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Conferenza “Cuba nell’attuale contesto internazionale”

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Venerdì 6 novembre 2009 alle ore 18.00, presso la sede dell’Associazione Culturale ‘Maksim Gor’kij’ di Napoli, la Prof. ssa Alessandra Riccio, Docente dell’Università degli Studi di Napoli ‘L’Orientale’, condirettore della Rivista ‘Latinoamerica’,  terrà una conferenza sul tema:

Cuba nell’attuale contesto internazionale

Introdurrà il Sen. Luigi Marino dell’Associazione per i rapporti culturali con l’estero ‘Maksim Gor’kij’ (già Italia-URSS).

per informazioni:
Associazione Culturale ‘Maksim Gor’kij’ (già Italia-URSS)
via Nardones, 17 (immediate adiacenze di piazza Trieste e Trento)
Napoli
tel. 081 413564 www.associazionegorki.it info@associazionegorki.it


“Aquila anatolica” e richiami alla Turchia

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La Turchia non è ammessa nel club democratico europeo a guida Sarkozy/Merkel.

La bocciatura proviene dal commissario UE all’allargamento – il finlandese Olli Rehn – che ha negativamente valutato il percorso di ammissione di Ankara : “C’è ancora molto da fare – ci aspettiamo riforme democratiche” ha spiegato Rehn, che ha richiesto il miglioramento dei diritti “delle minoranze, delle donne, delle organizzazioni sindacali, della libertà di stampa e di espressione”.

L’elenco delle mancanze rilevate è corposo e non può non suscitare perplessità: viene curiosamente contestata, ad esempio, la forte multa sanzionata al colosso mediatico ed energetico Doğan (1) per comprovate irregolarità fiscali, assumendo che ciò violerebbe la libertà di stampa;  vengono anche citate alcune cause giudiziarie in corso riguardanti Google, Facebook e altri siti, nonché la chiusura di You Tube. Si accenna poi a “matrimoni forzati”, a “violenze domestiche” e naturalmente alla situazione di Cipro (2).

Si riconoscono come positivi gli “abboccamenti” con i curdi e con gli armeni e la firma per il progettato gasdotto Nabucco: ma, nel quadro generale, tali aspetti non sono considerati  sufficienti.

Come si è più volte sottolineato, possiamo meglio comprendere l’ostilità “europea” alla Turchia (3) alla luce di una certa indipendenza e sovranità faticosamente riconquistata da Ankara, membro della NATO ma spregiudicato attore sulla scena internazionale.

L’ultimo esempio, destinato sicuramente a dispiacere agli assertori delle “riforme democratiche” mai sufficienti, è dato dalla decisione turca di escludere la partecipazione di Israele ad “Aquila anatolica”, l’esercitazione aeronautica militare che si tiene nella piana di Konya dal 12 al 23 ottobre.

Tale esclusione viene ufficialmente riferita dal vicepremier turco Cemil Čiçek alla mancata consegna da parte di Israele di alcuni Heron, velivoli di ricognizione telecomandati che non necessitano di pilota e che Ankara intende utilizzare per sorvegliare i movimenti dei terroristi del PKK; essa rimarca comunque una situazione di difficoltà generale dei rapporti turco-israeliani, evidenziata a settembre dalla cancellazione della visita in Israele del ministro degli esteri Davutoğlu – cancellazione conseguente al rifiuto israeliano di concedergli il permesso di recarsi a Gaza – e dalla recentissima (13 ottobre)  riunione  del Consiglio di  alta cooperazione strategica turco-siriana tenutasi ad Aleppo: l’annuncio di prossime esercitazioni congiunte tra Ankara e Damasco non può che rafforzare la diffidenza israeliana e, come accennavamo, di quella degli occidentalisti a oltranza della UE.

(1)   Sono di proprietà del gruppo, fra l’altro, i quotidiani Hürriyet, Milliyet, Radikal, Posta, Referans, Fanatik (giornale sportivo), Turkish Daily News; una serie innumerevole di televisioni (Kanal D, CNN Türk, Star TV, ecc.) e radio; la Petrol Ofisi, l’Erk Petrol, la Petrol Ofisi Oil Financing, l’Electricity Distribution and Production Investments; importanti imprese nel settore industriale e turistico.

(2)   E’ il caso si ricordare, a dimostrazione di un parziale disgelo delle relazioni greco-turche ( di cui la commissione UE non tiene evidentemente conto), la visita del primo ministro Papandreu  in Turchia – la sua prima uscita internazionale dopo la vittoria elettorale – accompagnata dall’annullamento della manovra militare Nikiforos nella Cipro ellenica.

(3)    Nello stesso  rapporto ufficiale si dà invece il via libera all’ingresso –  previsto per il 2012 – della Croazia nella UE.

Dietro al Nobel per la Pace 2009

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Fonte: http://www.voltairenet.org/article162487.html 13 ottobre 20

Questa mattina, ascoltando le notizie, mia figlia è venuta e mi ha detto: “Papà, sei Nobel per la pace“[1]. Questa è la commovente storiella che il Presidente degli Stati Uniti ha raccontato ai giornalisti compiacenti, per dimostrare che non aveva mai desiderato questa premiazione e che è stato il primo a sorprendersi. Senza cercare più lontano, questi ultimi hanno immediatamente intitolato il loro giornali sull’”umiltà” dell’uomo più potente del mondo.

In effetti, nessuno sa cosa sorprenderà di più: l’attribuzione di un tale premio prestigioso a Barack Obama, la messa in scena grottesca che lo accompagna, o il metodo utilizzato per corrompere la giuria e dirottarne i soldi dallo scopo originale.

In primo luogo, ricordare che, secondo le regole del Comitato per il Nobel, le candidature sono presentate da parte delle istituzioni (parlamenti nazionali e accademie politiche) e da persone qualificate, soprattutto giudici e precedenti premiati. In teoria, una candidatura può essere fatta senza che al candidato sia stata notificata. Tuttavia, quando la giuria emette la sua decisione, si stabilisce un legame diretto con il premiato, per assicurare che sia informato un’ora prima dell’inizio della conferenza stampa. Per la prima volta nella sua storia, il Comitato del Nobel non ha fatto questa cortesia. Essa, ci assicura il suo portavoce, non osava svegliare il Presidente degli Stati Uniti in piena notte. Forse ignorava che i consiglieri si alternano alla Casa Bianca, per ricevere chiamate d’emergenza e svegliare il presidente, se necessario. Inoltre, il comitato del Nobel ha almeno informato il giornalista Gerhard Helsok, che alla vigilia aveva annunciato la notizia sul canale norvegese TV2.

La graziosa oleografia della bambina che annuncia il Premio Nobel al suo papà, non basta a placare il disagio causato da questa premiazione. Secondo la volontà di Alfred Nobel, il premio riconosce “la persona che [durante l’anno precedente] abbia più o meglio lavorato per la fraternità tra le nazioni, l’abolizione o la riduzione degli eserciti permanenti, e per l’incontro e la diffusione del progresso per la pace“. Nello spirito del fondatore, si tratta di sostegno all’azione militante e di non rilasciare un certificato di buone intenzioni a un capo di stato. I vincitori hanno, a volte, violato il diritto internazionale, dopo il ricevimento del loro premio, il Comitato del Nobel ha deciso, quattro anni fa, di premiare non un atto particolare, ma le persone che hanno con onore dedicato la loro vita alla pace. Così, Barack Obama sarebbe stato più meritevole degli attivisti per la pace nel 2008, e non avrebbe commesso alcuna grave violazione del diritto internazionale nel 2009. Per non parlare di quelle persone ancora detenute a Guantanamo e a Bagram, né degli afgani e degli iracheni che affrontano un’occupazione straniera, e che pensare degli honduregni schiacciati da una dittatura militare o dei pakistani, il cui paese è diventato il nuovo obiettivo dell’Impero?

