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Vent’anni dopo la fine della Storia: la Serbia fra Unione Europea e Russia

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Mercoledì 28 ottobre – Università di Roma La Sapienza
Città Universitaria, Facoltà di Lettere e Filosofia – Aula I

Quarta Sessione del Convegno Identità europea della Serbia: il futuro del passato

1989-2009.Vent’anni dopo la fine della Storia: la Serbia fra Unione Europea e Russia

Tavola Rotonda

Presiede Giuliano AMATO, Presidente dell’Enciclopedia Italiana

ore 10:00 INTERVENGONO:

Anders BJURNER, Ambasciatore del Regno di Svezia

Aleksej MEŠKOV, Ambasciatore della Federazione Russa

Sanda RASKOVIČ-IVIČ, Ambasciatore della Repubblica di Serbia

Michael STEINER, Ambasciatore della Repubblica Federale di Germania

ARMANDO VARRICCHIO, Ambasciatore italiano presso la Repubblica di Serbia

ENZO SCOTTI, Sottosegretario presso il Ministero degli Affari Esteri

Segreteria: Valerio Castellani (valerio.castellani@uniroma1.it)
Sergio Giovannini (sergio.giovannini@uniroma1.it)
Villa Mirafiori – via Carlo Fea, 2 – 00161 Roma  Tel. 0649917250

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Seminari di Eurasia: appuntamento il 24 ottobre a Montereale con “La Cina nel nuovo sistema multipolare”

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Sabato 24 ottobre 2009 alle ore 17.30 si terrà a Ville di Fano, frazione di Montereale (AQ), in Via Umbro-Sabina (Statale 471) nr. 54 la conferenza “La Cina nel nuovo sistema multipolare”, con relatore Tiberio Graziani, direttore di “Eurasia”, e introduzione di Michele Antonelli, presidente dell’Associazione delle Colline. L’organizzazione è a cura di “Eurasia”, Associazione delle Colline e “Naša Gazeta / La Nostra Gazzetta”. La conferenza rientra nel Ciclo 2009-2010 dei Seminari di Eurasia.

Presentazione:

Terminata la Guerra Fredda col collasso dell’Unione Sovietica, gli USA hanno hanno sperato di poter instaurare un nuovo ordine mondiale unipolare, con Washington ad esercitare l’egemonia assoluta ed incontrastata sull’intero pianeta. Anche la cultura s’è adattata a questo anelito escatologico, producendo opere come L’ultimo uomo e la fine della storia di Francis Fukuyama, mentre negli USA le comunità evangeliche improntate al millenarismo hanno portato al potere George W. Bush e la fazione neoconservatrice, autori del tentativo più deciso, violento e ideologizzante d’imporre al mondo intero il dominio statunitense. Oggi la situazione è mutata considerevolmente. La strategia bushiana si è presto impantanata in Afghanistan e Iràq, mentre ha suscitato reazioni più o meno ostili in tutto il mondo. La fazione neoconservatrice ha subito parecchie defezioni, ed oggi alla presidenza c’è un democratico e realista come Barack Obama, mentre gli USA versano in una preoccupante crisi economica. Molti analisti concordano che, semmai l’ordine unipolare è stato una realtà, esso è durato pochi anni affrontando una persistente tensione al multipolarismo che oggi va compiendosi.
La Cina, indicata da tutti gli analisti come la grande potenza del futuro, è senz’altro un pilastro di questo nuovo ordine multipolare. Ma non mancano i problemi e le ambiguità. La Cina è la principale antagonista (non dichiarata) di Washington, ma anche il suo maggiore creditore, in un rapporto simbiotico che dura da quasi due decenni – sebbene la tendenza sia ad un svincolamento dell’economia cinese dalle esportazioni verso gli USA. La Cina è la prima potenza regionale dell’Oriente, ma ha rapporti altalenanti con quelle che occupano gli altri due “gradini del podio”: Giappone e India. La Cina stringe i rapporti con la Russia, ma la questione demografica siberiana e l’egemonia sull’Asia Centrale secondo taluni analisti potrebbero creare divergenze in futuro. La Cina è guardata in Europa con grande speranza, per le potenzialità del suo mercato, ma anche con grande preoccupazione per le sue capacità d’esportazione – sebbene esse derivino per lo più dalle produzioni delocalizzate delle multinazionali occidentali e giapponesi. Infine, la Cina lavora per estendere la sua influenza sull’Africa e l’America Indiolatina, indispettendo inevitabilmente gli USA e le ex potenze coloniali europee che vedono penetrare un “intruso” nei propri “cortili di casa”.
Tiberio Graziani, direttore della rivista di geopolitica “Eurasia”, cercherà d’affrontare tutte queste problematiche ed indicare l’auspicabile ruolo della Cina nel nuovo sistema multipolare.

Vedi il volantino
Leggi la presentazione

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Sguardo sulla Cina

Appello del Governo in esilio della Repubblica serba di Krajina

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IL GOVERNO IN ESILIO DELLA REPUBBLICA DELLA KRAJINA SERBA

Numero: 2001/09 – 16. 10. 2009.

Il governo della Repubblica Serba di Krajina in esilio è onorato di dare il benvenuto ai rappresentanti diplomatici e consolari della Repubblica di Serbia e di ricordare loro le 35 note – con i fatti, e le menzogne che sono state diffuse nei paesi dell’Europa occidentale e negli Stati Uniti, riguardo i Serbi e i territori serbi. Queste menzogne vengono riprese da altri paesi, comprese le istituzioni delle Nazioni Unite.

Il governo della Repubblica Serba di Krajina ricorda ai rappresentanti diplomatici e consolari della Repubblica di Serbia, che l’Occidente ha trattato con disonore i serbi e ha deciso di costringere la Croazia di presentare la sua posizione presso la corte internazionale dell’Aia, per quanto riguarda il riconoscimento della separazione del Kosovo dalla Serbia, tutto questo al fine di legittimare l’auto-proclamato Stato della minoranza nazionale albanese. Quest’azione dell’Unione europea e dei paesi della NATO rappresenta il terrorismo occidentale contro il resto del mondo, perché sia un obbligo, per il giudice più alto all’interno delle Nazioni Unite, riconoscere uno stato di una minoranza nazionale, affinché ciò che possa scatenare una reazione a catena negli altri paesi delle Nazioni Unite, poiché tutti costoro hanno una minoranza nazionale nei loro territori. L’Occidente sta facendo questo con il sostegno della Repubblica di Croazia, che ha condotto il genocidio e la pulizia etnica contro i serbi nella Repubblica Serba di Krajina nel 1991-1995.

Fino al 1990, la Croazia era lo stato bi-nazionale dei croati e dei serbi che vivevano in Croazia. Il governo di Zagabria ha convertito i serbi [elemento nazionale dello Stato di Croazia] in una minoranza nazionale e territoriale, ha eliminato i diritti culturali e storici dei serbi. L’Occidente non ha voluto convalidare i diritti serbi che sono stati riconosciuti dall’Ungheria, nel 1471, dall’Austria nel 1630, dalla Jugoslavia nel 1918 e che, nel 1943 e nel 1945, furono nuovamente confermati dalla Jugoslavia comunista.

Il governo della Repubblica Serba di Krajina ripete che la Croazia è uno stato binazionale, proprio come il Belgio. Il governo della Repubblica Serba di Krajina è convinto che l’Occidente non avrebbe permesso che un elemento nazionale costitutivo dello Stato del Belgio convertisse l’altro in una minoranza nazionale.

L’Occidente deve spiegare perché ha sostenuto questa decisione incivile, quando i diritti dei cittadini serbi sono stati violati, e quando i serbi della Krajina sono stati espulsi dal loro territorio – nella percentuale dell’80%? Il governo della Repubblica Serba di Krajina chiama la Repubblica di Serbia a rispondere alle azioni croate fatte in nome dei separatisti albanesi, a non abrogare l’accusa contro la Croazia, presso il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e di rompere le sue relazioni diplomatiche con la Croazia .

In caso contrario, i serbi di Krajina riterrano la Serbia un alleato della Croazia.

Il governo della Repubblica Serba di Krajina sta pregando la Repubblica di Serbia di incaricare le sue istituzioni, presso le Nazioni Unite, a restituire allo stato nazionale serbo i suoi diritti violati e di far cessare l’occupazione croata della Repubblica Serba di Krajina [area protetta dalle Nazioni Unite].

Il governo della Repubblica Serba di Krajina sta approfittando di questa occasione per mostrare il massimo rispetto verso le rappresentanze diplomatiche e consolari della Repubblica di Serbia.

I rappresentanti diplomatici consolari

Belgrado

Traduzione di Alessandro Lattanzio
http://www.aurora03.da.ru
http://www.bollettinoaurora.da.ru
http://sitoaurora.narod.ru
http://sitoaurora.altervista.org
http://eurasia.splinder.com

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Sprazzi di autonomia italiana. Si rafforza l’intesa italorussa in campo energetico

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L’intesa energetica italiana coi partner russi si allarga ad altri accordi e ad altre imprese. Apprendiamo dalla Stampa di Torino che Transneft e Rosneft entreranno in una joint venture con Eni e la compagnia turca Calik per la realizzazione del dotto Trans Anatolico che trasporterà il petrolio russo dal Mar Nero al Mediterraneo.

Anche questa collaborazione riceve l’imprimatur della politica, col Ministro per lo sviluppo economico Claudio Scajola, il vice primo ministro russo Igor Sechim e il ministro turco per l’energia Taner Yildiz che, due giorni fa, a Milano hanno apposto la loro firma su una lettera d’intenti finalizzata a dare una cornice di fattività al progetto.

Gli indirizzi italiani sulla politica estera ed energetica non sembrano risentire dei mal di pancia statunitensi ed europei e proseguono sulla strada di una collaborazione stringente con la Russia, benché, indiscutibilmente, occorra ora fare i conti con le sempre più aggressive “pressioni” internazionali che pretendono un cambio di rotta dal nostro paese. Tutto ciò perché le direttrici strategiche che stanno dando forma alla rete degli oleodotti e dei gasdotti nel vecchio Continente – con aggiramento di quei paesi recentemente usciti dall’orbita di Mosca (estero prossimo russo) ed entrati a far parte della sfera d’influenza europea e statunitense – producono inevitabilmente un indebolimento della strategia americana di accerchiamento del Cremlino e aprono, nel medesimo tempo, spazi di confronto e di collaborazione molto serrati tra singoli governi europei e l’esecutivo di Mosca (con la formula vincente degli accordi bilaterali che consente di aggirare la macchinosità della burocrazia comunitaria).

La trasferta di Berlusconi in quel di Pietroburgo, in occasione del compleanno di Putin, non sarà solo una gita di piacere o una visita di cortesia. Niente canti, balli e soubrettes, stile Villa Certosa, ma discussioni serie sul futuro e sulle prospettive del sodalizio Italia-Russia che sta dando ottimi frutti ad entrambe le nazioni. La presenza di Schröder (presidente del consorzio che gestisce il gasdotto North Stream) lascia intendere, tuttavia, che il tema principale della discussione verterà sulla problematica energetica, sui nuovi investimenti nel settore e sul superamento degli intoppi politici fin qui riscontrati. In Italia qualcuno sostiene che, nonostante il coinvolgimento della Russia negli equilibri europei sia ormai inevitabile, Berlusconi stia premendo troppo sull’acceleratore delle istanze autonomiste, delle iniziative non concordate e della pazienza americana. Il contenzioso con Washington ha ormai raggiunto il suo culmine e potrebbe presto sfociare in una rottura irreparabile che condurrebbe alla retrocessione dell’Italia dalla “serie A” dei paesi amici degli Usa. Le forme in cui questo declassamento potrebbe avvenire non sono prevedibili, ma sappiamo che le teste d’uovo della Casa Bianca prediligono i colpi di mano colorati.

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Sprazzi di autonomia italiana. Si rafforza l’intesa italorussa in campo energetico

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L’intesa energetica italiana coi partner russi si allarga ad altri accordi e ad altre imprese. Apprendiamo dalla Stampa di Torino che Transneft e Rosneft entreranno in una joint venture con Eni e la compagnia turca Calik per la realizzazione del dotto Trans Anatolico che trasporterà il petrolio russo dal Mar Nero al Mediterraneo.

Anche questa collaborazione riceve l’imprimatur della politica, col Ministro per lo sviluppo economico Claudio Scajola, il vice primo ministro russo Igor Sechim e il ministro turco per l’energia Taner Yildiz che, due giorni fa, a Milano hanno apposto la loro firma su una lettera d’intenti finalizzata a dare una cornice di fattività al progetto.

Gli indirizzi italiani sulla politica estera ed energetica non sembrano risentire dei mal di pancia statunitensi ed europei e proseguono sulla strada di una collaborazione stringente con la Russia, benché, indiscutibilmente, occorra ora fare i conti con le sempre più aggressive “pressioni” internazionali che pretendono un cambio di rotta dal nostro paese. Tutto ciò perché le direttrici strategiche che stanno dando forma alla rete degli oleodotti e dei gasdotti nel vecchio Continente – con aggiramento di quei paesi recentemente usciti dall’orbita di Mosca (estero prossimo russo) ed entrati a far parte della sfera d’influenza europea e statunitense – producono inevitabilmente un indebolimento della strategia americana di accerchiamento del Cremlino e aprono, nel medesimo tempo, spazi di confronto e di collaborazione molto serrati tra singoli governi europei e l’esecutivo di Mosca (con la formula vincente degli accordi bilaterali che consente di aggirare la macchinosità della burocrazia comunitaria).

La trasferta di Berlusconi in quel di Pietroburgo, in occasione del compleanno di Putin, non sarà solo una gita di piacere o una visita di cortesia. Niente canti, balli e soubrettes, stile Villa Certosa, ma discussioni serie sul futuro e sulle prospettive del sodalizio Italia-Russia che sta dando ottimi frutti ad entrambe le nazioni. La presenza di Schröder (presidente del consorzio che gestisce il gasdotto North Stream) lascia intendere, tuttavia, che il tema principale della discussione verterà sulla problematica energetica, sui nuovi investimenti nel settore e sul superamento degli intoppi politici fin qui riscontrati. In Italia qualcuno sostiene che, nonostante il coinvolgimento della Russia negli equilibri europei sia ormai inevitabile, Berlusconi stia premendo troppo sull’acceleratore delle istanze autonomiste, delle iniziative non concordate e della pazienza americana. Il contenzioso con Washington ha ormai raggiunto il suo culmine e potrebbe presto sfociare in una rottura irreparabile che condurrebbe alla retrocessione dell’Italia dalla “serie A” dei paesi amici degli Usa. Le forme in cui questo declassamento potrebbe avvenire non sono prevedibili, ma sappiamo che le teste d’uovo della Casa Bianca prediligono i colpi di mano colorati.

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In nome del gas! La strategia della Russia nei confronti del suo ex-impero

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Fonte: RSE – Revue Regard sur l’Est – 01/10/2009

Primo fornitore di gas dell’UE (più del 35% in media e, per alcuni paesi come gli stati baltici, fino al 98%) e detentrice del 45% delle riserve mondiali comprovate di petrolio (eccetto OPEC e Stati Uniti), la Russia è diventata uno degli attori principali della scena energetica mondiale. Questa ricchezza ha solo risvolti positivi. Da un lato, il fenomeno “di russofobia„ resta pregnante nello spirito di alcuni europei (soprattutto fra i nuovi Stati membri dell’UE). D’altra parte, nella stessa Russia, le opinioni sulla politica del gas divergono fortemente: tra autorità politiche, dirigenti di Gazprom e alti funzionari, i violini non sono affatto accordati, vi sono dissensi che pesano tanto sulla situazione interna che sull’elaborazione di una visione regionale coerente (e ciò a due livelli: riguardo “all’estero vicino„ e all’UE).

Quando, nel 1992, Boris Eltsin propose ai suoi compatrioti “tanta libertà quanta ne fossero capaci di ingoiare„, era lungi dal capire che stava per aprire un vaso di Pandora. Effettivamente, una privatizzazione senza fiducia né legge immerse nel caos tutto il paese, compresi i settori strategici, la cui gestione cadde nelle mani di un pugno di oligarchi poco interessati del futuro della loro patria. Senza entrare di più nei dettagli, ricordiamo che la svolta nella politica economica, in particolare nel settore energetico, si ebbe con l’arrivo di Vladimir Putin alla guida della Russia. È in questo momento che la storia delle relazioni di partenariato con i paesi della CSI imbocca una nuova strada.

