollari nel 2008, un balzo del 50 per cento rispetto all’anno precedente.  Intanto circa 300 investitori e uomini d’affari cinesi si sono incontrati a Bogotà con i loro omologhi, provenienti da otto paesi latino-americani, nel tentativo di ampliare gli affari. L’evento, il terzo del genere, mira a “promuovere gli investimenti cinesi in America Latina, individuare i prodotti latino-americani che possono essere interessati all’importazione, e quelli che vogliamo comprare“, ha dichiarato Alejandro Ossa, funzionario del commercio colombiano.

Le esportazioni latino-americane verso la Cina hanno raggiunto i 68,6 miliardi di dollari nel 2008, stando alle cifre ufficiali, un aumento del 42 per cento rispetto al 2007. Le principali importazioni della Cina dalla regione, includono il ferro, la soia, olio e altri minerali.

Ecuador e Cina creano una joint venture petrolifera

AFP 25 novembre 2009 – Ecuador e Cina formeranno una joint venture per sviluppare un giacimento di petrolio nel paese sudamericano, che ha riserve accertate per 120 milioni di barili di greggio. Germanico Pinto, il ministro delle risorse naturali non-rinnovabili, ha annunciato la creazione di una joint venture tra la Petroecuador di proprietà dello Stato dell’Ecuador e la cinese Sinopec International Petroleum, in una riunione a Quito con 20 rappresentanti delle imprese Cinesi. Pinto ha detto che la nuova società cercherà un investimento di un miliardo di dollari per “esplorare e sfruttare” il Blocco 42, nella parte orientale del paese andino. Petroecuador avrà una quota del 60 per cento nella joint venture, Sinopec il restante 40 per cento. L’Ecuador è il più piccolo membro produttore dell’OPEC, producendo 500.000 barili di greggio al giorno.

La nazione andina è diventata un magnete degli investimenti del gigante asiatico. Aziende come Andes y Petroriental hanno attirato capitale cinese, e la Petrochina ha firmato un contratto di due anni per il petrolio greggio, che “assicura all’Ecuador la vendita del suo petrolio“, la dichiarazione osservava.

L’area del Blocco 42 si trova nella provincia di Pastaza orientale e include due giacimenti di petrolio, con riserve accertate combinate di 120,1 milioni di barili di greggio pesante.

Nella foto, Jia Qinglin (al centro), presidente del Comitato nazionale della conferenza di consultazione politica della Cina popolare, durante il suo intervento al Simposio sino-ecuadoriano sulla cooperazione, tenutosi a Quito il 24 novembre 2009. (foto Agenzia Xinhua/Li Xueren)

Traduzione di Alessandro Lattanzio
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