Torniamo al fatto, a ciò che il “comunicato” della Casa Bianca e i media anglo-sassoni vogliono nascondere al pubblico: il rapporto sordido tra Barack Obama e il Comitato del Nobel.

Nel 2006, il Comando europeo (vale a dire, il comando regionale delle truppe statunitensi, la cui autorità riguardato sia l’Europa che gran parte dell’Africa) ha sollecitato il senatore d’origine keniota, Barack Obama, a partecipare ad una operazione segreta inter-agenzie (USAID-CIA-NED-NOS). Si trattava di usare il suo status di parlamentare per condurre un tour in Africa, per consentire sia la difesa degli interessi delle aziende farmaceutiche (per affrontare le produzioni senza licenza) e sia per respingere l’influenza cinese in Kenya e Sudan [2]. Solo gli eventi nel Kenya, qui ci interessano.
La destabilizzazione del Kenya

Barack Obama e la sua famiglia, accompagnati da un addetto stampa (Robert Gibbs) e da un consigliere politico-militare (Mark Lippert), arrivarono a Nairobi su un aereo speciale noleggiato dal Congresso. Il loro aereo era seguito da un secondo velivolo, questa volta noleggiato dall’esercito degli USA, che trasportava un team di specialisti in guerra psicologica, presumibilmente guidato dal generale in pensione J. Scott Gration.

Il Kenya, allora, era in pieno boom economico. Fin dall’inizio della presidenza di Mwai Kibaki, la crescita era passata dal 3,9 al 7,1% del PIL e la povertà era scesa dal 56 al 46%. Questi eccezionali risultati erano stati ottenuti riducendo i legami economici con le potenze post-coloniali anglo-sassoni, sostituiti da accordi più equi con la Cina. Per rompere il miracolo Kenyano, Washington e Londra decisero di rovesciare il presidente Kibaki e d’imporre l’opportunista fidato Raila Odinga [3]. In questa prospettiva, la National Endowment for Democracy creò un nuovo partito politico, il Movimento Arancione, e architettò  una rivoluzione “colorata” per le successive elezioni parlamentari del dicembre 2007.

Il senatore Barack Obama fece la campagna elettorale per suo “cugino”, Raila Odinga.

Il senatore Obama è stato accolto come un figlio di questa terra e il suo viaggio fu iper-pubblicizzato. Interferiva nella politica locale e partecipava alle riunioni di Raila Odinga. Obama chiamava alla “rivoluzione democratica“, mentre il suo “compagno“, il Generale Gration, dava a Odinga un milione di dollari in contanti. Queste azioni destabilizzarono il Paese e sollevò proteste ufficiali di Nairobi presso  Washington.

A seguito di questo tour, Obama e il Gen. Gration presentarono una relazione al Generale James Jones (allora capo del Comando europeo e comandante supremo della NATO) a Stoccarda, prima di tornare negli Stati Uniti.

L’operazione continuò. Madeleine Albright, in qualità di Presidente del NDI (il ramo del National Endowmement for Democracy [4], specializzato nel trattamento dei partiti di sinistra), fece un viaggio a Nairobi, dove si occupò dell’organizzazione del Movimento Arancione. Poi John McCain, in qualità di presidente della IRI (la filiale della National Endowmement for Democracy specializzata nel trattamento dei partiti di destra) completò la coalizione dell’opposizione, trattando con piccoli partiti di destra [5].

Nelle elezioni parlamentari del dicembre 2007, uno studio finanziato dall’USAID annunciò la vittoria di Odinga. Il giorno delle elezioni, John McCain disse che il presidente Kibaki aveva truccato le elezioni a favore del suo partito e che, in realtà, l’opposizione guidata da Odinga aveva vinto. La NSA, in collaborazione con gli operatori della telefonia locale, indirizzò degli SMS anonimi alla popolazione. Nelle aree popolate dai Luo (gruppo etnico di Odinga), dissere “Cari keniani, i kikuyu hanno rubato il futuro dei nostri figli … Dobbiamo trattarli nell’unico modo che comprendono… la violenza“. Mentre nelle aree popolate dai kikuyu, scrissero: “Il sangue di nessun Kikuyu innocente verrà versato. Li massacreremo fin nel cuore della capitale. Per la giustizia, creato un elenco di Luo che conoscete. Vi invieremo i numeri di telefono durante la trasmissione di tali informazioni.” In pochi giorni, questo tranquillo paese sprofondò nella violenza settaria. I disordini provocarono oltre 1000 morti e 300000 sfollati. 500000 posti di lavoro furono persi.

Madeleine Albright, di ritorno, si offrì di mediare tra il Presidente Kibaki e l’opposizione che cercava di rovesciarlo. Con finezza, lei si allontanò e mise avanti il Centro di Oslo per la pace e i diritti umani (Oslo Center for Peace and Human Rights). Il consiglio di amministrazione di questa rispettata ONG era ora presieduta dall’ex primo ministro della Norvegia, Thorbjørn Jagland. Rompendo con la tradizione di imparzialità del Centro, inviò due mediatori sul posto, tutte le spese furono a carico del NDI di Madeleine Albright (vale a dire in ultima analisi, del bilancio del Dipartimento di Stato USA): un altro ex primo ministro norvegese, Kjell Magne Bondevik, e l’ex segretario generale, Kofi Annan (il ghanese è assai presente negli Stati scandinavi, da quando ha sposato la nipote di Raoul Wallenberg).

Obbligato, per ripristinare la pace civile, ad accettare i compromessi che gli imposero, il presidente Kibaki s’impegnò a creare la carica di primo ministro e di affidarla a Raila Odinga. Questi cominciò subito a ridurre gli scambi commerciali con la Cina.
Piccoli doni tra amici

Se l’operazione del Kenya si ferma lì, la vita dei protagonisti continua. Thorbjørn Jagland negoziò un accordo tra la National Endowment for Democracy e il Centro di Oslo, che fu formalizzato nel settembre 2008. Una fondazione collegata fu creata ad Minneapolis, permettendo alla CIA di sovvenzionare indirettamente l’ONG norvegese. Essa agisce per conto di Washington in Marocco e, in particolare, in Somalia [6].

Obama fu eletto presidente degli Stati Uniti. Odinga dichiarò alcuni giorni di festa nazionale in Kenya, per festeggiare il risultato delle elezioni negli Stati Uniti. Il generale Jones divenne consigliere per la sicurezza nazionale. Assunse Mark Lippert come Capo di gabinetto e, come suo  Vice, il Generale Gration.

Durante la transizione presidenziale negli Stati Uniti, il presidente del Centro di Oslo, Thorbjørn Jagland, fu eletto presidente del comitato Nobel, nonostante il rischio che un tale politico astuto rappresenta per l’istituzione [7]. La candidatura di Barack Obama al Nobel per la pace fu presentata entro, e non oltre, il 31 gennaio 2009 (termine regolamentare [8]), dodici giorni dopo il suo insediamento alla Casa Bianca. Vivaci dibattiti animarono la commissione, che, ai primi di settembre, non giunse ad accordarsi su un nome, come previsto dal calendario regolare [9]. Il 29 settembre, Thorbjørn Jagland fu eletto Segretario Generale del Consiglio d’Europa, a seguito di un accordo dietro le quinte tra Washington e Mosca [10]. Questo buon metodo ne chiedeva un altro in cambio. Sebbene l’adesione al Comitato per il Nobel sia incompatibile con un esecutivo politico importante, Jagland non si dimise. Egli sostiene che lo spirito del regolamento vieta l’accumulo con un incarico ministeriale, e non dice nulla del Consiglio d’Europa. Rientrò quindi a Oslo, il 2 ottobre. Lo stesso giorno, il comitato nominò il Presidente Obama, Premio per la Pace 2009.