À la guerre comme à la guerre

Quest’ultimi due anni, di conflitti sulla questione del gas senza precedenti, hanno opposto la Russia ai suoi due vicini slavi: l’Ucraina e la Bielorussia. Questi disaccordi hanno appannato l’immagine della Russia in Europa. Non ci si azzarda più a pronunciare la parola “fiducia„ in un contesto così teso. Cosa cerca dunque la Russia? Perché non riesce a gestire le sue relazioni con i paesi della CSI come in precedenza, mettendo dinanzi i legami storici e senza suscitare troppo i brontolii delle sue ex “piccole sorelle„? La spiegazione ufficiale, avanzata congiuntamente dal governo Medvedev-Putin ed dai dirigenti del settore gasiero (con Gazprom in testa), è semplice: la Russia non cerca più di compiacere, è ormai uno Stato autosufficiente che conclude partenariati sulla base di regole del gioco ben definite, conformi soprattutto ai suoi interessi economici. In questa prospettiva, la Russia ha optato per una verticalizzazione gasiera organizzata attorno a tre assi principali: l’Asia centrale con il Kazakistan (l’alleato più affidabile e più fedele) forma il pilastro della sua politica regionale; il Caucaso con l’Azerbaigian è il partner più promettente; infine, le due repubbliche slave, l’Ucraina e la Bielorussia, rimangono in aggirabili nonostante le tensioni esistenti. Recentemente, prima di aumentare la tassa d’esportazione petrolifera da 137,7 a 152,8 dollari per una tonnellata di petrolio [1], il presidente di Gazprom, A.Miller, ha fatto capire che questa decisione inaugura una serie di misure governative volte a lottare contro la crisi economica. À la guerre comme à la guerre … Non ci saranno né privilegiati, né amici. I sentimentalismi sollevano una nostalgia sterile, di un comune passato sovietico concluso.

“L’estero vicino„, un approccio pragmatico

La locuzione “estero vicino„ copre due realtà parallele: innanzitutto, designa una prossimità geografica, storica e culturale delle ex Repubbliche Sovietiche diventate indipendenti nel 1991. Ma, con gli scorsi anni punteggiati di conflitti (spesso sostenuti da attori terzi sulla scena internazionale) e di malintesi, questa prossimità si è trasformata in pietra d’ostacolo nelle relazioni bilaterali che la Russia intrattiene con i suoi vicini. La Russia ha finito per trarre le sue conclusioni: questo estero, tanto più vicino, nel caso della sua politica energetica, rappresenta oggi “un mezzo„ per fondare un partenariato europeo a lungo termine. Certamente, non è possibile mettere su uno stesso piano l’Ucraina, duramente colpita da una persistente crisi politica ed economica, ed il Kazakistan, paese verso il quale la Russia si mostra benevola finché quest’ultimo agisce in accordo con il suo “grande fratello„. Ad esempio, il governo kazako non ha firmato un impegno reciproco, previsto da molti mesi, tra il suo governo e gli investitori stranieri (Chevron, ExxonMobil) sul sistema kazako di trasporto del gas del Caspio (KKTS, Kazachstan Caspian Transportation System). È una questione di prezzi o d’influenza russa?

Con un altro paese importante in questa verticalizzazione gasiera, l’Azerbaigian, la Russia agisce prudentemente per consolidare la sua presenza strategica nel Caucaso. La regione del Caspio, se si tiene conto delle opinioni espresse da D. Medvedev nel corso della riunione che si è svolta a Astrakhan il 17 agosto scorso, costituisce uno dei settori chiave della politica energetica russa. Il rigetto da parte della Russia della costruzione di condutture trans-caucasiche che aggirano il suo territorio e la presenza militare straniera nelle autorità regionali (l’aiuto finanziario americano di 130 milioni di dollari nel quadro del programma Caspian Guard) attesta chiaramente le sue ambizioni nella regione. Così, all’inizio del luglio 2009, le società gasiere più importanti dei due paesi, Gazprom e Socar, hanno firmato un nuovo contratto d’acquisto: vendita del gas azéro per un termine di 5 anni, che prevede l’esportazione di almeno 500 milioni di m3 di gas all’anno con il gasdotto Kazi – Mahomet (Azerbaigian) – Mozdok (Russia) [2]. Anche se si tratta di una goccia d’acqua nel mare gasiero rispetto agli altri gasdotti esistenti, come il gasdotto Urengoï (Russia) – Pomary – Oujgorod (Ucraina) con 125 miliardi di m3 di gas, o ancora lo Yamal-Europa con 33 miliardi di m3 di gas all’anno, la stabilità e la longevità dei contratti sono prioritarie.

In compenso, esistono molte difficoltà quanto al partenariato con il Turkmenistan. Anche se la Russia ha confermato, il 25 agosto 2009, la ripresa degli acquisti del gas turkmeno (interrotti in aprile in seguito ad un’esplosione sul gasdotto Asie centrale – Centre 4), i prezzi ed i volumi delle consegne rimangono da determinare. Secondo il Direttore generale della società di consulenza “East European Gas Analysis„ Mikhaïl Kortchemkine, la Russia auspica che il Turkmenistan rinunci a partecipare al progetto Nabucco [3]. “È quasi certo che G.Berdymoukhammedov non lo farà, poiché questo progetto permetterà al Turkmenistan la realizzazione delle sue ambizioni geopolitiche„, ritiene l’esperto. Rimane da aspettare ed osservare quale via sceglieranno i due partner (a tutti i livelli, peraltro) per restare in buoni rapporti senza perdere nulla sul piano finanziario.

Infine, i due vicini più “prossimi„ che occupano i primi posti nel sistema del transito del gas russo (90%), cioè l’Ucraina e la Bielorussia, formano l’ultimo anello debole. Le relazioni con l’Ucraina sono al loro livello più basso: assenza d’ambasciatore russo in Ucraina, dichiarazioni dure del presidente Medvedev, politica apertamente russofoba del governo ucraino. In questo contesto poco propizio alla cooperazione, è urgente per la Russia differenziare le sue vie di trasporto del gas. I due progetti Nord Stream e South Stream sembrano offrire un’alternativa realizzabile.

L’alternativa è possibile

I due progetti che la Russia sviluppa attivamente rappresentano una capacità d’insieme di 100 miliardi di m3 di gas naturale all’anno, cosa che permetterebbe di coprire la domanda europea (certamente in aumento entro il 2020). Questi progetti possono già vantare garanzie finanziarie da parte dei produttori partecipanti. Per Nord Stream, si tratta di Gazprom (51%), di BASF/Wintershall e di E.On Ruhrgas (Germania) per il 20% ciascuno, e N.V.Nederlandse Gasunie (Paesi Bassi) per il 9%. I negoziati con la società francese GDF Suez sono in corso. Per quanto riguarda South Stream, con una capacità di 63 miliardi di m3 di gas all’anno, il progetto è stato promosso dal 2007 dalla Russa Gazprom e dall’italiana Eni. Molti paesi hanno già dato il loro assenso a questa costruzione, in particolare la Bulgaria, la Serbia, la Turchia, la Grecia e l’Ungheria. Benché in occidente le ricerche di approvvigionamenti alternativi siano in corso (il famoso progetto Nabucco giudicato “troppo chimerico„ e sprovvisto di materia prima dai Russi), la Russia, colpita dalla crisi, sviluppa una nuova direzione energetica: l’oriente, con un nuovo gasdotto Siberia orientale – Oceano Pacifico messo in opera (per i suoi primi 1.736 km su 2.694 km in totale), il 25 agosto 2009. “Abbiamo anche un’alternativa economicamente adeguata alle consegne tradizionali all’Europa. Questo è importante. Poiché, grazie agli sforzi riuniti dei mass media occidentali, Gazprom, che occupa un quarto del mercato gasiero europeo, farà presto paura ai bambini europei! „ [4], ritiene il redattore del Kommersant business guide, V.Dorofeiev. Si assiste ormai all’attuazione di una politica russa pragmatica che associa ambizioni di potenza e controllo della strategia energetica a lungo termine.

Secondo le previsioni dell’agenzia energetica internazionale, i fabbisogni di gas dell’Europa raddoppieranno entro il 2020 [5]. Di conseguenza, le consegne aumenteranno di circa 90 miliardi di m3 di gas all’anno, mentre oggi rappresentano 154 miliardi di m3. La Russia intende approfittare di questa opportunità economica. Come ha sottolineato V. Putin, riferendosi alla strategia energetica all’orizzonte del 2030, messa a punto dal ministero russo dell’energia, la Russia liberalizzerà il mercato interno delle risorse energetiche entro il 2030, almeno il 20% verrà negoziato in borsa. Ciò pertanto ridurrà l’importanza dei paesi di transito nell’esportazione energetica russa. Questa posizione ufficiale, proclamata alta e forte, è spesso percepita in occidente come una sfida. Ma la Russia vorrebbe soprattutto essere compresa ed accettata in questo nuovo ruolo indipendente di partner maturo e cosciente delle sue capacità.

(Traduzione a cura di Giovanni Petrosillo)

Note

1. La Russia ha aumentato questa tassa dal 1° giugno 2009.
2. Rovnague Abdullaev, presidente di Socar.
3. Nabucco è un progetto di gasdotto che collega l’Iran ed i paesi della Transcaucasia all’Europa centrale.
4. V. Dorofeiev, “Pétrole et gaz„, Kommersant Business Guide, 26 agosto 2009.
5. Pavel Arabov, “Nouvelle carte gazière du monde„, Izvestia, 28 août 2009.

L’autrice, Karina Aliokhina-Lacroix, è docente di lingua e cultura russa alla ESSEC

© Regard sur l’Est2009 / ISSN 2102-6017

Si ringrazia Hélène Rousselot, responsabile « Asie Centrale » del Comitato di redazione della rivista Regard sur l’Est per la pubblicazione di questo articolo

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Il segreto di Guantanamo

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Fonte: Voltairenet 20 ottobre 2009

Tutti ricordano le foto delle torture che circolano su Internet. Esse sono state presentate come trofei di guerra da qualche GI. Tuttavia, i media mainstream in grado di verificarne l’autenticità, non osava riprodurle. Nel 2004 la CBS dedicato vi ha consacrato una reportage. Questo è stato il segnale del movimento generale per esporre il maltrattamento degli iracheni. La prigione di Abu Ghraib dimostrava che la presunta guerra contro la dittatura di Saddam Hussein era in realtà una guerra di occupazione come le altre, con lo stesso corteo di crimini. Non sorprende che Washington abbia assicurato che gli abusi furono perpetrati all’insaputa dei comandi, da pochi individui insignificanti descritti come “mele marce”.
Alcuni soldati sono stati arrestati e processati per esempio. Il caso è stato chiuso fino alla rivelazione successiva. Allo stesso tempo, la CIA e il Pentagono stavano preparando l’opinione pubblica, negli Stati Uniti e negli Stati alleati, a modificare i propri valori morali. L’Agenzia aveva nominato un agente di collegamento con Hollywood, il colonnello Brandon Chase (cugino di Tommy Lee Jones) e ingaggiato famosi scrittori (come Tom Clamcy) e sceneggiatori per scrivere nuovi film e serie televisive. L’obiettivo: stigmatizzare la cultura musulmana e banalizzare la tortura nella lotta contro il terrorismo.
Ad esempio, le avventure dell’agente Jack Bauer nella serie 24 sono state ampiamente sovvenzionate dall’agenzia, affinché in ogni stagione spingesse un po’ oltre i limiti dell’accettabilità. Nel primi episodi, l’eroe intimidisce gli indagati per estrarne le informazioni. Negli episodi successivi, tutti i personaggi si sospettano e si torturano a vicenda, con sempre meno stati d’animo e maggiore certezza nel dovere da svolgere. Nell’immaginario collettivo, secoli di umanesimo sono stati spazzati via e una nuova barbarie si imponeva. Il columnist del Washington Post, Charles Krauthammer (che è anche psichiatra) poteva fare dell’uso della tortura un “imperativo morale” (sic), in questi tempi difficili di guerra al terrorismo.
Poi è arrivata la conferma, da parte dell’inchiesta del senatore svizzero Dick Marty, al Consiglio d’Europa, che la CIA ha sequestrato migliaia di persone in tutto il mondo, di cui decine o persino centinaia, nel territorio dell’Unione europea. Poi è arrivata la valanga di prove sui crimini commessi nelle prigioni di Guantanamo Bay (Caraibi) e di Bagram (Afghanistan).
Perfettamente condizionata, l’opinione pubblica degli Stati membri della NATO ha accettato la spiegazione che gli si è data, e che era coerente con gli intrighi romantici da cui è stata sommersa: il risparmio di vite innocenti, il ricorso di Washington a pratiche illegali, il sequestro di sospetti, che poi si ha fatto parlare con modi che la morale riprova, ma che l’efficienza comanda.
È a partire da questa narrazione semplicistica, che il candidato Barack Obama si oppose all’amministrazione Bush uscente. Eresse a misure chiave del suo mandato la proibizione della tortura e la chiusura delle prigioni segrete. Dopo la sua elezione, durante il periodo di transizione, era circondato da avvocati di altissimo livello, per elaborare una strategia per chiudere questo sinistro episodio. Una volta installato alla Casa Bianca, ha consacrato i suoi primi decreti presidenziali nell’attuare gli impegni assunti in tal senso. Questo desiderio ha conquistato l’opinione pubblica internazionale, ha suscitato una simpatia immensa per il nuovo presidente e riabilitato l’immagine degli Stati Uniti nel mondo.
Tranne che, a un anno dall’elezione di Barack Obama, se centinaia di singoli casi sono stati risolti, non è cambiato nulla nel merito. Guantanamo è lì e non sarà chiusa immediatamente. Le associazioni di difesa dei diritti umani sono chiare: la violenza contro i detenuti sono peggiorate. Interrogato al riguardo, il vice-presidente Joe Biden ha detto che più si avanzava in questo dossier, più capiva che finora non era a conoscenza di molti aspetti. Poi, enigmatico, ha avvertito la stampa, assicurando che non si dovrebbe aprire il vaso di Pandora. Da parte sua, Greg Craig, consulente della Casa Bianca ha voluto dare le dimissioni, non perché crede di aver fallito nella sua missione di chiudere il centro, ma perché ora crede che gli sia stato affidato un compito impossibile.
Perché il Presidente degli Stati Uniti non riesce a farsi obbedire? Se uno ha già detto tutto ciò che riguarda gli abusi dell’era Bush, perché parlare di un vaso di Pandora e che se ne ha paura?
In realtà, il sistema è più vasto. Non si limita solo a pochi rapimenti e a una prigione. Soprattutto, il suo scopo è radicalmente diverso da quello che la CIA e il Pentagono fanno credere. Prima di iniziare la discesa agli inferi, si dovrebbe far piazza pulita della confusione.

Contro-insurrezione

Ciò che è stato fatto dall’esercito ad Abu Ghraib, almeno inizialmente, non aveva nulla a che fare con ciò che ha sperimentato la Marina a Guantanamo e nelle altre prigioni segrete. Si trattava semplicemente di ciò che fanno tutti gli eserciti del mondo, quando diventano una polizia e affrontano una popolazione ostile. Essi la dominano terrorizzandola. In questo caso, le forze della coalizione hanno riprodotto i crimini commessi durante la Battaglia di Algeri, da parte dei francesi, contro gli algerini, che ancora chiamavano loro “compatrioti”. Il Pentagono, ha richiamato il generale francese in pensione Paul Aussaresses, specialista della “contro-insurrezione”, per avere un briefing con gli ufficiali superiori. Nel corso della sua lunga carriera, Aussaresses ha accompagnato gli Stati Uniti ovunque essi hanno scatenato “guerre a bassa intensità”, soprattutto nel Sud-Est asiatico e in America Latina.
Alla fine della seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti installarono due centri di formazione in queste tecniche, il Political Warfare Cadres Academy (Taiwan) e la Scuola delle Americhe (Panama). Dei corsi di tortura venivano insegnati ai responsabile della repressione nelle dittature asiatiche e Latinoamericane.
Negli anni ‘60-‘70, il dispositivo è stato coordinato all’interno della World Anti-Communist League, in cui partecipavano i capi di Stato in questione [1]. Questa politica prese un’ampiezza considerevole con le operazioni Phoenix in Vietnam (neutralizzazione di 80000 persone sospettate di appartenere ai Viet Cong) [2] e Condor, in America Latina (neutralizzare gli oppositori politici di tutto il continente) [3]. Il piano si articolava nella pulizia delle aree ribelli da parte degli squadroni della morte, cosa che è stata replicata anche in Iraq, con l’Operazione Iron Hammer [4].
L’unica novità è la distribuzione ai GI di un classico della letteratura coloniale, The Arab Mind, dell’antropologo Raphael Patai, con una prefazione del colonnello Norvell B. Atkins, direttore del John F. Kennedy Special Warfare School, nuova denominazione della sinistra School of Americas, quando fu trasferita a Fort Bragg (North Carolina) [5]. Questo libro, che si presenta con tono scientifico dei pregiudizi stupidi sugli “arabi” in generale, comprende un famoso capitolo sui tabù sessuali, che ha ispirato gli allestimenti di Abu Ghraib.
Le torture commesse in Iraq non sono casi isolati, come pretendeva l’amministrazione Bush, ma sono parte di una strategia di contro-insurrezione. L’unico modo per fermarla, non è condannarla moralmente, ma è quello di risolvere la situazione politica. Ora Barack Obama continua a ritardare il ritiro delle forze straniere dall’Iraq.