Nella sua dichiarazione ufficiale, il comitato ha detto, senza ridere: “E’ assai raro che una persona come Obama sia riuscita a catturare l’attenzione di tutti e a dar loro la speranza per un mondo migliore. La sua diplomazia si basa sul concetto che chi guida il mondo deve farlo su una piattaforma di valori e atteggiamenti condivisi dalla maggior parte degli abitanti del pianeta. Per 108 anni, il Comitato del Nobel ha cercato di stimolare questo tipo di politica internazionale e quei passi di cui Obama è il principale portavoce” [11].

Da parte sua, il fortunato vincitore ha detto: “Apprendo la decisione del comitato Nobel con sorpresa e profonda umiltà (…) voglio accettare questo premio come un invito all’azione, un invito a tutti i paesi perché prendano posizione di fronte alle sfide comuni del XXI secolo“. Quindi questo uomo “umile” ritiene di incarnare “tutti i paesi“. Cosa che non fa presagire nulla di pacifico.

*Thierry Meyssan

Analista politico francese, fondatore e presidente del Réseau Voltaire e della conferenza Axis for Peace. Pubblica recensioni settimanali sulla politica estera nella stampa araba e russa. Ultimo libro pubblicato: L’Effroyable imposture 2, ed. JP Bertand (2007).

Note

[1] «Déclaration de Barack Obama à l’annonce du prix Nobel de la paix 2009», Réseau Voltaire, 9 octobre 2009.

[2] Per i dettagli di questa operazione, vedere ‘Le Rapport Obama’, di Thierry Meyssan, di prossima pubblicazione.

[3] Raila Odinga è figlio di Jaramogi Oginga Odinga, che ebbe come principale consigliere per la politica, il padre di Barack Obama.

[4] «La NED, nébuleuse de l’ingérence “démocratique”», Thierry Meyssan, Réseau Voltaire, 22 janvier 2004.

[5] In precedenza gli Stati Uniti avevano creato un loro partito in Kenya, guidato da Tom Mboya. Si trattava, in quel momento, di lottare contro l’influenza russa e, di già, cinese.

[6] Il Centro di Oslo ha anche partecipato alla destabilizzazione dell’Iran, durante le elezioni presidenziali, canalizzando i fondi per l’ex presidente Khatami.

[7] Vicepresidente dell’Internazionale socialista, Thorbjørn Jagland è un forte sostenitore della NATO e dell’ingresso della Norvegia nella Unione europea. Frequenta l’elite global e ha partecipato ai lavori del Council on Foreign Relations, della Commissione Trilaterale e del Bilderberg Group. Il suo bilancio  politico è stato segnato da diversi scandali di corruzione che coinvolgono la sua famiglia, compreso il suo amico e ministro per la Pianificazione, Terje Roed Larsen (il coordinatore attuale dei negoziati delle Nazioni Unite in Medio Oriente).

[8] 205 domande sono state depositate. Ma solo in conformità con il regolamento, 199 sono state ritenute ammissibili. Raggiunta questa cifra, il Comitato del Nobel non ha avuto la possibilità di aggiungere dei nomi supplementari nelle sue deliberazioni.

[9] Il premio doveva essere aggiudicato il 9 ottobre. Per motivi organizzativi, il vincitore dovrebbe essere trovato entro il 15 settembre.

[10] Anche se gli Stati Uniti non sono membri del Consiglio d’Europa, hanno una grande influenza. Mosca non tifava per Jagland, ma l’ha voluto per contrastare il polacco Cimoszewicz.

[11] «Communiqué du Comité Nobel norvégien sur le prix de la Paix 2009», Réseau Voltaire, 9 octobre 2009.

(nella foto, Madeleine Albright e Thorbjørn Jagland, nel corso di una riunione al quartier generale della NATO)

Traduzione di Alessandro Lattanzio
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Lotta contro la frode fiscale o dominio statunitense sul sistema finanziario ?

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Nel luglio 2003, il Consiglio dei ministri delle Finanze europei (ECOFIN) approva il contenuto di una Direttiva [1] che prevede, dal 1° gennaio 2005, l’applicazione, per 12 Stati membri, dello scambio automatico di informazioni. L’Austria, il Belgio ed il Lussemburgo hanno optato per una ritenuta alla fonte.

Alcuni paesi terzi, la Svizzera, il Liechtenstein, Monaco, Andorra e San Marino adottano allora misure « equivalenti », al pari dei Territori dipendenti ed associati di certi Stati membri, come le Isole anglo-normanne e le Isole Caiman. Per questi ultimi, siamo già nell’eccezione perché, contrariamente alla volontà iniziale dell’UE, non è più questione di applicare misure « identiche », ma solo « equivalenti ». Questi territori dipendenti dalla Corona britannica sono così posti sullo stesso piano di paesi esterni all’Unione.

Allo scopo di mettere fine a tale regime provvisorio, la Commissione presenta, il 3 febbraio 2009, due nuove proposte di direttive che devono migliorare la reciproca assistenza tra le autorità fiscali degli Stati membri. Questi progetti mirano ad impedire a tali paesi di invocare il segreto bancario per rifiutare le richieste di cooperazione in materia fiscale. I paesi che applicano le ritenute alla fonte, soprattutto il Lussemburgo e l’Austria, non nascondono le loro riserve.

Le cose saranno ben presto regolate, non in seno all’Unione Europea, ma in seguito all’intervento degli Stati Uniti, attraverso il vertice del G 20 del 1°  e 2 aprile 2009.

L’Unione Europea : un’entità fantomatica.

La crisi economica obbliga i governi a cercare nuove entrate in denaro al fine di compensare parzialmente i trasferimenti di bilancio verso il settore finanziario. È in questo contesto formale che si inscrive la lotta contro la frode fiscale lanciata dagli Stati Uniti, offensiva in cui gli USA trovano degli alleati in seno all’Unione Europea, non solo nel loro referente privilegiato, la Gran Bretagna, ma anche nella Germania e nella Francia. Questo, tuttavia, è solo un elemento parziale dell’affaire. Innanzitutto, ci interessa mettere in luce l’incapacità dell’Unione Europea di poter dare vita ad una politica comune in materia fiscale. Mentre la questione della regolamentazione degli scambi di informazioni  in materia fiscale tra gli Stati membri avrebbe dovuto essere sistemata al suo interno, gli scambi ottenuti sono il risultato della politica degli Stati Uniti. L’organismo scelto è il G 20 e l’infrastruttura utilizzata quella dell’OCSE. Così vengono strumentalizzati un gruppo di circostanza la cui unica legittimità è la necessità di far fronte ad una situazione d’urgenza ed un’organizzazione internazionale il cui oggetto è la promozione dell’economia di mercato.

Il G 20, al quale l’Uni8one Europea abbandona le sue prerogative, è la forma di organizzazione attualmente privilegiata nell’odierna gestione dei problemi internazionali. I G 7, G 8, e …G 20 instaurano nuove forme d’intervento attraverso le quali si esercita prioritariamente il comando politico. Si tratta di azioni puntuali, messe in atto dalla potenza dominante. Questi vertici non hanno altra legittimità che la necessità proclamata di far fronte ad uno stato di urgenza. Il numero e la qualità dei partecipanti sono strettamente determinati dai rapporti di forza del momento e dall’ampiezza del riconoscimento cercata.

Quanto all’OCSE e al FMI, il principale beneficiario istituzionale di quel G 20, essi esercitano quella che viene chiamata la « governance » del mercato mondiale. Sono istituzioni permanenti il cui oggetto consiste nel gestire gli abbandoni di sovranità degli Stati nazionali a vantaggio del mercato mondiale.

Questi due tipi di organizzazioni rappresentano le due strutture della nuova forma di Stato transnazionale sotto egemonia statunitense : da una parte, l’asse verticale che impone la decisione politica e, dall’altra, l’asse orizzontale composto da organizzazioni internazionali che gestiscono il nuovo rapporto di forze così creato.

La frode fiscale come legittimazione dell’azione statunitense.

La « lotta contro la frode fiscale » non è appannaggio dell’Unione Europea. Quest’ultima si inserisce in un vasto movimento iniziato dagli Stati Uniti. Tuttavia, l’obiettivo dell’amministrazione americana è di assicurare un trasferimento della gestione dei capitali «offshore» verso le piazze finanziarie che essa controlla strettamente. Da questo punto di vista, i risultati dell’ultimo G 20 sono del tutto esemplari.

Il G 20 del 1° aprile  2009 ha presentato un programma da 1.100 miliardi di dollari destinato a sostenere il credito. L’essenziale è consistito nell’aumento dei mezzi del FMI. Tuttavia, non è stato annunciato alcun piano di rilancio globale coordinato. Come nel complesso delle politiche economiche nazionali, l’obiettivo non è quello di avviare un rilancio della macchina economica attraverso un aumento della domanda delle famiglie, ma di promuovere una ridistribuzione delle entrate delle famiglie verso le imprese  e, all’interno delle prime, verso i redditi più alti. Tale processo si accompagna ad un’accresciuta gerarchizzazione del sistema finanziario internazionale. Certe piazze bancarie non sono più autorizzate a gestire il risultato della frode fiscale e ciò a vantaggio di alcune loro concorrenti.

Questa ristrutturazione della finanza mondiale ha anche un aspetto monetario : quello del mantenimento del dollaro come moneta strutturante degli scambi internazionali. Constatando gli abissali deficit della bilancia commerciale e del bilancio dello Stato statunitensi, numerosi economisti annunciano una prossima fine della dominazione del dollaro come moneta internazionale. Tuttavia,  le cose si rivelano più complesse. La moneta non è solo un’unità di conto ed uno strumento di riserva; è anche un mezzo d’azione, un contrassegno della potenza politica. Essa è costitutiva della forma dello Stato. Il dollaro non è solo la moneta dello Stato nazionale statunitense, ma anche della sua funzione imperiale.

Indebolito a livello strettamente economico, il dollaro dispone della forza politica dello Stato americano per tentare di mantenere le sue prerogative mondiali. È in questo quadro di mantenimento dell’egemonia della moneta americana obbligando i capitali a collocarsi nella sua zona economica, che va letta l’attuale operazione di ristrutturazione del sistema finanziario internazionale, di cui l’attacco contro la banca svizzera UBS nonché il G 20 di aprile 2009 sono alcune delle maggiori operazioni.

Un rivelatore dei rapporti di forza mondiali

Quel summit si è rivelato uno strumento del predominio anglosassone sulla finanza internazionale. L’essenziale dei lavori si è imperniato sulla « lotta contro i paradisi fiscali ».  L’azione si è strutturata a partire da tre liste stabilite dall’OCSE. La prima, la lista nera, non comprendeva che quattro Stati, tra cui il Costa Rica e l’Uruguay, paesi che non hanno alcun rapporto di forze a livello internazionale. In seguito ad impegni « a procedere a scambi di informazioni fiscali in funzione della normativa OCSE [2]», essi sono stati depennati da questa lista, che resta così vuota. La seconda, la lista grigia, comprendeva i paesi « che devono fare degli sforzi in materia di cooperazione fiscale » : la Svizzera e il Lussemburgo, ma anche il Belgio e l’Austria. La terza, la lista bianca, quella dei paesi cooperanti comprende il Regno Unito che, con la City, possiede uno dei principali centri offshore del mondo, nonché quattro dei suoi « territori dipendenti »: Jersey, Guernesey, l’Isola di Man e le isole Vergini. Ne fanno, evidentemente, parte gli Stati Uniti e questo senza alcuna nota che sottolineai le pratiche poco trasparenti di Stati come Delaware o lWyoming [3].

Così, i risultati del G 20 traducono fedelmente i nuovi rapporti di forza a livello internazionale. Gli Stati Uniti hanno svelato il loro potere di riorganizzare a loro vantaggio il sistema finanziario. L’Unione Europea ha mostrato il suo affrettarsi a sostenere gli interessi anglosassoni, mentre la Cina è arrivata a conservare i suoi paradisi fiscali, Macao, Hong Kong e Singapore. Quanto ad Israele, esso conferma il suo statuto di pura anomia, di territorio posto al di fuori del diritto  e degli accordi internazionali poiché, sebbene generalmente considerato un paese riciclatore di denaro sporco, non compare su alcuna lista, né sulla nera, né sulla grigia, né sulla bianca.

Nel corso dei negoziati a livello del G 20, la Commissione dell’Unione Europea era rimasta screditata ed ambigua circa la composizione delle diverse liste. Una volta stabilite, ha direttamente manifestato la sua premura a farle rispettare dai diversi Stati membri, nonché dai suoi diversi partner economici [4] . Ha espresso la sua volontà di lavorare congiuntamente con l’OCSE al fine di garantire un seguito agli avvertimenti lanciati dal G20. Questo modo di procedere dell’Unione Europea è sintomatico del suo posizionamento nella struttura delle organizzazioni internazionali non come parte integrante della presa di decisione politica, ma come semplice strumento della sua applicazione.

I « trust ».

L’offensiva si è concentrata sul segreto bancario, presentato come il mezzo privilegiato dell’evasione fiscale. Nella loro dichiarazione finale, i paesi del G20 hanno inoltre affermato che « l’era del segreto bancario è terminata ».

Tuttavia, attualmente la metà del mercato offshore si concentra nei trust, creazioni giuridiche anglosassoni, che non necessitano di segreto bancario per potersi mettere al riparo dal fisco. Così, l’evasione fiscale si è progressivamente spostata verso queste strutture legali. Non è più un mercato della discrezione bancaria, ma quello delle tecniche giuridiche d’ingegneria fiscale. I trust sono divenuti il principale strumento della sottrazione fiscale, il più efficace sostituto del segreto bancario.

Il trust è un veicolo di diritto anglosassone che permette ad una persona di privarsi della sua fortuna, al fine di non apparirne il proprietario agli occhi del fisco. Se è  «discrezionale ed irrevocabile» [5], la banca che apre il conto può non esigere l’identità del beneficiario. Una persona che ha costituito un tale  trust all’estero non è minimamente tassata, perché non è più considerata proprietaria dei suoi beni.

Le isole di Jersey e Guernesey, entrambe territori britannici, sono delle giurisdizioni specializzate nella costituzione dei trust. È anche il caso del Delaware e dei Caraibi, che servono da rifugio al denaro « grigio » proveniente dagli Stati Uniti, nonché di Miami, che accoglie, negli USA, i capitali latino-americani che vogliono sfuggire al fisco del loro paese. Singapore, che tratta fortune asiatiche od europee, ha la stessa funzione [6].

Anche le grandi banche svizzere si sono lanciate nel mercato dei trust. Esse esigono poche informazioni sugli aventi diritto economici di trust « discrezionali ed irrevocabili », ma conservano l’identità di chi li costituisce. Le banche anglosassoni praticano un’usanza con pretese ancora minori, mantenendo solo informazioni sul contraente, il « trustee », la società di gestione e di amministrazione del trust. Il che, di fatto,  permette loro di ottenere una completa opacità della persona che desidera sfuggire al fisco. Così, esse arrivano ad una confidenzialità ancora maggiore pur senza segreto bancario nel senso formale del termine: anche se nel corso di una determinata indagine le legislazioni obbligano queste piazza finanziarie a consegnare le informazioni sui loro clienti,  esse non possono fornire dati di cui non dispongono.