Gli esperimenti del professor Biderman
E’ in tutt’altra prospettiva che uno psichiatra dell’aviazione, il Dr. Albert D. Biderman, ha studiato il condizionamento dei prigionieri di guerra statunitensi in Corea del Nord.
Molto prima di Mao e del comunismo, i cinesi avevano sviluppato metodi sofisticati per spezzare la volontà di un detenuto e d’inculcare una confessione. Li avevano usati durante la guerra di Corea e ottennero alcuni risultati: prigionieri di guerra degli Stati Uniti confessavano con convinzione, alla stampa, dei crimini che forse non avevano commesso. Biderman ha presentato i primi risultati nel corso di un’audizione al Senato, il 19 giugno 1956, e presso l’Accademia di Medicina di New York, l’anno successivo (vedi documenti scaricabili qui di seguito). Egli distingue cinque fasi attraverso cui passano i “soggetti”.
1. In primo luogo il detenuto rifiuta di cooperare e si barrica nel silenzio.
2. Attraverso una miscela di brutalità e di gentilezza, si può passare a una seconda fase, dove saranno spinti a difendersi dalle accuse.
3. Poi, il prigioniero comincia a collaborare. Egli continua a proclamare la sua innocenza, ma cerca di soddisfare i suoi interroganti, riconoscendo che egli può aver commesso un errore involontario, accidentalmente o inavvertitamente.
4. Quando attraversa la quarta fase, il prigioniero è completamente screditato ai suoi stessi occhi. Continua a negare ciò di cui è accusato, ma confessa la sua natura criminale.
5 . Alla fine del processo, l’imputato ammette di essere l’autore delle accuse che gli si rivolgono. Inventa anche ulteriori dettagli per incolparsi e richiede la sua punizione.
Biderman esaminò anche le tecniche utilizzate dagli aguzzini per gestire i prigionieri cinesi: l’isolamento, la monopolizzazione della percezione sensoriale, la fatica, le minacce, i premi, le dimostrazioni di potenza dei carcerieri, il peggioramento delle condizioni di vita, la costrizione. La violenza fisica è secondaria, la violenza psicologica è totale e permanente.
Il lavoro di Biderman sul “lavaggio del cervello” ha acquisito una dimensione mitica. I militari Usa temevano che i loro uomini potessero essere restituiti dal nemico, condizionati a non dire qualsiasi cosa e, forse, a fare qualsiasi cosa. Hanno progettato un programma di addestramento dei piloti da caccia, in modo che essi diventassero refrattari a questa forma di tortura e non potessero essere utilizzati dal nemico, se fossero stati catturati. Questo addestramento si chiamava SERE, che significa Sopravvivenza, Evasione, Resistenza, Fuga (Survival, Evasion, Resistance, Escape). Inizialmente il corso era dedicato alla Scuola delle Americhe, fu poi esteso ad altre categorie del personale militare e fu diffuso presso diverse basi. Inoltre, l’addestramento di questa natura fu stabilito in ogni esercito membro della NATO.
Quello che l’amministrazione Bush ha deciso, dopo l’invasione dell’Afghanistan, fu quello di utilizzare queste tecniche per ottenere le confessioni dai prigionieri che giustificassero, a posteriori, il coinvolgimento dell’Afghanistan negli attentati dell’11 settembre, convalidando la versione ufficiale degli attentati.
Nuove strutture furono costruite nella base navale di Guantanamo e degli esperimenti vi venivano condotti. La teoria di Albert Biderman fu completata da uno psicologo civile, il professor Martin Seligman. Si tratta di un volto noto, poiché è stato il Presidente della American Psychological Association.
Seligman ha mostrato un limite della teoria dei riflessi condizionati di Ivan Pavlov. Si mette un cane in una gabbia, il cui pavimento è diviso in due parti. Si elettrifica, in modo casuale, ora un settore, ora l’altro. L’animale salta da un posto all’altro per proteggersi – finora, niente di sorprendente. Poi si accelerano le cose e, a volte, si elettrifica l’intera gabbia. L’animale si rende conto che non può sfuggire e che i suoi sforzi sono inutili.
Ben presto si arrende, si sdraia a terra ed entra in un secondo stato, che gli permette di sopportare passivamente la sofferenza. Si apre quindi la gabbia. Sorpresa: l’animale non fugge. Nello stato mentale in cui è posto, non è più in grado di resistere. Si abitua a sopportare il dolore.
La US Navy ha istituito un gruppo medico d’assalto. Che fece venire a Guantanamo il professor Seligman. Questo professionista è una star, noto per il suo lavoro sulla depressione. I suoi libri sull’ottimismo e la fiducia sono dei best seller in tutto il mondo. E lui che ha supervisionato gli esperimenti su cavie umane.
Alcuni prigionieri, sottoposti a terribili torture, finivano spontaneamente per mettersi da soli in questo stato psicologico, permettendogli di sopportare il dolore, ma privandoli di ogni resistenza. Manipolandoli così, si arriva rapidamente alla fase 3 del processo Biderman. Sempre basandosi sul lavoro di Biderman, i torturatori americani, guidati dal professor Seligman, hanno fatto esperimenti ed hanno migliorato tutte le tecniche coercitive.
Per fare questo, è stato sviluppato un protocollo scientifico che si basa sulla misurazione delle fluttuazioni ormonali. Un laboratorio medico è stato installato a Guantanamo. Campioni di saliva e del sangue vengono prelevati a intervalli regolari dalle cavie per valutarne le reazioni.
I torturatori hanno reso più sofisticati i loro crimini. Ad esempio, nel programma SERE, hanno monopolizzato con la musica stressante la percezione sensoriale, per impedire al prigioniero di dormire. Hanno ottenuto risultati migliori trasmettendo grida di bambini inconsolabili per giorni e giorni. Oppure, hanno mostrato tutta la potenza dei rapitori con i pestaggi.
A Guantanamo, hanno creato la Forza di reazione immediata. Questo è un gruppo di punizione dei prigionieri. Quando questa unità entra in azione, i suoi membri sono rivestiti di un’armatura di protezione, tipo Robocop. Estraggono il prigioniero della sua gabbia e lo mettono in una stanza le cui pareti sono imbottite e rivestite in compensato. Gettano la cavia contro il muro, per fratturarli, ma il legno compensato smorza parzialmente lo shock, così da inebetirli, ma le sue ossa non vengono rotte.
I principali progressi sono stati compiuti con la punizione della vasca. Una volta, anche la Santa Inquisizione immergeva la testa del prigioniero in una vasca da bagno e, lo ritiravano poco prima della sua morte per annegamento. La sensazione di morte imminente cause la massima ansia. Ma il processo era primitivo e frequenti erano gli incidenti. Ora, il prigioniero non è più immerso in una vasca da bagno piena, ma viene fatto giacere in una vasca vuota. Lo si annega versandogli acqua sulla testa, con la possibilità di fermarsi istantaneamente.
Ogni sessione è stata codificata per determinare i limiti della sopportazione. Degli assistenti misurano la quantità di acqua utilizzata, i tempi e la durata del soffocamento. Quando ciò accade, recuperano il vomito, lo pesano e l’analizzano per valutare l’energia e la stanchezza prodotte.
Come riassumeva il vice-direttore aggiunto della CIA, davanti alla commissione parlamentare: “Non ha nulla a che fare con quello che era l’Inquisizione, tranne l’acqua” (sic). Gli esperimenti dei medici americani non sono stati condotti in segreto, come quelle del dottor Josef Mengele ad Auschwitz, ma sotto il controllo diretto ed esclusivo della Casa Bianca.
Tutto è stato riportato al processo decisionale del gruppo, composto da sei persone: Dick Cheney, Condoleezza Rice, Donald Rumsfeld, Colin Powell, John Ashcroft e George Tenet, che ha testimoniato di aver partecipato a una dozzina di questi incontri.
I risultati di questi esperimenti, tuttavia, sono deludenti. Poche sono le cavie che si sono dimostrate ricettive. E ‘stato possibile inculcare una confessione, ma la loro condizione è rimasta instabile e non è stato possibile eseguire, in pubblico, incontri con contradditori.
Il caso più noto è quello del pseudo-Khalil Sheikh Mohammed. Questi è un individuo arrestato in Pakistan e accusato di essere un islamista del Kuwait, anche se non è chiaramente la stessa persona. Dopo essere stato torturato a lungo e, in particolare, esser stato sottoposto 183 volte al bagno mortale durante il solo mese di marzo del 2003, l’individuo ha riconosciuto di essere Mohammed Sheikh Khalil, e si è autoaccusato di 31 diversi attentati in tutto il mondo, dal WTC di New York nel 1993, alla distruzione di una discoteca di Bali e alla decapitazione del giornalista Daniel Pearl, fino a gli attentati dell’11 settembre 2001. Lo pseudo-Sheikh Mohammed ha continuato la sua confessione davanti ad una commissione militare, ma non è stato possibile, per gli avvocati e i giudici militari, interrogarlo in pubblico, poiché si temeva che, fuori dalla gabbia, si rimangiasse la confessione.
Per nascondere le attività segrete dei medici di Guantanamo, la Marina Militare ha organizzato viaggi-stampa dedicati ai giornalisti compiacenti. Così, il saggista francese Bernard Henry Levy, ha detto che ha giocato volentieri il ruolo del testimone della moralità, visitando quello che si voleva fargli vedere. Nel suo libro ‘American Vertigo’, ha assicurato che questo carcere non è diverso da altri penitenziari degli Stati Uniti, e che le prove di abusi praticati vi “erano piuttosto gonfiate.” (sic) [6]

Le Prigioni offshore dell’US Navy
In definitiva, l’amministrazione Bush ha stimato che pochissimi individui sono stati condizionati a tal punto da confessare di aver commesso gli attentati dell’11 settembre. Essa ha concluso che era necessario testare un gran numero di prigionieri per selezionarne i più reattivi.
Tenuto conto della controversia che si sviluppò attorno a Guantanamo, e per essere sicura di non essere perseguita, la US Navy ha creato altre prigioni segrete, poste al di fuori di qualsiasi giurisdizione, in acque internazionali.
17 imbarcazioni a fondo piatto, del tipo usato per le truppe da sbarco, sono state trasformati in prigioni galleggianti, con gabbie come quelle di Guantanamo. Tre sono state identificate dall’associazione britannica Reprieve. Questa sono la USS Ashland, USS Bataan e USS Peleliu.
Se aggiungiamo tutte le persone che sono state fatte prigioniere in zone di guerra, o sequestrate in qualsiasi parte del mondo, e trasferite in questa serie di carceri, negli ultimi otto anni, un totale di 80000 persone sono transitate nel sistema, di cui meno di un migliaio sarebbe stato spinto alla fase finale del processo di Biderman.
Quindi il problema dell’amministrazione Obama è il seguente: non è possibile chiudere Guantanamo senza rivelare ciò che è stato fatto. E non è possibile riconoscere quanto è stato fatto, senza ammettere che tutte le confessioni ottenute sono false e sono state deliberatamente inculcate sotto tortura, con le conseguenze politiche che ciò implica.
Alla fine della seconda guerra mondiale, dodici processi furono istruiti dal tribunale militare di Norimberga. Uno era dedicato a 23 medici nazisti. 7 furono prosciolti, 9 furono condannati a pene detentive e 7 furono condannati a morte. Dal momento che esiste un codice etico che disciplina la medicina a livello internazionale. Esso vieta proprio ciò che i medici statunitensi hanno fatto a Guantanamo e in altre prigioni segrete.

Thierry Meyssan
Analista politico francese, fondatore e presidente del Réseau Voltaire e della conferenza Axis for Peace. Pubblica settimanalmente recensioni di politica estera nella stampa araba e russa. Ultimo libro pubblicato: L’Effroyable imposture 2, ed. JP Bertand (2007).

Note
[1] «La Ligue anti-communiste mondiale, une internationale du crime», di Thierry Meyssan, Réseau Voltaire, 123 mai 2004.
[2] «Opération Phénix», di Arthur Lepic, Réseau Voltaire, 16 novembre 2004.
[3] Cfr. Operación Condor, Pacto penale, della nostra collaboratrice, la storica Stella Calloni. «Stella Calloni presentó en Cuba su libro “Operación Cóndor, Pacto criminal”», 16 février 2006. Si veda anche su Red Voltaire: «turbios Berríos coletazos y los del Piano Condor», di Gustavo González, 26 Aprile 2006. «Los militares latinoamericanos no saben hacer otra cosa que espiar», di Noelia Leiva, 1 aprile 2008. «El Plan Cóndor universitario», di Martin Almada, 11 marzo 2008.
[4] «Opération “Marteau de fer”», Paul Labarique, Réseau Voltaire, 11 septembre 2003.
[5] The Arab Mind, par Raphael patai, préface de Norvell B. Atkins, Hatherleigh Press, 2002.
[6]American

Traduzione di Alessandro Lattanzio
http://www.aurora03.da.ru
http://www.bollettinoaurora.da.ru
http://sitoaurora.narod.ru
http://sitoaurora.altervista.org
http://eurasia.splinder.com

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Rinviata la conferenza “La Cina nel nuovo sistema multipolare”

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Causa improvvisa indisposizione dell’unico relatore, la conferenza “La Cina nel nuovo sistema multipolare”, che si sarebbe dovuta tenere sabato 24 ottobre 2009 a Ville di Fano – Montereale (AQ) è rinviata a data da destinarsi.
Gli organizzatori si scusano per eventuali disagi provocati.

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“Rafforzando l’Alleanza Transatlantica”

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Fonte: “Bye Bye Uncle Sam”

Philip Gordon è l’attuale Assistente del Segretario di Stato per gli Affari Europei ed Eurasiatici. Dal 2000 al 2009, Gordon è stato docente presso la Brookings Institution di Washington, dove ha concentrato la sua attività su un’ampia gamma di questioni inerenti la politica estera europea e statunitense. Precedentemente, egli si era disimpegnato quale Direttore per gli Affari Europei presso il Consiglio per la Sicurezza Nazionale sotto la presidenza di Bill Clinton dove, in vista del vertice per il 50° anniversario della NATO, svolse un ruolo chiave nello sviluppo e nel coordinamento delle politiche dell’Alleanza.
Gordon ha, inoltre, tenuto numerosi incarichi come docente e ricercatore ed è un prolifico scrittore in tema di relazioni internazionali e politica estera. Suoi articoli sono comparsi frequentemente su importanti testate giornalistiche quali New York Times, Washington Post, International Herald Tribune e Financial Times.

Lo scorso 16 giugno, Philip Gordon è stato il protagonista di un’audizione davanti al Comitato per la Politica Estera, Subcomitato per l’Europa, della Camera dei Rappresentanti statunitense – presieduto dall’onorevole Robert Wexler – sul tema Rafforzando l’Alleanza Transatlantica. Uno sguardo d’insieme sulle politiche dell’amministrazione Obama in Europa.
Dopo i convenevoli di rito, Gordon ha rilasciato una dichiarazione orale riassuntiva dei contenuti del documento scritto precedentemente sottoposto all’attenzione dei componenti del suddetto Subcomitato. Ivi, egli ha sottolineato le tre priorità della politica statunitense verso l’Europa e l’Eurasia:
□ la collaborazione con l’Europa sulle cosiddette “sfide globali”;
□ le azioni degli Stati Uniti per promuovere un’Europa “più compatta, libera, democratica e pacifica”;
□ il “rinnovato” rapporto (di Europa e Stati Uniti) con la Russia.