Così, le giurisdizioni anglosassoni dispongono di un vantaggio sostanziale sulla Svizzera in caso di sparizione del segreto bancario : l’opacità dei loro trust è più completa.

Il fatto che, su 31 paradisi fiscali censiti dall’OCSE, 9 siano territori britannici e 14 ex colonie della Corona [7] e che tali centri offshore siano le sedi principali  di questi trust, dimostra che la lotta contro la frode fiscale lanciata da Gordon Brown, non può essere l’obiettivo reale di quel vertice. Le cose hanno cominciato a delinearsi quando la Svizzera, una delle principali piazze finanziarie mondiali, è apparsa il bersaglio principale di quel G20. Di fatto, si tratta di un tentativo di riorganizzazione del sistema finanziario internazionale a sue spese. Le cose sono già apparse chiare con il caso UBS. L’azione dell’amministrazione statunitense contro questa banca elvetica è consistita nell’utilizzo di un’operazione contro l’evasione fiscale dei suoi cittadini al fine di modificare, a suo vantaggio, le regole di funzionamento del sistema bancario mondiale.

Offensiva contro la piazza bancaria svizzera.

Ricordiamo che il 18 febbraio 2009, la banca UBS aveva dapprima accettato, in spregio al diritto elvetico, di consegnare alla giustizia americana il nome di circa 250 clienti che aveva aiutato a sfuggire al fisco statunitense [8]. Questa lista l’amministrazione USA avrebbe potuto ottenerla rispettando la procedura giudiziaria elvetica e l’accordo di mutua assistenza amministrativa firmato in precedenza tra Svizzera e Stati Uniti.

La Finma, l’autorità elvetica di sorveglianza delle banche, ha immediatamente coperto tale procedura. Si trattava di bypassare la normale via giudiziaria e di consegnare, senza attendere, i nomi dei clienti. Si trattava di evitare una causa penale del Dipartimento della Giustizia americano tenendo conto che, in passato, praticamente nessuna impresa è sopravvissuta ad una tale azione.

Tuttavia, malgrado quella consegna, la giustizia statunitense è ritornata alla carica. Successivamente, ha preteso che UBS fornisse al fisco l’identità di circa 52 000 clienti americani titolari di “conti segreti illegali”. Tali pretese si fondano su una causa, depositata dall’amministrazione USA, davanti al tribunale civile di Miami.

L’avvocato d’affari di Washington, George Clarke, pensa che « questa lista di clienti  era senza dubbio già conosciuta dal fisco americano ». Si può supporre che gli USA si facciano consegnare una lista di nomi che già hanno. L’obiettivo è meno la messa in atto di procedimenti fiscali che obbligare la banca UBS e le autorità di regolazione svizzere a violare la propria legalità. Abbiamo, così, un vero atto di sovranità internazionale, nella misura in cui l’amministrazione americana ha la capacità di imporre una decisione che viola il quadro legale in cui essa s’inserisce.

UBS : cavallo di Troia del fisco USA.

Il 19 agosto 2009, UBS ed il fisco americano firmano un accordo che mette momentaneamente fine al caso di frode fiscale che le opponeva. Esso permette alla banca di sfuggire ad un processo. Tuttavia, UBS deve dare i nomi di circa 4.450 titolari di conti di contribuenti americani sospettati di frode fiscale. Tali dati saranno trasmessi attraverso la via ufficiale della reciproca collaborazione amministrativa. Le autorità elvetiche legalizzano  così il nuovo rapporto di forze ed il fisco americano ottiene il loro avallo al fine di indagare su altre banche svizzere. La soppressione della distinzione frode-evasione fiscale operata dalla Confederazione per uscire dalla lista grigia dei paradisi fiscali stabilita dall’OCSE, offre nuove prospettive alle richieste delle amministrazioni fiscali  straniere. Le autorità svizzere cercano innanzitutto di impedire le « pesche con la rete », cioè l’ottenimento d’informazioni sulla base di semplici sospetti e non in funzione di precise informazioni, ad esempio i nomi dei frodatori, le società implicate, numeri di conti…Tuttavia, a questo livello niente è stabilito definitivamente. Come dall’inizio di questo affaire, tutto si giocherà in termini di rapporti di forze.

Di fatto, questo nuovo accordo tra UBS e l’amministrazione americana servirà da termine di paragone per definire la dimensione delle maglie della rete con cui il fisco americano partirà alla pesca dei frodatori e questo nel complesso della piazza finanziaria elvetica e, in seguito, nei paesi terzi.

L’accordo del febbraio 2009, con il quale la banca UBS aveva inizialmente accettato, in spregio del diritto elvetico, di fornire alla giustizia americana il nome di circa 250 clienti che aiutati a sfuggire al fisco USA, non aveva fermato la giustizia americana. Appena firmato, quest’ultima aveva preteso che UBS le consegnasse le identità di circa 52 000 clienti americani titolari di conti segreti “illegali”. Il nuovo accordo sospende tali pretese. Ad un primo, attento sguardo. esso è particolarmente favorevole alla banca svizzera.

UBS, che in febbraio aveva già adempiuto al pagamento di un ammenda di 780 milioni di dollari, non dovrà pagare penalità supplementari [9]. Nella pratica abituale del fisco americano, questa è un’eccezione. E, cosa ancor più sorprendente, viene stipulato che, se dopo un anno la banca non ha rispettato i suoi impegni, nessuna sanzione finanziaria potrà essere presa contro di essa. Non si può capire tale atteggiamento dell’amministrazione USA senza ipotizzare che il fisco statunitense non voglia creare difficoltà finanziarie alla banca. In effetti, esso non ha interesse ad uccidere un cavallo di Troia che, finora, lo ha servito così bene e, soprattutto, può ancora essergli utilissimo. UBS dipende molto dal mercato americano e così è particolarmente vulnerabile alle pressioni del fisco USA. Per le altre banche elvetiche, tale problema è minore. Lo svolgimento di questo affaire ci fa capire che dobbiamo aspettarci nuovi attacchi statunitensi contro la piazza finanziaria svizzera.

Stato di eccezione permanente e creazione di un nuovo ordine di diritto.

La risposta positive di UBS alle informazioni del fisco USA, nonché la legittimazione di questa rimessa di informazioni da parte delle autorità di controllo elvetiche, collocano l’amministrazione americana in una posizione che le permette di formulare costantemente nuove pretese. La sovranità americana si definisce non solo come capacità di porre l’eccezione e di stabilire uno stato d’eccezione permanente ponendo sempre nuove richieste ma, soprattutto, nel farne la base su cui ricostruirsi un nuovo ordine giuridico internazionale.

La creazione di un puro rapporto di forze non è che una prima forma d’azione. In un primo tempo, l’essenziale per le autorità americane è farsi consegnare le informazioni in violazione delle procedure svizzere [10]. Le autorità americane hanno poi la capacità di far legittimare da tutte le parti i nuovi diritti che esse si sono accordate. Si tratta così di far abbandonare a quello Stato le sue prerogative sovrane al fine di trasferirle all’amministrazione statunitense.

Questo modo di procedere ricorda la maniera in cui gli Stati Uniti hanno ottenuto dalle autorità europee il trasferimento dei dati PNR dei passeggeri aerei [11] e, nel caso Swift, alcune informazioni finanziarie sugli abitanti dell’Unione. Dapprima avevano imposto, in violazione del diritto europeo, un puro atto di forza, di cattura delle informazioni personali. Quest’azione è stata poi legittimata dagli accordi firmati con il Consiglio dell’Unione Europea.