Qui tralasciamo la prima delle tre priorità, inventario di ammirevoli proponimenti che vanno dalla ripresa della crescita economica al ripristino della fiducia nel sistema finanziario mondiale, dalla lotta alla povertà ed alle (presunte) pandemie alla promozione dei diritti umani… “La lista è lunga, e potrei nominarne altre”. Ci mancherebbe.
Concentriamo, invece, l’attenzione sulle ultime due che – in quanto italiani ed europei – ci riguardano più da vicino e circa le quali le considerazioni svolte da Gordon appaiono meno diplomatiche e fumose. “Estendere stabilità, sicurezza, prosperità e democrazia a tutta l’Europa e l’Eurasia. Questo è stato un obiettivo di tutti i Presidenti americani, sia Democratici che Repubblicani, a partire dalla Seconda guerra mondiale”. E quale sarebbe il metodo adottato allo scopo? L’adesione da parte dei Paesi interessati alle istituzioni occidentali come l’Unione Europa e la NATO. Tutti gli Stati europei – compresi quelli nati dalla disintegrazione dell’URSS come Georgia, Ucraina e Moldavia ma anche quelli della regione balcanica quali Bosnia, Montenegro, Macedonia ed un giorno anche Serbia e Kosovo… – che non ne siano ancora membri sono caldamente invitati ad integrarsi quanto prima nelle istituzioni euro-atlantiche in quanto “l’amministrazione [USA] crede fermamente che questo processo deve continuare”. E perché ciò accada, non lesina aiuti anche finanziari.
Non secondariamente, “noi (americani) appoggiamo vigorosamente la diversificazione delle fonti energetiche per l’Europa”, ponendo al centro di questi sforzi l’espansione di un “corridoio meridionale” per il trasporto del gas proveniente dal Mar Caspio (ed eventualmente dall’Iraq) fino in Europa. A questo fine, assumono un ruolo strategico due Paesi: la Turchia ed il misconosciuto Azerbaigian, che “esporta quasi un milione di barili di petrolio al giorno sui mercati globali attraverso l’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan, libero da strozzature geografiche (…) e da pressioni monopolistiche”.
Di chi? Ecco il punto.
Gli Stati Uniti non riconosceranno una sfera di influenza alla Russia. Essi continueranno anche a sostenere la sovranità e l’integrità territoriale dei Paesi confinanti alla Russia. Quest’ultimi hanno il diritto di prendere le proprie decisioni e scegliere le proprie alleanze da soli”. E guarda caso…

Rafforzando l’Alleanza Transatlantica, ovverosia la (pluridecennale) creazione del Nemico, indispensabile precondizione per affermare la propria superarmata egemonia planetaria.
“Sessant’anni fa, le nostre [gli Stati Uniti ed “i nostri tradizionali amici ed alleati dell’Europa occidentale”] nazioni si unirono per combattere un nemico comune che minacciava la libertà dei cittadini dell’Europa. Oggi, noi continuiamo a lavorare insieme con questi importanti Alleati per quanto riguarda molte nuove ed emergenti minacce”.

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L’Iran nella strategia del ragno

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Fonte: “Clarissa.it”

Il momento è decisivo. Teheran ha chiesto ancora alcuni giorni per decidere se accettare la proposta di compromesso uscita dai negoziati di Vienna sul suo programma nucleare. Ripercorrere la cronistoria degli avvenimenti dell’ultima settimana fa capire quanto delicato e pericoloso sia questo frangente.

Domenica 18 ottobre, mattina. Un attentato nella regione del Sistan-Belucistan, nel sud-est dell’Iran, incrocio dei confini con Pakistan e Afghanistan, scuote il paese. Obbiettivo è il corpo dei Guardiani della Rivoluzione (Pasdaran), la potente milizia militare che è uno degli architrave del regime. Muoiono circa trenta persone, altrettanti i feriti. Tra le vittime sei alti ufficiali dei pasdaran, tra cui il vicecomandante generale Nurali Shushtari, capo dello storico battaglione Al Quds.
Una delegazione dei Guardiani, al momento dell’attacco, era in procinto di incontrarsi con l’assemblea dei rappresentanti dei clan sciiti e sunniti della tormentata regione. Il Belucistan sta vivendo una ondata di terrorismo in cui si mescolano rivendicazioni indipendentiste etniche e religiose con interessi criminali del traffico internazionale di droga e l’oscura azione di servizi segreti di varie potenze, regionali ed internazionali.
L’attentato è rivendicato dal gruppo sunnita Jundallah (soldati di Dio), già autore di precedenti sanguinosi attacchi, ma fin da subito le autorità iraniane puntano il dito verso quelli che ritengono i reali ispiratori.
Vera responsabile è “l’arroganza globale”, rappresentata da Stati Uniti, Gran Bretagna, Israele. Per il presidente Ahmadinejad si tratta di “un crimine perpetrato da agenti degli stranieri”. Ancora più duro il presidente del Parlamento Ali Larijani: “Riteniamo che gli ultimi attentati terroristici derivino dall’azione degli Stati Uniti e dimostrino l’animosità degli Stati Uniti nei riguardi del nostro Paese. […] Obama aveva detto che tendeva la mano all’Iran, ma con quest’azione la sua mano l’ha bruciata. Il popolo iraniano ha ragione di non credere ai cambiamenti promessi dal governo americano, che è contro i loro interessi”. La radio nazionale ha chiamato direttamente in causa la Gran Bretagna, mentre il comandante generale dei Pasdaran, Mohammad Ali Jafari, dopo aver accusato i servizi segreti di Usa, Gran Bretagna e Pakistan di aver creato e di manovrare il gruppo Jundallah, ha accusato Usa e Israele per lo specifico attacco, promettendo “misure di rappresaglia” e di stroncare il terrorismo.
Il portavoce del dipartimento di Stato americano, Ian Kelly, ha espresso condanna e cordoglio per l’attentato aggiungendo con nettezza che «le notizie di un presunto coinvolgimento degli Stati Uniti sono completamente false».
Il giorno successivo, lunedì 19 ottobre. Si apre la sessione dei negoziati a Vienna presso l’Agenzia atomica internazionale tra Stati Uniti, Francia, Russia e Iran. Materia della trattativa è l’attuazione tecnica del principio raggiunto ad inizio mese con i colloqui di Ginevra, tra Teheran ed il cosiddetto “sestetto”, in cui l’Iran aveva aperto alla possibilità di trasferire il proprio uranio presso un paese terzo per l’arricchimento destinato a scopi civili.
La delegazione iraniana è giunta a Vienna in un clima molto teso, accompagnata da dichiarazioni contrastanti che segnalano un irrigidimento delle posizioni. Per il portavoce dell’organizzazione iraniana per l’energia atomica, Ali Shirzadian, l’Iran proseguirà ugualmente l’arricchimento dell’uranio anche se lo dovesse ricevere già arricchito dall’estero. Si tratta di una dichiarazione forse solo destinata ad alzare la posta, ma che di certo contrasta con i desiderata americani, che anzi, fino ai precedenti colloqui di Ginevra, avevano sempre puntato ad una cessazione unilaterale dell’arricchimento dell’uranio come precondizione. Più conciliante ma ferma la dichiarazione di Ahmadinejad sulle conseguenze dell’attentato verso le trattative: “Non credo vi saranno problemi ai prossimi negoziati. Se qualcuno vorrà crearli, non ci riuscirà, e se ci riuscirà ne subirà le conseguenze”.
I problemi da risolvere sono sinteticamente questi: l’Iran possiede attualmente circa 1500 kg di uranio certificati e ufficialmente denunciati alla Aiea e che sono stati autonomamente arricchiti, sotto controllo della stessa agenzia, fino al 5%. Per costruire una bomba sono necessari circa 1000 kg arricchiti oltre il 90%. Per scopi pacifici e civili (usi medici e per la produzione di energia) è sufficiente un arricchimento dell’uranio inferiore al 20%.
Quale aderente al Trattato di Non Proliferazione nucleare l’Iran avrebbe tutto il diritto di sviluppare, sotto controllo Aiea, un programma nucleare civile, ma la comunità internazionale (Paesi occidentali ed Israele in testa) teme che l’uso civile altro non sia che l’anticamera alla produzione della bomba. È evidente che la cartina di tornasole diventi il livello di arricchimento dell’uranio e quanto questo possa essere posto sotto tutela e dunque controllato.
Già dal primo giorno di colloqui la soluzione appare tecnicamente delineata. All’Iran sarebbe chiesto di trasferire gran parte del suo uranio in Russia che procederebbe al suo arricchimento fino al 19,75%, utile agli scopi pacifici. Questo non impedirebbe, tuttavia, che una volta restituito l’uranio possa essere a sua volta sottoposto ad un ulteriore processo. È necessario quindi un successivo passaggio, ovvero la riduzione del materiale radioattivo “grezzo” in barre già predisposte per il loro utilizzo specifico, senza dunque possibilità di nuovi trattamenti. Solo a quel punto il materiale fissile tornerebbe in Iran.
Questo secondo e decisivo trasferimento è stato riservato dalla Aiea, in accordo con il “sestetto”, alla Francia, che ha sia le capacità tecnologiche necessarie sia un apprezzamento di tipo politico che rassicurerebbe, ad esempio, anche Israele.
Ma in questo tipo di trattative il diavolo si nasconde nelle pieghe dell’accordo. La Francia, infatti, esige subito una condizione che rischia di far saltare il negoziato. Se l’Agenzia chiede all’Iran il trasferimento dell’80% dell’uranio in suo possesso (pari a circa 1200 kg, in modo da impedire il crearsi di una riserva che possa essere stornata per altri scopi), Parigi pretende che tale trasferimento avvenga tutto e subito, in una unica soluzione, entro la fine dell’anno.
Teheran, invece, vorrebbe effettuare più trasferimenti, per dilazionare il processo nel tempo e testando così la sua validità e soprattutto l’affidabilità delle parti. Appare chiaro, infatti, che una volta trasferiti tutti i 1200 kg di uranio in un sol colpo, se un qualunque problema diplomatico bloccasse la procedura, l’Iran si troverebbe di fatto nella condizione di vedere congelato il suo programma, magari sotto pressioni o ricatti esterni, senza più alcun controllo diretto ed indipendente.
Tuttavia si potrebbe interpretare la modalità di più invii con quantità ridotte come un tentativo di guadagnare tempo: si cede una quantità di uranio, col rischio di vederlo bloccato ma con danni limitati, mentre si procede in maniera occulta all’arricchimento delle riserve che si detengono, sufficienti per un ordigno. Si tratterebbe in realtà di una possibilità solo teorica poiché richiederebbe tempi lunghi, la necessità di sfuggire ai controlli della Aiea, impossibilità di test militari di verifica per mancanza di materiale.
In ogni caso le due posizioni riflettono quella mancanza di “reciproca fiducia” che il direttore della Aiea, El Baradei, poneva come base per la buona riuscita del negoziato.

Martedì, 20 ottobre. L’Iran butta sul tavolo la risposta dirompente alla condizione francese: Teheran chiede che i transalpini vengano esclusi dal negoziato, gli iraniani vogliono trattare direttamente solo con Stati Uniti e Russia. La dichiarazione del ministro degli Esteri Mottaki è lapidaria: “Stati Uniti e Russia hanno accettato di partecipare ai negoziati per fornire il combustibile. Dunque le trattative vanno condotte tra noi e loro alla presenza dell’Agenzia. Non ci serve molto combustibile e non ci serve la presenza di molti paesi. Non c’è alcun motivo che la Francia sia presente”. Gli iraniani mostrano così di non fidarsi affatto dei francesi. Per quale motivo?
In questo ultimo anno la Francia è stato il paese europeo più esposto nel contrasto al programma nucleare iraniano, o più semplicemente alla possibilità che il paese degli ayatollah assurga al ruolo di potenza regionale. Hanno giocato una funzione in tal senso sia la vicinanza ideologica dell’attuale leadership con la politica di Israele, sia gli interessi nazionali che legano Parigi con le aristocrazie arabo-sunnite del Golfo, nemiche storiche dello sciismo persiano.
A settembre si era anche rischiata la rottura diplomatica sul caso della ricercatrice francese Clotilde Reiss arrestata e accusata di spionaggio dalle autorità iraniane per il suo ruolo nei disordini post-elettorali; il presidente Sarkozy era stato sprezzante (“immaginate l’arma nucleare nelle mani di questa gente, è del tutto inaccettabile… il dialogo non procede, aspetteremo fino a dicembre, non oltre”) ed altrettanto la risposta di Ahmadinejad (“la Francia si merita dirigenti ben migliori di questi”); e Sarkozy, insieme ad Obama e Brown, durante la celebre pubblica dichiarazione ai margini del G-8 di Pittsburgh, aveva accusato la leadership iraniana di aver mentito e tenuto segreta la costruzione del sito nucleare di Qom.
A questo si deve aggiungere un annoso contenzioso tra Parigi e Teheran proprio in merito a forniture di combustibile nucleare. L’Iran è, infatti, fin dai tempi dello shah Pahlevi, proprietario al 10% di Eurodif, la società francese sotto controllo statale che produce i reattori nucleari e l’uranio arricchito delle centrali transalpine. Ma, in seguito alla rivoluzione khomeinista, Parigi ha congelato (almeno ufficialmente) la posizione di Teheran, al punto che recentemente un dirigente della società (anche in seguito a notizie apparse sulla stampa sul particolare rapporto tra Francia e Iran in merito al nucleare)(1) ha fatto sapere che “l’Iran non ha mai ricevuto neppure un grammo di uranio arricchito dalla Francia. L’Iran è un partner dormiente di Eurodif”.
Eppure gli iraniani ritengono di aver diritto a quell’uranio. In una intervista a Le Monde, in seguito alla richiesta iraniana di escludere dai negoziati di Vienna la Francia, il presidente del Parlamento Larijani ha dichiarato che gli iraniani “non hanno alcuna animosità verso i francesi”. “Davvero?” incalza l’intervistatore. “In effetti” risponde serafico Larijani “è vero che già da tempo i francesi ci hanno confiscato 60 tonnellate di esafluoruro d’uranio. Non ce l’hanno mai restituito. Eppure non c’è ragione perché la Francia sia nostra nemica”.
Ma il ministro degli Esteri Mottaki ha rincarato la dose: “La Francia, dopo aver mancato in passato di assolvere ai suoi obblighi, non rappresenta più un partner affidabile per fornire combustibile nucleare all’Iran”.
La richiesta francese di fornitura integrale di tutto l’uranio iraniano in una unica soluzione deve aver fatto suonare qualche allarme a Teheran: Parigi sta forse preparando una trappola per bloccare il nostro programma?

Mercoledì, 21 ottobre. Con la posizione iraniana verso la Francia il negoziato è di fatto bloccato. Il direttore dell’Agenzia atomica, El Baradei, azzarda il tutto per tutto, consapevole che una impasse nei negoziati, visto il clima diplomatico internazionale, significa un suo fallimento con tutte le drammatiche conseguenze. È del resto l’ultima occasione per il direttore, in scadenza di mandato, di vedere risolversi il dossier con un successo.
El Baradei stila una bozza di accordo che implementi tutti gli aspetti trattati fino a quel punto e la sottopone ai quattro paesi interessati. Hanno due giorni di tempo per accettarla e chiudere la partita.
El Baradei ha escogitato una soluzione sottile per tenere insieme tutte le posizioni, una soluzione che potrebbe accontentare l’Iran ma che non esclude la Francia. Formalmente l’accordo sull’arricchimento all’estero lega solo Russia e Iran, Mosca si fa garante dell’intero processo. Ma a sua volta potrà “sub-appaltare” ad altri alcune fasi della procedura, come la realizzazione delle barre in Francia.
Di fatto il pericolo paventato da Teheran rimane sempre incombente, ma la garanzia russa potrebbe anche bastare. Possibilista appare da subito il capo-negoziatore iraniano Ali Ashqar Soltanieh secondo cui benché “la Francia abbia annunciato di essere pronta a far parte dell’accordo, sono i russi, come si può constatare, ad essere responsabili del contratto nel suo insieme… l’intesa è costruttiva… stiamo cooperando pienamente, dobbiamo ancora valutare il testo, tornarvi su e arrivare a una soluzione amichevole”.

Venerdì 23 novembre, pomeriggio. Nella giornata precedente sono giunte una dopo l’altra le dichiarazioni, scontate, di accettazione della proposta El Baradei da parte di Russia, Stati Uniti, e Francia. Si attende con trepidazione una risposta da Teheran, mentre mancano ormai poche ore alla scadenza del termine. A metà pomeriggio le agenzie cominciano a battere la notizia. È una doccia fredda. “L’Iran rifiuta l’accordo” riportano i primi lanci; “schiaffo” di Teheran alla comunità internazionale, titola La Repubblica on-line.
La posizione tuttavia non è ufficiale, a darne notizia è stata la televisione iraniana in lingua inglese Press Tv citando una fonte interna ai negoziatori. Dai successivi particolari si capisce meglio il quadro. Da Teheran non è giunto un rifiuto quanto una controproposta: in linea coi timori di vedere bloccato il proprio programma, piuttosto del trasferimento immediato all’estero dell’80% del suo combustibile a basso arricchimento, l’Iran vorrebbe acquistare direttamente l’uranio che gli serve già arricchito, evidentemente di volta in volta secondo le necessità. I dettagli non sono chiari ma secondo la fonte si attende una “risposta positiva” da parte delle grandi potenze, le quali da parte loro, si dice con un certo sarcasmo, “hanno semplicemente dato una risposta positiva alle loro stesse proposte… ciò che è davvero sorprendente!”.
La controproposta iraniana è apparsa subito debole e più che altro atta a prendere tempo, non sembrando risolvere i problemi avanzati, legittimamente o meno, da Usa e Francia. Se questa fosse la posizione definitiva il negoziato sarebbe destinato a chiudersi lì con un fallimento.
Ma non passano alcune ore che arriva il nuovo colpo di scena: l’Iran sta ancora studiando la proposta e chiede una proroga di alcuni giorni. Dalla Aiea sono ottimisti, in un loro comunicato si legge: “L’Iran ha informato il direttore generale che sta valutando la proposta in profondità e con attitudine favorevole, ma ha detto di aver bisogno di tempo fino alla metà della prossima settimana prima di poter fornire una risposta”.
Anche gli americani decidono di aspettare: “Ovviamente speravamo in una risposta oggi. Per noi è urgente. Ma speriamo che la prossima settimana la risposta sia positiva”, ha riferito il portavoce del Dipartimento di Stato Ian Kelly.

I prossimi giorni saranno dunque determinanti, possono significare una svolta di pace per tutta l’area mediorentale o l’avvitarsi verso uno scenario di escalation della crisi con esiti fatali. Si immagina che proprio in queste ore siano febbrili i contatti sotterranei, le rassicurazioni e i trabocchetti delle diplomazie segrete tra le parti che vogliono l’accordo e quelle che mirano al suo fallimento.
Teheran ha sicuramente in mano il cerino, dalla lungimiranza della leadership iraniana dipende tutto. Le notizie contrastanti giunte nella giornata di venerdì, le iniziali voci di rifiuto dell’accordo, la controproposta, quindi la richiesta di ulteriore tempo, sono segnali affatto rassicuranti e che probabilmente testimoniano di uno scontro di potere interno al regime. Arduo individuare gli attori di questo scontro ed a quali interessi rispondano maggiormente, se personali, di blocchi di potere, o internazionali.
Certamente il clima, che si è creato in Iran dopo la destabilizzazione post-elettorale e la strategia della tensione terroristica, non aiuta ad affrontare con serenità un momento così delicato. Di fondo riteniamo possano confrontarsi due anime.
Una militarista, rappresentata dal blocco dei pasdaran, che secondo studi recenti controlla circa un terzo della società iraniana, anche per le sue articolazioni economiche, finanziarie, ed amministrative. Tale fazione può temere un ridimensionamento del ruolo di potenza indipendente dell’Iran a causa di un progressivo riallineamento all’Occidente. Perdita di un ruolo “rivoluzionario” sul piano internazionale significa anche perdita delle posizioni di potere acquisite internamente.
L’altra anima è quella realista, soprattutto dei conservatori pragmatici, che rappresentano in qualche modo, nell’attuale esecutivo, la minoranza della maggioranza, ma anche dei riformisti nazionalisti. Costoro vorrebbero una apertura all’Occidente mantenendo intatte le strutture della Repubblica islamica, così da sfruttare al meglio le opportunità di sviluppo derivanti dalla posizione strategica dell’Iran. La grande difficoltà di questa parte è la sua divisione politica interna e anche la possibilità che nel campo riformista esistano settori che mirano a ribaltare il tavolo, secondo la logica del tanto peggio tanto meglio, puntando alla dissoluzione delle strutture di potere attuali.
Khamenei, la guida suprema, ed il presidente Ahmadinejad, si trovano nella scomodissima posizione di cercare una sintesi fra queste pulsioni, a loro volta, probabilmente, non perfettamente allineati, potendosi maggiormente ascrivere Khamenei al campo “realista” e Ahmadinejad a quello “militarista”.
Gli iraniani sono dunque invischiati in una rete di interessi, ideologie, pressioni e manipolazioni esterne, che possono far perdere di vista il perseguimento del bene supremo dell’interesse nazionale e della patria. È certo spiacevole che una nazione come l’Iran, che ha storicamente dimostrato il suo ruolo progressivo nelle sorti dell’umanità, si ritrovi nella posizione di dover contrattare con potenze straniere quello che è un proprio diritto, l’accesso alle tecnologie nucleari, mentre altri paesi si arrogano il giudizio sul bene o il male altrui mentre sfregiano in continuazione il diritto internazionale e dei popoli. E, tuttavia, questa è la situazione di fatto.
Obbiettivo superiore della dirigenza della Repubblica islamica è, in questo momento, la difesa del suo popolo dai nemici che ne vogliono l’annichilimento e la divisione che solo uno stato di guerra può portare. A costo di qualunque sacrificio e rischio questo dovrà essere evitato.
(1) Vizi privati e pubbliche virtù: l’Occidente finanzia e controlla il nucleare iraniano. http://www.megachipdue.info/tematiche/guerra-e-verita/547-vizi-privati-e-pubbliche-virtu-loccidente-finanzia-e-controlla-il-nucleare-iraniano.html

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Repubblica Serba di Krajina. Lettera aperta al Presidente della Federazione Russa, S.E. Dmitrij Medvedev

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Repubblica Serba di Krajina – GOVERNO IN ESILIO

Lettera aperta al Presidente della Federazione Russa, S.E. Dmitrij Medvedev

Vostra Eccellenza,

Lei è il presidente di uno dei paesi più potenti del mondo, un paese sulle cui azioni internazionali si baserà il futuro della civiltà. Sulla base di questo fatto, il destino della nazione serba e dei territori serbi si trova, in una certa misura, nelle vostre mani.

La Croazia occupò la Repubblica Serba di Krajina [un territorio protetto delle Nazioni Unite] nel 1995 e compì la pulizia etnica dei serbi di questo territorio, che erano l’88% di tutti gli abitanti.

La proprietà delle famiglie serbe sono state distrutte, abbandonate o consegnate a famiglie croate. La proprietà privata è un diritto sacro e un principio fondante della democrazia moderna. D’altra parte, la Croazia non ha rispetto di questi diritti, che appartengono anche ai serbi, anche se l’Unione europea insiste sul fatto che le nazioni europee devono assolutamente garantire tali standard democratici. Stiamo ricordando che la Repubblica Serba di Krajina è stata posta sotto la protezione delle Nazioni Unite, in base alla risoluzione del Consiglio di Sicurezza n. 743 (1992), che ha riconosciuto il diritti nazionali dei serbi e garantito che sul territorio della Krajina, le leggi croate non prevalgono. Questa decisione delle Nazioni Unite si è basata sulla costituzionalità storica dei serbi di Krajina. Questo costituzionalità è stata confermata dal re ungherese Matteo Corvino. Ha riconosciuto l’amministrazione, l’auto-governo, le forze armate e l’organizzazione giuridica dei serbi, nel 1473. I serbi hanno goduto di questo status politico anche con l’Austria, dal 1639, quando l’imperatore Ferdinando II ha ratificato la Costituzione serba [Vlaski] – lo “Status Valahorum“. Da allora i serbi possedevano propri tribunali, in Austria, nella cui amministrazione i giudici austriaci non erano coinvolti.

La costituzionalità della Repubblica Serba di Krajina è stata confermata dopo la prima guerra mondiale, quando lo Stato dei Serbi, Croati e Sloveni fu creato – nel 1918. Poi la Croazia è stata creata come stato binazionale dei Croati e dei Serbi, identico al Belgio, che è uno Stato binazionale di valloni e fiamminghi. Quando la disgregazione della Jugoslavia era in fase di preparazione, il parlamento croato ha eliminato la costituzionalità dei serbi e dichiarato la Repubblica di Croazia lo stato del solo popolo croato, i serbi sono stati convertiti in una minoranza nazionale.

Una certa parte dei rappresentanti del parlamento del Consiglio europeo, ha suggerito alla Croazia, il 26 02 2006, di restituire la costituzionalità ai serbi e che la Croazia dovesse diventare nuovamente uno stato bi-nazionale, come lo era fino al 1990.

La costituzionalità serba della Krajina è riconosciuta anche dall’Alta Corte della California, che ha riconosciuto il governo della Repubblica Serba di Krajina come co-accusatore contro la banca del Vaticano e l’Ordine cattolico Francescano della Croazia, per quanto riguarda la privazione di serbi, ebrei e zingari delle loro proprietà, durante la Seconda Guerra Mondiale. Siamo convinti che capirete la sofferenza della nazione serba, e che inoltre Lei, a causa degli interessi nazionali russi, proteggerà la nazione serba e i territori serbi.

Noi crediamo che la Federazione Russa possa raggiungere con successo questo scopo, aprendo un dibattito al Consiglio di Sicurezza, all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite o di fronte al tribunale internazionale dell’Aia, per quanto riguarda i crimini croati e il genocidio dei serbi di Krajina. La Russia può anche proteggere la nazione e i territori serbi, utilizzando le relazioni con i membri dell’UE, OSCE e attraverso la cooperazione bilaterale con la Germania, Regno Unito, Francia e altri importanti paesi europei.

Distinti saluti,

Milorad Buha

presidente del Governo della Repubblica Serba di Krajina

Traduzione di Alessandro Lattanzio
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Due decenni di speranze e illusioni sulle rovine del Muro di Berlino

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Fonte: FONDSK – Strategic Culture Foundation

Il Presidente russo D. Medvedev visiterà la Germania su invito di A. Merkel il 9 novembre per assistere alle celebrazioni internazionali del ventesimo anniversario della caduta del Muro di Berlino. Alla presenza dei leader dell’epoca della Guerra Fredda i politici della nuova era dimostreranno sfarzosamente che non esistono più linee di divisione in Europa.

Il Muro costruito inizialmente in via provvisoria nel 1961 per ordine della nomenclatura della RDT lungo il confine fra i settori occidentale ed orientale di Berlino tagliò completamente le comunicazioni fra le due parti della città divisa dagli Alleati nel 1948. Divenne forse l’immagine più significativa dei tempi della cortina di ferro contraddistinti da una contrapposizione fra due mondi, ognuno dei quali sosteneva un modo di vivere suo proprio.

Il Muro di Berlino resistette per oltre 26 anni. Quasi altrettanto tempo è trascorso dalla sua caduta e dalla conseguente fine della cortina di ferro. Enormi cambiamenti geopolitici – la prima variazione di confini dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, l’unificazione della Germania e la disintegrazione dell’URSS e di alcuni altri Paesi – si sono complessivamente attuati in un periodo di circa 18 mesi. Regimi liberali sono fioriti nella maggioranza dei Paesi dell’Europa dell’Est e tale sviluppo ha reso possibile la formazione di un sistema internazionale completamente nuovo.

La caduta del Muro di Berlino significò l’alba di una nuova epoca in cui non c’era posto per molte delle vecchie barriere. Due decenni fa, Berlino, la Germania e sostanzialmente il mondo intero festeggiarono in anticipo la fine della Guerra Fredda. M. Rostropovich suonava presso il muro e 118 artisti da varie parti del mondo lo dipingevano con graffiti, trasformando così una parte di esso in una galleria d’arte all’aria aperta. Uno spicchio dei graffiti raffigurante il vecchio L. Brezhnev ed E. Honecker che si baciano divenne famoso in tutto il mondo come un simbolo del passato che era stato irreversibilmente lasciato alle spalle.

L’immagine d’insieme, comunque, non appare così serenamente ottimistica due decenni dopo l’evento. Evento che divenne il prologo della violazione dell’equilibrio globale di forze e della più grande catastrofe geopolitica del XX secolo – il collasso dell’Unione Sovietica e del mondo bipolare. Il venir meno di uno dei suoi pilastri rese il mondo instabile.

La fine del Muro di Berlino alimentò non solo grandi speranza, ma anche grandi illusioni. La definizione della responsabilità storica per la divisione d’Europa in blocchi fu ingiustamente stabilita a priori. Da quando si decise che l’URSS era la parte colpevole (e non furono avanzate obiezioni all’idea da parte della nomenclatura sovietica), ci si aspettava che fosse Mosca a fare concessioni. In maniera non sorprendente, tale approccio pregiudizievole si tradusse nel miglioramento per alcune nazioni ampiamente a spese di altre. Per la Russia l’unificazione tedesca, lo stabilirsi di regimi democratici in Europa orientale attraverso rivoluzioni di velluto, e “il nuovo pensiero” tradotto nella perdita delle sue postazioni geopolitiche, un precipitoso ritiro delle sue forze, la perdita mai risarcita di strutture dal valore di miliardi di dollari in Germania, Cecoslovacchia, Ungheria e Polonia e l’escalation di tensioni sociali nella vita interna.

L’Occidente – come in molti altri casi – fece ricorso a politiche contraddittorie, la colpa che tradizionalmente imputava all’URSS. Gli USA, Gran Bretagna, Germania e la NATO promisero un sacco di volte che nessuna espansione della NATO avrebbe seguito la dissoluzione del blocco orientale. Nella sua intervista dell’aprile 2009 a Bild l’ex Presidente sovietico M. Gorbachev dichiarò che la Germania aveva mantenuto tutte le promesse fatte alla Russia ma ciò nondimeno ammise che – nonostante H. Kohl, il Segretario di Stato statunitense J. Baker ed altri gli avessero assicurato che la NATO non si sarebbe mai espansa ad est – gli USA non mantennero la promessa e la Germania dimostrò indifferenza forse sentendosi felice del fatto che i Russi fossero stati truffati.

In violazione degli accordi (che non erano mai stati messi per iscritto) la NATO cominciò ad aumentare i suoi membri e rinforzò il suo potenziale militare integrando paesi dell’Europa dell’est, comprese le repubbliche ex sovietiche. I suoi sforzi per realizzare la superiorità in quanto a tecnologia ed armamenti nei confronti del suo vecchio rivale e per avvicinarsi ai confini della Russia stanno minando la fiducia nelle relazioni internazionali. Mentre i confini vengono cancellati nell’UE, il processo è affiancato dalla creazione di una nuova barriera lungo la frontiera occidentale russa.

Perfino M. Gorbachev, un politico che ha capitalizzato molto grazie al “nuovo pensiero”, dice: «L’Europa non affronta alcuna minaccia di nuovi muri vent’anni dopo la demolizione del Muro di Berlino, ma vi sono ancora linee divisorie al suo interno». Stranamente, egli non si sente responsabile del risultato, mentre l’attuale leadership russa deve capire che c’è bisogno di un severo realismo nel rapportarsi coi suoi partner.

In definitiva due conclusioni discendono dall’esperienza dei due decenni trascorsi.

Innanzitutto, i leader russi non dovrebbero essere tanto noncuranti nel valutare l’attendibilità dei partner con cui interagiscono, quanto la nomenclatura sovietica era solita fare nell’epoca del crepuscolo del Paese. In politica è impossibile basarsi su parole o buona volontà e le amicizie personali con leader degli altri Paesi non estinguono la necessità di promuovere i propri interessi.

Secondo, la sicurezza internazionale non si tocca. Di recente, il tema era stato più volte sollevato dal Presidente russo. Questi ha detto all’Assemblea Generale dell’ONU: «Noi tutti speriamo che la Guerra Fredda faccia ormai parte del passato, ma il mondo di oggi non è diventato più sicuro di quanto fosse prima. Ciò di cui abbiamo attualmente bisogno non sono dichiarazioni e demagogia, bensì soluzioni moderne e strutture ben definite per gli accordi politici già esistenti, compresi quelli riguardanti il principio del diritto internazionale di non consolidare le propria sicurezza a spese di quella altrui».

I due decenni dalla caduta del Muro di Berlino hanno mostrato chiaramente che tutti i tentativi di conseguire la sicurezza a spese di altri portano a riacutizzare vecchi conflitti. La tentazione di costruire nuovi muri è foraggiata da numerosi di questi tentativi.