Il fatto che l’amministrazione americana disponga, attraverso il server della società Swift situato sul suolo degli Stati Uniti, dell’insieme delle informazioni relative alle transazioni finanziarie internazionali [12], permette di supporre che essa in parte già abbia le coordinate, reclamate ad USB, dei 52.000 frodatori del fisco americano. Ricordiamo inoltre che le autorità statunitensi dispongono, grazie a Remotegate, di un ingresso speciale che permette loro di sorvegliare gli scambi interbancari interni alla Svizzera [13].

Il sistema di crittazione utilizzato dalla banca non potrà più resistere alle investigazioni della NSA, l’agenzia di spionaggio statunitense particolarmente specializzata in questa materia.

Un dominio sul sistema finanziario .

Questa nuova sovranità americana s’inscrive in una riorganizzazione del sistema finanziario internazionale che, tramite la lotta contro la frode fiscale, distingue i « paradisi fiscali », di cui farebbe parte la Svizzera, dai centri « offshore » come, ad esempio, le piazze finanziarie dei Caraibi. Interamente controllati dalle autorità statunitensi, questi ultimi potrebbero conservare tutte le loro attività a detrimento dei loro concorrenti etichettati negativamente. Gli Stati Uniti ed i loro satelliti dei Caraibi nonché i centri offshore sotto  bandiera britannica controllano ciascuno un mercato del « denaro grigio » quasi eguale a quello della Svizzera. In seguito all’offensiva statunitense, la Svizzera, che detiene ancora il 27% del mercato del risparmio mondiale gestito fuori dal paese di residenza, potrebbe rapidamente lasciare il campo ai suoi principali concorrenti  : il Regno Unito e le sue isole anglo-normanne, l’isola di Man e Dublino che trattano il 24% di questi capitali, nonché New York, Miami, i Caraibi e Panama che detengono il 19% dei 7300 miliardi di dollari collocati al di fuori delle frontiere. La metà di tale somma non sarebbe dichiarata [14].

Minacciata di essere iscritta nella lista dei paradisi fiscali dell’OCSE, la Svizzera ha aperto una breccia nel suo segreto bancario. Ha abbandonato la distinzione tra frode ed evasione fiscali e ha acconsentito allo scambio di informazioni, caso per caso, in risposta alle richieste, concrete e fondate, delle amministrazioni fiscali di paesi terzi. Il Lussemburgo e l’Austria, gli ultimi dure membri dell’Unione Europea che desideravano mantenere il loro segreto bancario, hanno fatto lo stesso. Questi ultimi due paesi erano anche suscettibili di essere iscritti nella lista nera. Tuttavia non si è mai posta, ad esempio, la questione di includervi alcuni Stati americani come il Delaware, le cui LLC (Limited Liabilities Compagnies) sono sottratte ad ogni forma di imposizione [15].

Nel contesto della crisi finanziaria, quest’operazione sotto egemonia statunitense di  « lotta contro la frode fiscale » sembra un tentativo degli Stati di recuperare capitali destinati a finanziare parzialmente gli aiuti consentiti alle banche ed alle assicurazioni ma, soprattutto, è un mezzo per le autorità USA di lottare contro il declino del dollaro, costringendo i capitali ad essere investiti nella zona di questa moneta, pur garantendo ai redditi più elevati il modo di sfuggire ad ogni imposizione fiscale. In effetti, non tutti i frodatori del fisco sono chiamati a portare il loro contributo: i più agiati avranno sempre la possibilità di far appello all’ingegneria fiscale dei trust per sfuggire all’imposta. Quest’operazione di sottrazione fiscale sarà loro tanto più facilitata se essi collocheranno i loro capitali in centri offshore statunitensi o anglosassoni, in territori posti sotto il diretto controllo della potenza dominante.

Il G 20 di Londra dell’aprile 2009, ci mostra tuttavia che il predominio americano sul sistema finanziario internazionale  non sarà che parziale. La piazza di Singapore, chiamata ad un forte sviluppo e suscettibile di recuperare una parte dei capitali che abbandonano la Svizzera, è riuscita a mantenere la sue prerogative di fronte dell’offensiva USA.

Un rapporto “imperiale”

Se questo nuovo accordo è particolarmente favorevole ad UBS, ciò deriva dal sacrificio della piazza bancaria elvetica effettuato dalle autorità svizzere a vantaggio della banca più importante. Tale accordo è emblematico della maniera in cui attualmente si concretizza la decisione politica : sulla base del puro rapporto di forze. L’adesione delle altre banche non è sollecitata. Grazie all’intervento dell’amministrazione USA, esplode la base sociale dello Stato nazionale svizzero. Il caso UBS ci rivela un modo di costruzione della struttura imperiale : il rapporto di dominazione diretta che si stabilisce tra l’amministrazione USA e le grandi imprese multinazionali straniere impiantate sul mercato nordamericano, nonché l’utilizzo di queste ultime come strumenti di decomposizione dei poteri nazionali.

UBS realizzava la metà dei suoi numeri sul mercato statunitense: questo indica una particolare vulnerabilità alle pressioni delle autorità americane. Essa è la banca principale della piazza elvetica e beneficia così, in questo paese, di vantaggi dovuti al suo rango. Tuttavia, sul mercato nordamericano, questa banca transazionale è sottoposta, attraverso l’amministrazione statunitense, agli interessi dei grandi gruppi nordamericani ed alla politica globale delle autorità statunitensi. Essa diviene un semplice strumento di queste ultime.

Attaccata dal fisco USA, UBS non ha cercato di sganciarsi dal mercato nordamericano. Al contrario, ha svolto una politica di reclutamento  destinata a riconquistare parti di mercato che aveva dovuto abbandonare [16]. Non c’è alternativa al mercato interno statunitense. Esso occupa un posto privilegiato, sia per le merci che per il settore finanziario. Così è un’arma privilegiata al servizio dell’amministrazione americana che le permette di strumentalizzare le imprese multinazionali attive su tale mercato e di utilizzarle al servizio della sua politica imperiale.

Questo caso di « lotta contro la frode fiscale » è una perfetta illustrazione della teoria decisionista di Carl Schmitt[17]. Tutti gli elementi che la costituiscono sono presenti : l’esistenza di una situazione di urgenza al livello della tesoreria degli Stati, la capacità degli Stati Uniti di designare un nemico : la piazza finanziaria elvetica, nonché il potere che si dà questa nazione di violare l’ordine giuridico nel quale si inscrive la sua azione. Anche qui, la possibilità per la potenza statunitense di imporre la decisione rivela un carattere costituente, quello della messa in piedi di una nuova forma di autorità a livello internazionale. Questa instaurazione di un potere transnazionale è decomposizione non solo della forma nazionale dello Stato, ma anche delle strutture regionali come quella dell’Unione Europea. L’azione della potenza egemonica prende la forma della decisione pura, che crea ogni volta gli organismi, in questo caso il G 20, destinati a sostenere il suo intervento. Quest’azione costituente è in permanenza destrutturazione delle forme di poteri esistenti. In contropartita di tale azione, essa ricompone solo degli spazi, puramente congiunturali e in movimento, di esercizio della sua egemonia. L’urgenza e l’eccezione diventano dei modi d’azione permanenti.

Sullo stesso argomento, vedi anche:
UBS e l’egemonia del dollaro in questo stesso sito:
http://www.eurasia-rivista.org//1396/ubs-e-l%E2%80%99egemonia-del-dollaro

Jean-Claude Pay, sociologo e saggista, è autore di La fine dello stato di diritto, Manifestolibri. Contributi pubblicati in Eurasia: Spazio aereo e giurisdizione statunitense (nr. 4/2007, pp. 109-113), Gli scambi finanziari sotto controllo USA (nr. 1/2009, pp. 109-120).