(traduzione a cura di Lorenzo Salimbeni)

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La caduta del muro ha provocato le guerre civili nella Jugoslavia

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Repubblica Serba di Krajina GOVERNO IN ESILIO
11.080 Земун, Магистратски трг 3  тел. 3077-028, vladarsk@gmail.com,

Numero. 1115/09 – 9. 11. 2009.
La caduta del muro ha provocato le guerre civili nella Jugoslavia

Il governo della Repubblica Serba di Krajina in esilio è onorato di accogliere i rappresentanti diplomatici e consolari della Repubblica di Serbia e di ricordare loro le 35 note – con le menzogne che sono state diffuse nei paesi dell’Europa occidentale e negli Stati Uniti riguardo ai Serbi ed ai territori serbi. Il governo della Repubblica Serba di Krajina osserva che in questo tipo di note – dal 28 Giugno 2007, a partire dalla Nota 432/07, che continua tutt’oggi, perché la NATO e l’UE, assieme al Vaticano, continuano ad essere disonorevoli riguardo ai serbi ortodossi. Questa politica è contraria alle norme delle Nazioni Unite in materia di diritti civili. Il governo di Krajina segnala ai rappresentanti diplomatici consolari della Repubblica di Serbia, che il 20° anniversario del crollo del muro di Berlino [1989] e la riunificazione dei territori di lingua tedesca, che è stato celebrato come una vittoria della democrazia e fine della guerra fredda. Questo non è vero. Ai leader politici, agli intellettuali e ai giornalisti deve essere ribadito che l’unificazione della Germania fu uno dei principali fattori che ha contribuito all’escalation della guerra civile in Jugoslavia, dal 1991 al 1995, e ha causato la campagna terroristica della NATO  contro la Serbia e il Montenegro, nel 1999.

Il ministro degli affari esteri tedesco, Hans Dietrich Genscher, è stato uno dei maggiori promotori della disgregazione della federazione jugoslava. Ha trattato [per conto degli Stati Uniti e del Vaticano] con le nazioni della Comunità europea, costringendole a partecipare attivamente, a fianco della Germania, all’organizzazione e all’armamento delle forze separatiste di Slovenia, Croazia, Bosnia-Erzegovina e Kosovo.

La disintegrazione della Jugoslavia è stato un crimine che ha portato al genocidio e alla pulizia etnica dei serbi cristiano-ortodossi. Le forze separatiste croate, istigate dal, e con il sostegno di, Germania, Stati Uniti e Comunità europea, hanno iniziato ad espellere i serbi dalle città croate. Ciò ha portato (nel 1995) alla messa al bando definitiva della comunità serba dal territorio serbo della Repubblica Serba di Krajina, che era una zona protetta delle Nazioni Unite.

L’esercito della Repubblica di Croazia espulse tra 500.000 e 800.000 serbi. La proprietà privata serba finì nelle mani del governo croato e dei membri della nazione croata. Questo non è democratico ed è seriamente contrario alle leggi internazionali in materia di proprietà privata.

Il governo della Repubblica Serba di Krajina chiede ai rappresentanti diplomatici consolari della Repubblica di Serbia di notificare alle loro istituzioni che la sottrazione della proprietà serba deve essere confrontata con il destino delle proprietà ebraiche durante la Seconda Guerra Mondiale, quando il partito nazional-socialista del Adolf Hitler governava la Germania. Il parallelo tra il destino dei serbi e degli ebrei è stato notato dagli artisti croati, che hanno composto una canzone molto popolare in Croazia, che glorifica la Germania, perché la Germania ha permesso alla Croazia di ottenere la proprietà dei serbi espulsi. Questa canzone si chiama: Thank You Germany o Danke Deutschland.

Il governo della Repubblica Serba di Krajina ricorda che il crollo del muro di Berlino ha causato cambiamenti terribili. Le forze militari e i poteri tedeschi non potevano essere inviati al di fuori dei confini della Germania [in base alle decisioni prese dagli Alleati dopo la Seconda Guerra Mondiale]. È un dato di fatto, l’esercito tedesco (in quanto membro della NATO) ha demolito fabbriche, edifici, infrastrutture, ospedali, scuole e parti del settore agricolo serbi nel 1999, quando anche un paio di migliaia di civili serbi [compresi bambini molto piccoli] furono assassinati.

Il governo della Repubblica Serba di Krajina sta approfittando di questa occasione per mostrare il massimo rispetto verso le rappresentanze diplomatiche e consolari della Repubblica di Serbia.

I rappresentanti diplomatico-consolari, Belgrado

Traduzione di Alessandro Lattanzio
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Per Trieste si prospetta un futuro come snodo energetico internazionale

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A Trieste uno dei luoghi comuni più diffusi riguarda gli indubbi tempi d’oro del suo porto, quand’era l’unico sbocco al mare della sezione austriaca dell’Impero asburgico ed ancor oggi la funzione portuale viene vista in molti ambienti come la soluzione migliore per risollevare quest’estremo lembo a nord-est d’Italia dal suo stato di torpore economico ed imprenditoriale. Molte però sono le remore ideologiche e preconcette nel ridefinire lo scalo giuliano piuttosto come appendice a sud-ovest della massa mitteleuropea, regione d’incontro ed alle volte di scontro delle aree latina, germanica e slava. A prescindere dal porto e dalle sue indubbie potenzialità, però, Trieste oggi sembra calarsi in un altro ruolo, che può anche non essere esclusivo, vale a dire quello di snodo delle politiche energetiche internazionali.

Tramontato il progetto di gasdotto che dalla Romania doveva giungere fino al capoluogo giuliano, oggi il retroterra triestino, per lo più sito in Slovenia, sarà invece interessato da South Stream. Il 14 novembre, infatti, il Ministro russo dell’Energia Sergiei Shmatko ed il suo omologo sloveno Matej Lahovnik, alla presenza di Vladimir Putin e del Premier di Lubjana Borut Pahor, hanno sottoscritto a Mosca un accordo per il coinvolgimento della repubblica ex-jugoslava nel progetto frutto della joint-venture Gazprom-Eni. Attraversate Bulgaria, Serbia ed Ungheria, il tracciato proseguirà quindi in Slovenia per poi concludersi a Monfalcone, scalo portuale limitrofo a Trieste per ora noto quasi esclusivamente per la cantieristica navale.

Coincidenza ha voluto che Paolo Scaroni, amministratore delegato Eni, dopo aver affrontato in maniera positiva martedì scorso alcune questioni relative alla cooperazione bilaterale in campo energetico con l’a.d. di Gazprom, Aleksiei Miller, sia stato a Trieste per ricevere il diploma honoris causa da parte del MIB, prestigiosa scuola di management sviluppatasi parallelamente all’ateneo triestino. Nel corso della lectio magistralis intitolata “La lupa e il cane a sei zampe”, Scaroni ha presentato la struttura dell’impero romano come modello ideale per un’azienda, come Eni ad esempio, che abbia intenzione di svilupparsi su scala globale. Davanti ad un ampio e qualificato pubblico del mondo finanziario e manageriale, l’illustre ospite ha evidenziato i cinque punti di forza della struttura imperiale, ancor oggi attualissimi: “standardizzazione e organizzazione, meritocrazia, integrazione, innovazione, comunicazione”.

Conclusa la relazione con un “Hic sunt leones” che voleva ricordare non solo le origini romane di Trieste-Tergeste, ma anche il leone che campeggia nel logo delle Assicurazioni Generali (presenti in prima fila i vertici della società, di cui si vocifera che Scaroni potrebbe assumere la presidenza allo scadere del mandato di Antoine Bernheim nell’aprile prossimo), Scaroni ha risposto a molti quesiti d’ambito prettamente energetico. Si è espresso a favore del progetto di rigassificatore presentato da Gas Natural da realizzarsi in località Zaule, alla periferia di Trieste (Endesa propone invece un impianto marittimo in mezzo al Golfo di Trieste): tale struttura avrebbe la sua ragion d’essere nel fatto che il 70% del gas naturale in Italia viene consumato nelle regioni settentrionali e quindi è nel Nord del Paese che andrebbe realizzato un rigassificatore (progetti alternativi riguardano ad esempio il litorale pugliese, ma anche Veneto e Liguria). La questione a livello locale è ampiamente dibattuta da mesi, ma partendo da considerazioni prettamente ecologiste e di impatto ambientale, senza affrontare un discorso di più ampio respiro concernente la politica energetica nazionale. A tal proposito, Scaroni ha d’altro canto ribadito la necessità di ritornare al nucleare proprio per diversificare le fonti di approvvigionamento ed anche qui ha toccato un tasto dolente del dibattito regionale. Il presidente del Friuli Venezia Giulia Renzo Tondo, infatti, dopo aver in un primo tempo avvallato la disponibilità della regione ad accogliere impianti nucleari, ha poi ripiegato su una maggiore sinergia con il reattore sloveno ubicato a Krsko e sulla cui funzionalità non mancano però le perplessità, trattandosi di un modello di vecchia generazione.

Proprio dalla Slovenia sono altresì giunte numerose proteste nei confronti dei progetti di rigassificatore da realizzare a Trieste ad un paio di chilometri dal confine, adducendo motivazioni di carattere ambientale che non sono state ridimensionate neppure in seguito ad un vertice interministeriale italo-sloveno recentemente svoltosi a Brdo pri Kranju. Lubiana, invece, si dimostra ben più propensa ad avvallare il progetto di un rigassificatore a Castelmuschio sull’isola di Veglia, vale a dire in territorio croato e su progetto di un altro colosso energetico russo, cioè Lukoil. Lubiana che fra l’altro continua a porre il veto sull’adesione di Zagabria all’UE per una questione di confini marittimi e che al momento di assumere la presidenza di turno dell’UE nel primo semestre 2008 è stata al centro di uno scandalo: era, infatti, emerso che l’ambasciatore sloveno a Washington aveva ricevuto da ambienti diplomatici statunitensi precise istruzioni sulla politica da adottare a livello europeo e, nonostante le smentite, la Slovenia ha dimostrato coi fatti la sudditanza a certe indicazioni di matrice atlantista, specialmente riguardo il riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo.

Insomma, Trieste ed il suo hinterland nei prossimi anni si troveranno al centro della politica energetica europea e se da parte italiana grazie all’opera dell’Eni avvallata recentemente dalle scelte in politica estera di Silvio Berlusconi sembra esserci una chiara visione delle cose, sul versante sloveno non si riesce a capire ancora chiaramente quanta forza abbiano le correnti filorusse in un Paese che a partire dalla conquista della sua indipendenza ha sempre fatto dell’atlantismo la sua bussola in politica estera.

Lorenzo Salimbeni Salimbeni, collabora a Eurasia. Rivista di studi geopolitci. contributi pubblicati: La politica italiana e il Kosovo dal 1918 all’8 settembre 1943 (nr. 2/2008, pp. 199-216)

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Nasce l’Associazione Amicizia Italo-Serba

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Si comunica che il 30 novembre 2009 si costituirà  l’Associazione per l’ Amicizia talo-serba

Qui di seguito lo statuto.

ASSOCIAZIONE AMICIZIA ITALO-SERBA
Articolo 1 (Principi ispiratori)

L’Associazione Nazionale di Amicizia italo-serba è un’organizzazione democratica composta da persone che vogliono operare, nel rispetto della Costituzione italiana, per lo sviluppo dei rapporti internazionali di amicizia, di solidarietà e cooperazione con il popolo serbo e i suoi legittimi rappresentanti.
L’Associazione Nazionale di Amicizia italo-serba si ispira ai principi della solidarietà, della uguaglianza e della fraterna collaborazione tra i popoli, contro ogni forma di oppressione, per la salvaguardia dei diritti umani collettivi e individuali, per il consolidamento della pace nel mondo.
L’Associazione Nazionale di Amicizia italo-serba è autonoma dal governo e dai partiti politici. L’Associazione Nazionale ha le sue sedi legali in Roma e in Belgrado.

Articolo 2 (Scopi)

Scopo dell’Associazione è lo sviluppo del lavoro per l’amicizia e la solidarietà con il popolo serbo attraverso le associazioni e le istituzioni.
Pertanto è suo impegno:

  • promuovere scambi fra Italia e Serbia nel campo della cultura, della scienza, delle arti e delle attività sociali, mediante relazioni e convenzioni con istituzioni elettive, gruppi ed associazioni professionali, enti, organizzazioni sociali, università, istituti di ricerca, centri studi.
    Negli ambiti specifici, s’impegna a sollecitare una cooperazione tecnica, scientifica, economica, culturale, artistica di comune interesse.
  • promuovere gemellaggi tra enti, scuole ed istituzioni dei due paesi.
  • promuovere e organizzare mostre, rassegne, conferenze, convegni, seminari, manifestazioni culturali, spettacoli in genere, nonché festival, viaggi di studio, di lavoro volontario e turistici.
  • promuovere iniziative di carattere sociale, economico, culturale, sportivo, con il fine di perseguire e potenziare l’attività dell’Associazione, senza fini di lucro, quale strumento di solidarietà attiva e concreta con la Serbia.
  • curare la pubblicazione di periodici, monografie, documenti, bibliografie, ecc. per la conoscenza reciproca della storia, della cultura e della realtà socio-economica dell’Italia e della Serbia.
  • mantenere regolari rapporti con le sedi diplomatiche serbe  in Italia e quelle italiane in Serbia.

Articolo 3 (Partecipazione ad iniziative esterne)

L’Associazione può aderire a quelle manifestazioni e iniziative che a livello nazionale e/o internazionale, abbiano come fine la pace e la solidarietà tra i popoli, l’affermazione dei valori di libertà e democrazia, contro ogni forma d’imperialismo e di oppressione.
L’Associazione Nazionale e le sue strutture territoriali non possono partecipare direttamente ad elezioni politiche o amministrative, né nazionali, né locali, né internazionali.
I singoli soci esercitano i diritti di cittadini, escludendo un coinvolgimento diretto, organizzativo o finanziario dell’Associazione.

Articolo 4 (Rapporti internazionali)

L’Associazione riconosce come interlocutori serbi principali e privilegiati l’Ambasciata della Repubblica di Serbia a Roma, il Patriarcato serbo-ortodosso a Belgrado e tutte le associazioni religiose, civili, solidali, culturali che lavorino sui principi dell’amicizia e della solidarietà, sul rafforzamento dei valori politici, sociali, spirituali e culturali dei due popoli.
L’Associazione partecipa all’attività nazionale e internazionale delle Associazioni che agiscono per gli stessi scopi.
L’Associazione può, a sua volta, aderire ad Istituti, Enti, organizzazioni del Terzo settore e organizzazioni della cooperazione e della solidarietà internazionale, purché fondino la loro ragione su una vita democratica e abbiano come fine la solidarietà tra i popoli.
Le modalità di adesione dell’Associazione e la partecipazione della stessa alle varie iniziative nazionali ed internazionali, sono decise e stabilite dagli organismi dirigenti.
In tale contesto è data facoltà ai livelli territoriali di base e regionali dell’Associazione, di aderire autonomamente ad iniziative di carattere sovra-regionale e sopranazionale, previa comunicazione a livello organizzativo superiore, e comunque a quello nazionale.

Articolo 5 (Adesioni)

Possono essere soci dell’Associazione tutte le persone democratiche ed interessate ai fini sopra indicati che vivano in Italia, in Serbia o in paesi terzi, e che condividano i principi e intendano perseguire gli scopi del presente Statuto, senza alcuna discriminazione per la loro opinione politica e per i loro principi religiosi o filosofici.

Articolo 6 (Soci)

A tutti i soci e in tutte le istanze dell’Associazione Nazionale, a salvaguardia delle differenze di genere, è garantito il principio delle pari opportunità.
I soci si distinguono in ordinari e onorari.
Sono soci ordinari coloro i quali si iscrivono volontariamente e sono in regola con il pagamento della contribuzione associativa annuale. Ciascun aderente ha diritto a partecipare alla vita dell’Associazione.
Sono soci onorari le personalità che per il loro prestigio e la funzione pubblica politica, sociale e culturale diano prestigio all’Associazione ed operino nei loro campi specifici al consolidamento dei rapporti con la Serbia.

Articolo 7 (Diritti e doveri)

Tutti i soci hanno il diritto di essere informati e sono impegnati a fare circolare le informazioni sull’attività dell’Associazione e sulla Serbia.
Hanno il diritto di frequentare le sedi, di usare i materiali di consultazione e di lettura, di partecipare e di dare il proprio contributo volontario al lavoro ed all’organizzazione di tutte le iniziative dell’Associazione.
Nessuna limitazione è posta alla piena libertà d’espressione e convinzione dei soci, le cui opinioni per proposte e idee che tendono a sviluppare l’attività associativa, sono discusse con metodo democratico e civile.
Tutti i soci hanno il diritto di partecipare alle assemblee congressuali, esercitano il diritto di voto per l’approvazione e le modifiche dello Statuto e dei regolamenti da proporre all’Assemblea generale.
Tutti i soci, se di maggiore età, hanno il diritto di:

  • essere eletti negli organi direttivi;
  • essere delegati a rappresentare l’associazione a convegni, seminari, nazionali o internazionali, sulla base delle indicazioni degli organi dirigenti nazionali.