[1]    Direttiva 2003/48/CE del Consiglio del 3 giugno 2003 in materia di fiscalità dei redditi del risparmio sotto forma di pagamenti di interessi.

[2]    « Paradis fiscaux : plus aucun pays sur la liste noire », Le Monde, 7 aprilel 2009.

[3]    « Paradis fiscaux: la liste noire et la liste grise », Libération, 3 aprile 2009.

[4]    Richard Werly, « Sur les listes des paradis fiscaux, l’OCDE fait front commun avec l’UE », Le Monde, 7 aprile 2009.

[5]  Istituzione giuridica anglosassone. Un capitale è affidato a dei gestori (trustees), che devono amministrarlo allo scopo prescritto dal costituente (settler), nell’interesse di un beneficiario. Se è irrevocabile, il settler non viene più imposto su quel patrimonio. I trustees – come amministratori – non lo sono nemmeno loro. E se è discrezionale, ossia i trustees hanno  solo gli impegni fissati dal settler verso il beneficiary, nemmeno quest’ultimo è imponibile

[6]  Myret Zaki, « Jersey, les Bahamas, le Delaware et Miami, plus opaques que la Suisse », Le Temps, 9 marzo 2009.

[7]    Yves Genier, «  Ivan Pictet «Une place réduite de moitié», Entretien, Le Temps, 24/2/2009.

[8]  « UBS refuse de lever le secret bancaire sur 52 000 comptes illégaux », Le Monde del 20/2/2009.

[9]  « UBS va révéler 4.450 noms de clients américains », Le Nouvel Observateur Challenge.fr, le 18/8/2009, http://www.challenges.fr/actualites/finance_et_marches/20090819.CHA6469/ubs_va_reveler_4.450_nomsde_clients_americains.html

[10]  Agathe Duparc, « La justice américaine ouvre une brèche dans le secret bancaire suisse », Le Monde, 21 febbraio 2009.

[11]  Vedi: Jean-Claude Paye,« Spazio aero e giurisdirizione statunitense », Eurasia 4/2007, ott-dicembre 2007.

[12]  Vedi: Jean-Claude Paye, « Gli scambi finanziari sotto controllo USA », Eurasia N° 1 2009, Gennaio/Marzo

[13]  Elisabeth Eckert« Les Etats-Unis ont déjà brisé le secret bancaire suisse », 24heures.ch, http://www.24heures.ch/actu/monde/etats-unis-brise-secret-bancaire-suisse

[14]  Myret Zaki, « Londres et New York veulent rafler le marché de l’évasion fiscale à la Suisse », Le Temps, 9 marzo 2009.

[15] United States, Department of the Treasury Internal Revenue Service, http://www.irs.gov/pub/irs-pdf/p3402.pdf

[16]  François Pilet, «  UBS entrouvre les vannes de l’emploi aux Etats-Unis », Le Temps, l21 luglio 2009.

[17]  Carl Schmitt, Théologie politique, p. 15, Gallimard, Paris 1988.

Winter School dell’ISPI

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Dal prossimo mese di novembre riprenderà la Winter School dell’ISPI, arricchita anche quest’anno da nuovi corsi, con la possibilità di conseguire i Diplomi in “Sviluppo e Cooperazione Internazionale”, “Emergenze e Interventi Umanitari”, “Affari Europei”, “Africa: Politica e Società” e “Microfinanza”.

Sul sito www.ispionline.it sono disponibili le informazioni di dettaglio sui corsi e sulle modalità di iscrizione.

Per ulteriori chiarimenti:
Segreteria Corsi ISPI
tel.: 02 86 33 13 275
segreteria.corsi@ispionline.it

Le prospettive di Gazprom in Africa

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Fonte: Strategic Culture Foundation

Il continente africano possiede enormi riserve di gas naturale che sono stimate a 14,56 trilioni di metri cubi, ovvero il 7,9% del totale mondiale. Le riserve accertate in Nigeria ed Algeria (5,22 e 4,5 trilioni di metri cubi rispettivamente) sono inferiori a quelle di Russia (43,3 trilioni di metri cubi), Iran (29,61), Qatar (25,46), Turkmenistan (7,94), Arabia Saudita (7,57) ed Emirati Arabi Uniti (6.43), ma superiori a quelle della Norvegia (2,91), che è uno dei paesi-chiave nell’esportazione di gas. Tuttavia, i livelli di produzione e consumo di gas naturale in Africa sono abbastanza bassi. La produzione di gas nel 2008 è stata di 214,8 bilioni di metri cubi, ovvero il 7% del totale mondiale (un incremento di 4,85 rispetto al 2007). Il Sudamerica è stato l’unico continente a produrre meno gas naturale nel medesimo anno. Il consumo di gas naturale nel 2008 in Africa è stato di 94,9 bilioni di metri cubi ovvero il 3,1% del totale mondiale (un 6,1% di crescita rispetto al 2007), che è il livello più basso su scala mondiale.

Oltre il 50% del gas naturale prodotto in Africa – 115,6 bilioni di metri cubi – viene esportato, per lo più come gas naturale liquefatto (62,18 bilioni di metri cubi). La quota dei paesi africani (Algeria, Nigeria, Egitto, Libia, Guinea Equatoriale e Mozambico) nella fornitura globale di gas è del 14,2%, ma lo stesso livello di gas naturale liquefatto è molto più alto – 27,5%.

Gazprom è principalmente orientata verso il mercato europeo, e consolidare le proprie posizioni in Africa sarebbe per lei importante al fine di diversificare le sue forniture all’Europa. Attualmente il gigante energetico russo affronta una dura competizione in Africa, soprattutto con compagnie europee. Per esempio, le posizioni africane dell’ENI sono più solide di quelle della Gazprom, ancorché le due compagnie progettino di cooperare nel progetto South Strema e, di conseguenza, potrebbero raggiungere un accordo inerente i loro altri progetti. Per esempio, Gazprom ed ENI non avrebbero bisogno di coinvolgere ulteriori partner per costruire assieme il secondo tratto dell’oleodotto che collega la Libia alla Sicilia.

Oggi come oggi, Russia ed Africa settentrionale, assieme alla Norvegia, sono i maggiori fornitori dell’Europa di gas naturale. La dipendenza dal gas importato dalla Russia è ampiamente considerata nell’UE come un rischio per la sicurezza energetica europea. Causa questa percezione l’amministrazione dell’UE sta osservando con ansia l’espandersi delle operazioni di Gazprom in Africa, preoccupandosi del fatto che l’avvento della compagnia russa nelle regioni a sud dell’Europa le consentirebbe di accerchiare l’UE ed assumere una posizione più aggressiva nei negoziati per la fornitura di gas ed in particolare nelle questioni dei prezzi. L’UE sta facendo quel che può per ostacolare la realizzazione di quest’ipotetico scenario.

La realtà è più complessa, comunque, ed i paesi UE sono ancora estremamente divisi riguardo l’importazione di gas naturale dalla Russia. Malgrado la preoccupazione paneuropea riguardo la presa crescente della Russia sul mercato energetico europeo, le tedesche BASF ed E.ON AG sono coinvolte in North Stream di Gazprom ed in South Strema dell’italiana ENI.

Il fallimento dei tentativi di convincere la Russia a sottoscrivere la Carta dell’Energia, dalla quale l’UE vorrebbe ottenere un aumento del controllo sulla rete di oleodotti della Russia, ha fatto crescere l’attivismo di Bruxelles sul mercato africano del gas. Nell’estate del 2007 l’UE stipulò un nuovo importantissimo piano per la fornitura del gas con l’algerina Sonotrach, che al tempo stesso dichiarò che il suo memorandum di collaborazione con Gazprom sarebbe cessato. Il fulcro del nuovo accordo fra Algeria e UE è che il gas della prima sarebbe a disposizione di tutti i paesi di quest’ultima, non solo di Spagna e Francia in quanto paesi vicini all’esportatore. Riferimenti alla destinazione delle forniture di gas sono stati lasciati cadere completamente dai testi di tutti gli accordi fra Algeria ed UE come anche le clausole generali che vietavano di riesportare, le quali quand’erano ammesse, ostacolavano la competizione.