Nessun diritto compete al socio e ai suoi eredi o aventi causa sulle somme versate all’Associazione per qualsivoglia titolo.
Tutti i soci hanno il dovere di osservare le norme dello Statuto.

Articolo 8 (Decadenza dalla qualifica di socio)

La qualità di socio si perde:

  • per dimissioni;
  • per mancato pagamento della contribuzione associativa;
  • per decisione del Comitato di Garanzia a seguito di una proposta dell’assemblea dei soci del Circolo o della struttura d’appartenenza, in casi d’eccezionale gravità, e qualora il socio abbia:
  • violato le norme statutarie;
  • compromesso gli interessi ed i principi generali dell’Associazione;
  • danneggiato moralmente e materialmente l’Associazione.

La delibera assunta deve essere tempestivamente comunicata agli organismi dirigenti nazionali e all’interessato con comunicazione scritta entro tre giorni.
Nel caso in cui il socio in questione detenga qualsiasi carica direttiva questa si ritiene sospesa in via cautelare e sostituito dall’incarico sino alla definitiva risoluzione della controversia.

Articolo 9 (Organismi dirigenti)
Organismi dirigenti e rappresentativi della Associazione Nazionale sono l’Assemblea Generale e il Comitato Direttivo.

Articolo 10  (Assemblea Generale)

L’Assemblea Generale è convocata ogni anno dal Presidente.
Fissa le linee generali dell’attività, le modalità delle adesioni, rende conto dell’attività svolta nel periodo precedente e decide gli impegni programmatici per il periodo futuro; elegge i componenti del Comitato Direttivo.
L’Assemblea congressuale delibera in base al voto di maggioranza.

Articolo 11 (Comitato Direttivo Nazionale)

Il Comitato Direttivo Nazionale è composto di componenti eletti dall’Assemblea.
Il Comitato Direttivo Nazionale può avvalersi della collaborazione di personalità ed esperti nei vari settori delle attività previste dall’Associazione.
Il Comitato Direttivo Nazionale opera collegialmente. Propone i piani d’attività, indirizza e controlla l’operato della Segreteria Nazionale, propone eventuali accordi con le istituzioni serbe e le associazioni internazionali, decide nel merito d’adesione e partecipazione ad istituzioni, organizzazioni, iniziative nazionali ed internazionali.
Il Comitato Direttivo Nazionale decide sul bilancio finanziario e patrimoniale della Associazione e stabilisce le modalità delle quote associative o di altri proventi per l’autofinanziamento dell’Associazione stessa. Il bilancio preventivo e consuntivo deve essere predisposto ed approvato annualmente entro il 31 marzo dell’anno successivo e reso pubblico mediante comunicazione dello stesso ai Circoli.
Elegge inoltre, su proposta della Segreteria Nazionale, il Tesoriere.

Il Comitato Direttivo Nazionale si riunisce almeno una volta ogni tre mesi o su richiesta di 1/3 dei suoi componenti.
La riunione del Comitato Direttivo Nazionale è validamente costituita ed è atta a deliberare, in prima convocazione, con almeno la metà più uno dei suoi componenti. In seconda convocazione la riunione è validamente costituita qualunque sia il numero dei presenti. Le delibere sono assunte con il voto favorevole della maggioranza dei presenti.
La riunione del Comitato Direttivo Nazionale deve essere convocata per iscritto almeno 15 giorni prima della data prevista, precisando l’ordine del giorno.

Articolo 12 (Il Presidente)
Il Presidente dell’Associazione è eletto dal Comitato Direttivo Nazionale.
Il Presidente rappresenta legalmente l’Associazione di fronte alle autorità italiane e serbe, nei confronti delle varie associazioni, enti, partiti, istituzioni nazionali ed internazionali.
La firma sociale spetta al Presidente e al Tesoriere.

Articolo 13 (Tesoriere)
Il Tesoriere ha il compito di provvedere alle registrazioni contabili ed alle eventuali operazioni fiscali ed amministrative, alla stesura del bilancio preventivo e consuntivo annuale dell’Associazione, al controllo del versamento delle quote associative.
Inoltre deve relazionare al Comitato Direttivo Nazionale, quando ne sia fatta richiesta, sull’andamento amministrativo dell’Associazione.

Articolo 15 (Autofinanziamento)

L’Associazione Nazionale di Amicizia italo-serba e tutte le sue organizzazioni presenti sul territorio svolgono la loro attività senza fini di lucro e traggono i loro proventi da:

  • quote associative;
  • contributi volontari da persone, istituti pubblici e privati, da organizzazioni democratiche, donazioni, lasciti, ecc.;
  • da proventi derivanti da attività promozionali di vendita di pubblicazioni letterarie, musicali, prodotti artigianali, da iniziative culturali, politiche, sportive, mercatini, spettacoli e feste, viaggi o altre forme di carattere ricreativo;
  • sottoscrizioni tra i soci o nell’ambito delle attività sociali svolte secondo gli scopi della Associazione.

L’adesione alla Associazione non comporta obblighi di finanziamento o di esborso ulteriori rispetto al versamento della quota annua di iscrizione.

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Il teatrino afghano dei burattini

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Durante le ultime elezioni presidenziali in Afghanistan l’opinione pubblica occidentale ha scoperto l’acqua calda sulle innevate montagne del paese centrasiatico. Il coro di sospetto o di riprovazione per le irregolarità tenute nel corso delle elezioni è stato unanime. Né avrebbe potuto essere altrimenti. Non vi sono infatti dubbi che non si possano tenere regolari elezioni nel conteso nel quale si trova lo sventurato paese. Un paese occupato e posto sotto tutela non può certo godere dell’indispensabile sovranità nazionale che rappresenta pur sempre la condizione sine qua non per costruire la democrazia, la condizione necessaria anche se non sufficiente della sua costituzione. Senza la sovranità non c’è né ci può essere la democrazia. Il ridicolo dato dell’affluenza alle urne (circa un terzo degli aventi diritto) è il dato più significativo delle elezioni.

Cosa pretendevano dunque i media dell’Occidente?

La verità che si nasconde dietro tanto ciarlare pare essere ben altra: il rapporto tra il presidente virtuale dell’Afghanistan, Karzai, ed i suoi padrini americani non è più quello di prima.

Non conta nulla la vaga idea della democrazia che hanno gli anglo-americani nella loro sfiducia verso Karzai e verso il modo con cui è stato eletto. Come non ha mai contato (se non nella propaganda) tutte le volte che l’imperialismo americano è intervenuto ai quattro angoli del globo per puntellare i suoi interessi, spesso deponendo presidenti democraticamente eletti e mettendo al loro posto come propri fiduciari i peggiori criminali che abbiano mai calcato le scene del mondo.

Più che di democrazia si tratta di imperialismo.

Nelle vicende afghane in particolare ciò che è sempre contato per Washington (quanto meno dall’epoca della crociata contro la repubblica afghana filo-sovietica dalla fine degli anni ’70) è stato il controllo del paese. Fu Brzezinski (padre putativo del presidente Barak Obama) a sostenere che pur di penetrare nella regione e cacciarne l’URSS valeva la pena di creare i presupposti per l’insediamento delle bande islamiste radicali antesignane dei talebani. “Cosa conterà di più nella storia?” si chiedeva retoricamente, “la fine dell’Unione Sovietica, od il fatto che le donne afghane siano state costrette a mettere il burka?”

Specie dal 2001 il controllo diretto del paese è divenuto fondamentale nelle strategie Usa volte a penetrare in Asia centrale per accaparrarsi cruciali risorse strategiche ed inserirsi come un cuneo tra la Cina, la Russia ed il subcontinente indiano.

Subito dopo l’invasione del 2001 furono gli Stati Uniti ad imporre un loro uomo alla guida del paese, dopo che i talebani erano stati messi in fuga. Furono loro a paracadutare su Kabul Karzai, pescato direttamente dalla Unocal (l’azienda petrolifera che doveva gestire la costruzione degli oleodotti per drenare gli idrocarburi centrasiatici attraverso il paese, verso i porti dell’Oceano indiano). La Casa Bianca non nutriva all’epoca troppa fiducia nelle bande ribelli dell’Alleanza del Nord che avevano combattuto contro i talebani e che avevano goduto del sostegno dei russi e degli iraniani.

Furono loro all’epoca a imporre Karzai. Ma le cose, si sa, possono cambiare velocemente nel Grande gioco per l’Asia centrale e l’amico di ieri si trasforma in una creatura dalle fattezze misteriose e dalle finalità inesplicabili. E’ quello che è successo a Karzai che, trovatosi alla guida di un governo puramente formale ed in balìa dei clan e della lotta armata delle tribù di gran parte del paese contro il suo potere e contro la presenza occidentale che lo sostiene, ha iniziato a guardarsi attorno. Il suo problema, analogamente a quello che hanno tutti gli alleati degli americani in questa partita (dagli occidentali al Pakistan), è che Washington continua a formulare richieste impossibili da soddisfare, se non al costo di suicidarsi politicamente. Il Pakistan è stato costretto ad accettare l’inversione totale della sua politica verso l’Afghanistan e ad accettare il bombardamento dei droni statunitensi sul suo territorio coi risultati che si vedono: il paese viene risucchiato nelle sabbie mobili della guerra mese dopo mese mentre sanguinosi attentati scuotono quotidianamente ogni angolo del “paese dei puri” ed i profughi in fuga dalle regioni di frontiera, dove impazza la guerra, ormai non si contano più[1].

Karzai doveva pur sopravvivere, e così ha iniziato a muoversi con un’autonomia che è piaciuta poco ai suoi padrini. A Washington devono aver strabuzzato gli occhi quando hanno cominciato a notare che il loro “pupazzo” dava segni di vita autonomamente dalle loro indicazioni, un po’ come Geppetto quando scoprì che il suo burattino, Pinocchio, si muoveva senza fili ed era dotato di voce.

Karzai aveva cominciato a stringere accordi con alcuni clan e gruppi vicini a sponsor non graditi agli Usa (dal filo-iraninano Ismail Khan, all’ondivago capo uzbeko Dostum fino ai potenti gruppi tagiki di Fahim) nel tentativo disperato di garantirsi una propria base di potere. Aveva anche cercato nuovi appoggi a livello internazionale, di fronte ai ripetuti fallimenti della strategia Usa nella regione. Aveva partecipato ad un vertice indetto a Teheran da Ahmadinejad insieme al presidente pakistano Zardari, aveva presenziato più volte alle riunioni dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (che riunisce le repubbliche dell’Asia centrale ex sovietica attorno alla Russia e alla Cina), aveva dimostrato disponibilità ad un marcato attivismo della diplomazia russa nella crisi.

Aveva, insomma, fatto una serie di scelte che, per quanto velleitarie, deboli e dettate dall’opportunismo, avevano mandato su tutte le furie gli strateghi statunitensi, alle prese con un cerchio che non vuole quadrare.

Gli americani sono entrati in una spirale contraddittoria: più combattono, più compiono stragi, più sono invisi dalla popolazione e spingono l’area grigia delle tribù afghane che non si erano schierate verso i talebani e le bande ribelli, indebolendo il governo virtuale di Kabul. D’altra parte il governo afghano cerca di manovrare per evitare di fare da parafulmine.

L’unica soluzione che a Washington trovano consiste nell’inviare truppe. Obama festeggerà il suo premio Nobel per la pace inviando probabilmente altri 40 mila uomini verso il fronte.

Gli americani sono fortemente indispettiti con Karzai già da tempo, dal crepuscolo dell’era Bush. Con il cambio della guardia alla Casa Bianca anche in questo campo non si sono registrate novità.

Washington ha esercitato pressioni sempre più forti su Karzai, intimandogli di non collaborare con i russi e con gli altri vicini dell’Afghanistan nella lotta al traffico di droga, ponendo richieste inesaudibili (l’afghanizzazione del conflitto), infine cercando altri interlocutori ancor più disponibili. E’ infatti lecito porsi dei dubbi circa la volontà di Washington di avere a Kabul un governo stabile e forte che possa prendere in mano la situazione, perché il rischio che questo sarebbe troppo autonomo è alto.

E’ la stessa ragione per la quale quando gli europei fanno avere al segretario dell’ONU un pezzo di carta che pone la questione di stabilire un calendario vengono gelati da Rasmussen, segretario generale della Nato.

I colpi bassi assestati dai media occidentali a Karzai sembrano fatti appositamente per evitare il relativo stabilizzarsi di un autonomo centro di potere a Kabul e Karzai si è mosso con troppa autonomia. Non devono pertanto meravigliare le accuse di corruzione rivolte alla sua cerchia, la pesantissima accusa di essere immischiato nel traffico di droga rivolta a suo fratello e le pressioni che sono state esercitate da più parti su di lui per fargli accettare il boccone amaro di un secondo turno nelle elezioni presidenziali.

Certamente gli obiettivi perseguiti da Washington sono contraddittori: da un lato gli Usa vorrebbero avere meno oneri e meno costi (umani e materiali) nella guerra afghana e per far questo vorrebbero afghanizzare il conflitto grazie ad una stabilizzazione del regime di Kabul, dall’altro lato il fine della guerra è il controllo del paese e la penetrazione in tutta la regione centrasiatica e questo esclude che a Kabul i burattini si muovano senza fili.

In molti hanno notato che non è la prima volta che gli Usa cercano di scaricare in corsa i loro uomini quando questi non rispondono più alle loro aspettative o diventano addirittura ingombranti. Lo fecero, ad esempio, con Diem a Saigon, nel pieno della guerra del Vietnam.

Forse, con crismi diversi, ci hanno riprovato in questi giorni a Kabul o forse hanno voluto semplicemente dare un avvertimento.

L’Afghanistan è un paese complesso. Se è vero che Karzai era stato imposto dagli americani otto anni or sono è anche vero che in questo lasso di tempo ha lavorato per avvicinare i vari signori della guerra che avevano cercato di contenere i talebani in tempi non sospetti, né è da dimenticare che furono questi warlords ad entrare per primi a Kabul nell’autunno 2001. Così, a dispetto del suo esordio come uomo di paglia, Karzai ha finito per diventare il punto di convergenza di quelle forze (principalmente i clan tagiki, uzbeki e hazara) che in Afghanistan si oppongono ai talebani. Ed in America si fa sempre più strada l’ipotesi di una cooptazione di gruppi talebani al governo e di una parziale talebanizzazione delle strutture di potere afghane.

Il presidente afghano si stava accorgendo che forse gli Usa cercavano di scaricarlo, dopo aver goffamente tentato di trasformarlo in una sorta di capro espiatorio locale dei loro fallimenti. Il rapporto con Karzai è arrivato a rasentare la vera e propria sfida. L’attuale presidente afghano è arrivato al punto di rispondere colpo su colpo a molte accuse lanciategli nell’ultimo mese dall’Occidente. Il ministro afghano che si occupa della lotta alla droga, gen. Khodaidad, si è incaricato di replicare alle accuse rivolte dalla stampa americana ai presunti traffici illeciti del fratello di Karzai chiamando in causa il ruolo delle truppe anglo-americane nel traffico della droga. Khodaidad (che ha studiato alle accademie militari indiane e sovietiche ed è piuttosto conosciuto negli ambienti di questi paesi) ha specificato che britannici e canadesi pongono addirittura una tassa sulla produzione di oppio nelle zone da loro presidiate[2]. Con questa mossa ha aperto il vaso di Pandora, anche se sia i russi, che i cinesi, che gli indiani sapevano già da tempo quale fosse la strategia anglo-americana in merito alla spinosa questione del narco-traffico. Le pressioni esercitate da Washington su Kabul affinché l’Afghanistan fosse meno solerte a collaborare con i paesi confinanti in materia di lotta alla droga rappresentava già un messaggio piuttosto eloquente.

Probabilmente la goccia che ha fatto traboccare il vaso della pazienza americana si è avuta quando Karzai si è spinto a chiedere lumi circa i sospetti voli di elicotteri militari britannici che stanno facendo la spola tra il sud ed il nord del paese, trasportando enigmatici personaggi barbuti[3]. Se sotto la spinta dell’esercito pakistano le bande talebane (e affiliate) si ritirano e cercano una dislocazione per compiere i loro propositi, il sospetto affacciato da alcuni osservatori è che i britannici non disprezzino affatto un loro trasferimento verso nord, verso il fiume Amu-Dariya, verso il confine con le repubbliche ex sovietiche dell’Asia centrale che in questi anni si sono riavvicinate a Mosca e verso il Turkestan orientale cinese.

L’arco della crisi aperto dall’intervento statunitense nella regione rischia di allargarsi a macchia d’olio, questa volta però gli antagonisti degli Usa potrebbero trovarsi trascinati direttamente nel conflitto con danni incalcolabili per tutta la regione[4].

Russi e cinesi guardano con preoccupazione a questi foschi scenari e tentano di concertare le loro mosse, stringendosi sempre più gli uni agli altri. Nell’ultimo mese si sono potute registrare numerose iniziative, oltre all’importantissima visita di Putin a Pechino nel corso della quale la partnership tra i due paesi ha raggiunto nuovi livelli.

E’ sfuggito a molti osservatori che l’ultima visita del premier russo in Cina non ha solamente permesso di firmare una serie di importantissimi contratti nel campo dell’energia e delle infrastrutture tra i due paesi, ma ha anche impresso un salto di qualità alla partnership tra Mosca e Pechino. Cina e Russia hanno infatti deciso di informarsi reciprocamente circa i rispettivi piani di puntamento e lancio dei loro missili balistici[5], quasi volessero prepararsi a mettere in comune le loro risorse in caso si trovassero di fronte ad un attacco immediato portato da una Grande Potenza.

Se a questo sommiamo la riconferma degli accordi nel campo della difesa tra Teheran e Mosca, la costituzione di una forza di intervento rapida della Russia e dei suoi alleati centrasiatici in ambito TSC, le iniziative diplomatiche di Pechino per favorire l’avvio di nuove relazioni tra Russia e Pakistan, le riunioni dell’OCS nelle quali il premier pakistano Gilani è apparso assi disposto ad una più incisiva partecipazione del proprio paese al gruppo di Shanghai e mettiamo in relazioni questi fatti con l’aumento sempre più impressionante delle spese belliche Usa, i test di nuove potenti armi da parte degli Stati Uniti, le minacce crescenti all’Iran ed il riattivarsi del terrorismo integralista in Asia centrale e nel Caucaso settentrionale ne esce un quadro assai teso, anche se abbastanza chiaro.

Per alleggerire la situazione al fronte e non perdere la partita dietro le quinte i vertici di potere statunitensi sono forse disponibili ad una riconciliazione con parte dei talebani, all’inserimento di alcuni di loro nelle strutture a Kabul e a consentire (se non a incoraggiare) una loro dislocazione nelle aree circostanti, al fine di destabilizzare gli antagonisti degli Usa.

Come mostrano anche i nostri media, e come hanno già registrato vari esperti internazionali, i commenti di molti esponenti integralisti che additano la necessità di una “jihad” nello Xingijan o nella valle del Fergana sono in aumento e sembrano fare da “curioso” contrappunto al coro degli strateghi di Washington.

“La priorità di Washington è che i Talebani destabilizzino l’Asia centrale, il Caucaso settentrionale, allo stesso modo della provincia cinese del Xinjiang, e che mettano a soqquadro le regioni orientali dell’Iran”[6], come ha notato l’ex diplomatico indiano M.K. Bhadrakumar.

Non pare quindi un caso che le fiamme della violenza terrorista riprendano a propagarsi in Caucaso o nel Belucistan iraniano. Probabilmente non lo è nemmeno il fatto che si registri un revival (o quanto meno un rilancio) dei rapporti tra gli Usa e l’integralismo islamico di matrice wahhabita nel momento in cui l’uomo che fu l’architetto dell’alleanza tra la Cia ed i mujahiddin afghani (Brzezinski) è tornato, seppur per interposta persona, alla Casa Bianca.

Karzai si era opposto, finché aveva potuto, ad un secondo turno elettorale. Poi si è piegato ad accettare il ballottaggio con lo sfidante Abdullah (ex ministro degli Esteri), sostenuto da molti ambienti occidentali. La sua immagine ne è uscita sfregiata ma anche l’America non ne è uscita bene. Al dramma che vive il paese si è aggiunta la farsa quando Abdullah ha annunciato che si ritirava dalla competizione, permettendo di fatto la rielezione di Karzai. Al nuovo presidente è arrivato subito il messaggio di quanti lo invitano ad “imparare la lezione”. Nel suo messaggio alla nazione Karzai ha detto di voler ricucire con i talebani. Questo messaggio era solo per loro o era anche per Mangiafuoco?

Sul futuro pesano molteplici incognite. Mentre la guerra impazza furibonda e rischia di allargarsi oltre le frontiere dell’Afghanistan per coinvolgere altre vittime, le montagne afghane assomigliano sempre di più ad infide paludi.

Spartaco Alfredo Puttini: dottore in Storia. Contributi pubblicati in Eurasia: L’immagine della Sfinge: l’Egitto nasseriano e l’opinione pubblica italiana (nr. 3/2005, pp. 115-124), Il Patto di Shanghai (nr. 3/2006, pp. 77-82), USA e Siria: storia di un antagonismo (nr. 2/2007, pp. 189-200).


[1] Circa 2500 persone sono state uccise nel corso di attentati rivendicati dai  “talebani pakistani” in tutto il paese dall’estate 2007 ad oggi, di cui circa 400 nell’ultimo mese in risposta all’offensiva dell’esercito nel Waziristan meridionale.

[2] M.K. Bhadrakumar, US goofs the Afghan election; “Asia Times Online” 3/11/2009

[3] L’armée britannique assure le transport aérien des Talibans ; www.mondialisation.ca 18 octobre 2009

[4] A. Shustov, Talibs and Central Asia; in: Strategic Culture Foundation, 30/10/2009

[5] Reuters, 13 ottobre 2009

[6] M.K. Bhadrakumar, Why the US is afraid of “Afghanization”; “Asia Times Online”, 14 settembre 2009

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Esportatori di speranza, maestri di propaganda

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Fonte: “Bye Bye Uncle Sam”
Iniziamo con un gustoso antipasto.

“Radio Free Europe/Radio Liberty da voce, come uno sfogo, a milioni di persone che altrimenti non l’avrebbero.”

“Voice of America e Radio Free Europe/Radio Liberty (…) portando informazione tempestiva, basata sui fatti, a popolazioni che altrimenti sarebbero tenute all’oscuro.”

“E mai prima nel recente passato c’è stato un momento più necessario per commercializzarla con un nuovo marchio e lasciare che il mondo sappia veramente che l’America è quella che, splendida, chiama con un cenno sulla collina.”

“Vaclav Havel ha detto che Radio Free Europe/Radio Liberty fornisce nutrimento intellettuale, ispirazione morale ed i veri semi della società civile e della crescita e sviluppo democratici.”

“[In Bielorussia] Un capo dell’opposizione ha paragonato Radio Liberty all’aria che respiriamo.”

“La nostra più grande esportazione è la speranza.”

“La storia di Radio Free Europe/Radio Liberty è un racconto sulla libertà umana, con i capitoli cruciali che non sono ancora stati scritti.”

“Le notizie possono essere buone, le notizie possono essere cattive. Noi ti diremo la verità.”

“Noi tutti siamo molto orgogliosi del nostro ruolo nel portare la luce negli angoli bui e, nel caso di Voice of America, aiutare milioni di persone a vedere l’America e gli Americani come siamo veramente.”

“L’informazione, l’ossigeno della libertà.”

Lo scorso 23 luglio, Jeffrey Gedmin e Dan Austin, rispettivamente presidente di Radio Free Europe/Radio Liberty (RFE/RL) e direttore di Voice Of America (VOA), sono stati protagonisti di un’audizione presso il Subcomitato per l’Europa della Camera dei Rappresentanti USA, i cui atti sono stati successivamente diffusi con il titolo di Radio Free Europe/Radio Liberty e Voice of America: potere morbido e la libera circolazione dell’informazione.
Durante la Seconda Guerra Mondiale, quando ancora la CNN, Fox News Channel e le altre televisioni via cavo non esistevano, furono RFE/RL e VOA ad “accendere la luce su ciò per cui l’America combatteva”. Oggi, nella loro essenza, sono “strumenti di marketing”: a prescindere dall’argomento di cui si occupano, RFE/RL e VOA “vendono e commercializzano gli Stati Uniti d’America”. “Ogni giorno esse sono sulle linee del fronte per dare forma a ciò che il mondo pensa di noi”.
In questo senso – considerato anche il calo della reputazione che gli USA godono in giro per il mondo – è fondamentale “il lavoro che [RFE/RL e VOA] stanno facendo per raggiungere quegli ascoltatori che hanno un’esposizione limitata all’esperienza americana ed ai media occidentali”.
L’importanza vitale del migliorare l’opinione mondiale circa gli Stati Uniti è dovuta al fatto che “noi siamo sicuramente i leader del mondo, ed abbiamo necessità di amici a livello governativo nei nostri sforzi in tutte queste nazioni. Questo significa invariabilmente che questi governi hanno bisogno del sostegno dei loro popoli. RFE/RL e VOA ci aiutano a costruire questo sostegno”.
Questo serrato (ed illuminante) ragionamento chiude l’introduzione fatta dall’onorevole David Scott ai due interventi dei prestigiosi ospiti di giornata.
Primo a parlare è Jeffrey Gedmin, che prima di assumere l’incarico di presidente di RFE/RL nel 2007, è stato direttore dell’Aspen Institute di Berlino, e prima ancora ricercatore presso l’American Enterprise Institute e direttore esecutivo della New Atlantic Initiative dove “egli collaborava con politici, giornalisti ed uomini d’affari per rivitalizzare ed espandere l’Atlantismo democratico”.
“Sono passati venti anni da quando un Presidente invocò un’Europa unita e libera, e siamo circa a metà strada. Forse siamo al 60%, od al 47%. C’è un immenso lavoro che deve essere fatto. Io penso che noi giochiamo un ruolo importante”. Infatti.
Attualmente RFE/RL hanno trasmissioni per 21 Paesi ed in 28 lingue, ed uffici in 19 nazioni. Le trasmissioni raggiungono Russia, Ucraina, Bielorussia, l’Asia centrale, il Caucaso, alcuni importanti Paesi dell’Europa orientale, Afghanistan, Iran ed Iraq, con il prossimo obiettivo delle aree tribali del Pakistan.
Per quanto riguarda la Russia, Gedmin sottolinea che “un’informazione indipendente ed affidabile” è assicurata da un gruppo al lavoro a Praga (dove RFE/RL ha sede) affiancato da un ufficio a Mosca e da una rete di giornalisti freelance presenti in tutte le 11 zone di fuso orario del Paese. Lamenta comunque la perdita di una ventina delle emittenti “affiliate”, la maggior parte “a causa di pressioni politiche”. Inspiegabilmente, perché – afferma Gedmin – non facciamo propaganda, né programmazione antirussa: al contrario, “I colleghi del nostro servizio russo sono patrioti”. Nella vicina Estonia, poi, l’attuale Presidente Tom Ilves è un ex giornalista della radio.
Per quanto riguarda i Balcani, il Congresso può essere certo che RFE/RL aiuterà i leader ed i cittadini di Bosnia, Croazia, Serbia, Macedonia.. a procurarsi quelle “notizie ed analisi affidabili necessarie per prendere decisioni informate circa le loro vite ed il futuro”.
Spostandosi più ad oriente, nel Caucaso ed Asia centrale, vanno stigmatizzate le “tendenze illiberali” in Russia che hanno effetto anche nei Paesi confinanti. Su RFE/RL si può comunque contare, “noi rimaniamo in corsa, anche quando gli altri perdono fiducia”.
In Afghanistan, la sezione radio locale (conosciuta come Radio Azadi, con trasmissioni nelle lingue dari e pashtun) ormai raggiunge quasi il 50% della popolazione adulta con le sue “solide analisi sulla lotta contro le risorgenti forze talebane”. In Iran, anche per colpa del governo che interferisce con il segnale radio e blocca il sito web, l’audience di RFE/RL è minore.
Le ultime parole di Gedmin sono dedicate alla nuova sede della radio, una struttura a sei piani di quasi 21.000 mq provvista di studi di registrazione multimediali ed una moderna sala stampa. “L’edificio è efficiente dal punto di vista energetico. Cosa più importante, è sicuro”.
Tanto che qualcuno l’ha paragonato ad un carcere di massima sicurezza.

Secondo testimone dell’audizione Dan Austin che, prima di diventare direttore di Voice Of America nel 2006, ha trascorso 36 anni alle dipendenze di Dow Jones & Company. Egli ha lavorato anche per il Wall Street Journal, arrivando a ricoprire le cariche di vice presidente e direttore generale. Non prima di essere stato pluridecorato veterano di guerra nell’esercito statunitense impegnato in Vietnam.
A differenza di Radio Free Europe/Radio Liberty, Voice of America diffonde le proprie trasmissioni sia per radio che per televisione ed attualmente è la più grande emittente USA a livello internazionale. Si stima che ogni settimana 134 milioni di persone nel mondo siano raggiunti dai suoi programmi, diffusi in 45 lingue diverse. 69 di questi 134 milioni sono spettatori delle trasmissioni televisive diffuse via satellite in 25 lingue.
Ovviamente, non è dato pensare che “ad ognuno di questi 134 milioni di persone piacciano l’America o le politiche americane”. In ogni caso, abbiamo “una credibilità presso le nostre audience che permette loro di farsi spazio nel chiasso di una penetrante propaganda ed attraverso la nebbia della cattiva e falsa informazione che oggi giorno caratterizza così tanti media mondiali”.
VOA può vantare 1.300 dipendenti e centinaia di corrispondenti occasionali e contrattisti in tutto il mondo, il cui lavoro costituisce la base delle sue 1.500 ore di programmazione settimanale.
In Kosovo, ad esempio, ben il 64% della popolazione adulta assiste alle trasmissioni radiotelevisive diffuse a partire dall’Albania. In Russia, causa “stretto controllo governativo”, VOA è organizzata come programma multimediale a partire dalla rete telematica, con una media di 60.000 visite mensili al proprio canale YouTube dedicato. Sono 4,75 milioni settimanalmente gli spettatori in Ucraina, mentre in Armenia ad assistere quotidianamente ai programmi tv di VOA è il 46% della popolazione adulta.
In Azerbaigian, dall’inizio del 2009 è in vigore un divieto di trasmissione che ha spinto i responsabili di VOA a diffondere i programmi radio in onde corte e quelli televisivi via satellite. Anche in Uzbekistan tira cattiva aria, tanto che la programmazione televisiva in lingua locale – l’unica prodotta da un emittente internazionale – è trasmessa da una stazione in Kirghizistan. La signora Rebiye Kadeer, leader esiliata della minoranza Uiguri in Cina, ha pubblicamente ringraziato VOA “quale fonte di informazione dalla quale tutti noi Uiguri dipendiamo”.

I bilanci annuali di RFE/RL e VOA ammontano, rispettivamente, a 90 e 201 milioni di dollari. “Noi crediamo che, dollaro per dollaro, siamo uno dei migliori investimenti che i contribuenti americani possano fare” dice Jeff Gedmin.
L’America sarà anche messianica – come sostiene, fra gli altri, Aymeric Chauprade – ma i suoi ideali coincidono con i suoi interessi.
E proprio “lì sta il motore della sua intima proiezione di potenza”.

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Tiberio Graziani parla dei rapporti tra Russia e UE

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Tiberio Graziani, direttore di “Eurasia”, è stato intervistato dal Giornale Radio Rai 3 sui rapporti tra Russia e Unione Europea. L’intervista è stata trasmessa nell’edizione delle 8.45 del 19 novembre, che può essere ascoltata cliccando qui (l’intervista a Graziani si situa dal minuto 11.56 al minuto 13.30).

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Slobodanka Ciric, Le ceneri e il sogno

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Ambasciata della Repubblica di Serbia

è lieta di invitarvi alla presentazione del libro

LE CENERI E IL SOGNO

di  Slobodanka Ciric

interverranno:

Prof. Gilberto Vlaic
Presidente dell’Associazione “Non Bombe Ma Solo Caramelle”

Gabriella Musetti
editrice, scrittrice

Esther Basile,
delegata Istituto italiano per gli Studi Filosofici di Napoli

Sergio Manes
Direttore editoriale delle edizioni “La Città del Sole”

duo “Aerae Napoli”, chitarra e voce 
Nicola Napolitano e Dante Ferri, voce recitante
Slobodanka Ciric.

martedì , 24  novembre 2009 ore 20,00

presso la Residenza dell’Ambasciatore

Via dei Monti Parioli, 22

00197 Roma

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