Inoltre, Sonotrach riceverà una quota degli introiti delle vendite di gas algerino da parte di rivenditori europei e sarà autorizzata a distribuire gas naturale liquefatto all’Europa tramite navi gasiere. Tali misure promuovono il mercato comune europeo del gas e riducono considerevolmente la dipendenza energetica europea dalla Russia.

Poco dopo la sottoscrizione del contratto con Sonotrach Bruxelles svelò una nuova iniziativa concernente la cooperazione con l’Africa – il progetto di costruire il gasdotto Trans-sahariano. Tale conduttura di 4.128 kilometri con una portata annuale di 30 bilioni di metri cubi servirebbe a collegare il Sahara con la Nigeria e l’Algeria. Il costo del progetto è stimato in 13 bilioni di dollari, ripartiti in 10 bilioni per la costruzione della struttura ed altri 3 in agevolazioni per la costruzione di cisterne per il gas. La conduttura s’interfaccerebbe con la rete nordafricana in Algeria e in definitiva il gas naturale verrà fornito all’Europa passando lungo il fondo del Mediterraneo, Spagna, Sicilia ed in futuro attraverso la Sardegna. Le riserve nigeriane di gas sono stimate attorno ai 5,22 trilioni di metri cubi, che è abbastanza per fornire l’Europa per un decennio. La costruzione inizierà nel 2011 e sarà completata nel 2015.

Considerando la complessità del progetto – le aree della Nigeria e del Niger sono montagnose, il Sahara è una zona con un clima terribile, e l’intera regione è afflitta da costante instabilità politica – il costo totale preventivato sembra estremamente basso, quasi metà del South Stream, il cui costo è valutato in 25 bilioni di dollari.

Aspetto importante, l’oleodotto trans-sahariano è il progetto proposto dall’UE che assumerà pure il ruolo di suo maggior finanziatore. L’Europa difficilmente consentirà a Gazprom di investirci fino a una quota consistente, nonostante la compagnia russa abbia segnalato il suo interesse a parteciparvi. Il presidente russo D. Medvedev ha confermato l’interesse della Russia al progetto nel corso della sua visita del giugno 2009 in Nigeria, come era stato dichiarato in precedenza durante i colloqui fra il CEO della Gazperom A. Miller ed il Direttore Generale della Corporation Nazionale Nigeriana del Petrolio Abubakar Yar’Adua. In quella circostanza le parti si accordarono per costituire una joint venture per costruire un oleodotto di 360 km verso la Nigeria.

Nonostante gli ovvi rischi, la Russia può ottenere enormi profitti economici e politici dal progetto. D’altro canto, attualmente Gazprom è coinvolta in un vasto programma di costosi progetti e abbastanza probabilmente la quota d’investimento che sarebbe in grado di versare nella partecipazione all’oleodotto trans-sahariano sarebbe alquanto limitata.

5 ottobre 2009

(Traduzione a cura di Lorenzo Salimbeni)

Roman Tomberg è diplomato al Centro per gli Studi Energetici dell’Istituto per l’Economia Mondiale e per le Relazioni Internazionali dell’Accademia Russa di Scienze ed esperto della Fondazione Culturale Strategica.

Le prospettive di Gazprom in Africa

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Fonte: Strategic Culture Foundation

Il continente africano possiede enormi riserve di gas naturale che sono stimate a 14,56 trilioni di metri cubi, ovvero il 7,9% del totale mondiale. Le riserve accertate in Nigeria ed Algeria (5,22 e 4,5 trilioni di metri cubi rispettivamente) sono inferiori a quelle di Russia (43,3 trilioni di metri cubi), Iran (29,61), Qatar (25,46), Turkmenistan (7,94), Arabia Saudita (7,57) ed Emirati Arabi Uniti (6.43), ma superiori a quelle della Norvegia (2,91), che è uno dei paesi-chiave nell’esportazione di gas. Tuttavia, i livelli di produzione e consumo di gas naturale in Africa sono abbastanza bassi. La produzione di gas nel 2008 è stata di 214,8 bilioni di metri cubi, ovvero il 7% del totale mondiale (un incremento di 4,85 rispetto al 2007). Il Sudamerica è stato l’unico continente a produrre meno gas naturale nel medesimo anno. Il consumo di gas naturale nel 2008 in Africa è stato di 94,9 bilioni di metri cubi ovvero il 3,1% del totale mondiale (un 6,1% di crescita rispetto al 2007), che è il livello più basso su scala mondiale.

Oltre il 50% del gas naturale prodotto in Africa – 115,6 bilioni di metri cubi – viene esportato, per lo più come gas naturale liquefatto (62,18 bilioni di metri cubi). La quota dei paesi africani (Algeria, Nigeria, Egitto, Libia, Guinea Equatoriale e Mozambico) nella fornitura globale di gas è del 14,2%, ma lo stesso livello di gas naturale liquefatto è molto più alto – 27,5%.

Gazprom è principalmente orientata verso il mercato europeo, e consolidare le proprie posizioni in Africa sarebbe per lei importante al fine di diversificare le sue forniture all’Europa. Attualmente il gigante energetico russo affronta una dura competizione in Africa, soprattutto con compagnie europee. Per esempio, le posizioni africane dell’ENI sono più solide di quelle della Gazprom, ancorché le due compagnie progettino di cooperare nel progetto South Strema e, di conseguenza, potrebbero raggiungere un accordo inerente i loro altri progetti. Per esempio, Gazprom ed ENI non avrebbero bisogno di coinvolgere ulteriori partner per costruire assieme il secondo tratto dell’oleodotto che collega la Libia alla Sicilia.

Oggi come oggi, Russia ed Africa settentrionale, assieme alla Norvegia, sono i maggiori fornitori dell’Europa di gas naturale. La dipendenza dal gas importato dalla Russia è ampiamente considerata nell’UE come un rischio per la sicurezza energetica europea. Causa questa percezione l’amministrazione dell’UE sta osservando con ansia l’espandersi delle operazioni di Gazprom in Africa, preoccupandosi del fatto che l’avvento della compagnia russa nelle regioni a sud dell’Europa le consentirebbe di accerchiare l’UE ed assumere una posizione più aggressiva nei negoziati per la fornitura di gas ed in particolare nelle questioni dei prezzi. L’UE sta facendo quel che può per ostacolare la realizzazione di quest’ipotetico scenario.

La realtà è più complessa, comunque, ed i paesi UE sono ancora estremamente divisi riguardo l’importazione di gas naturale dalla Russia. Malgrado la preoccupazione paneuropea riguardo la presa crescente della Russia sul mercato energetico europeo, le tedesche BASF ed E.ON AG sono coinvolte in North Stream di Gazprom ed in South Strema dell’italiana ENI.

Il fallimento dei tentativi di convincere la Russia a sottoscrivere la Carta dell’Energia, dalla quale l’UE vorrebbe ottenere un aumento del controllo sulla rete di oleodotti della Russia, ha fatto crescere l’attivismo di Bruxelles sul mercato africano del gas. Nell’estate del 2007 l’UE stipulò un nuovo importantissimo piano per la fornitura del gas con l’algerina Sonotrach, che al tempo stesso dichiarò che il suo memorandum di collaborazione con Gazprom sarebbe cessato. Il fulcro del nuovo accordo fra Algeria e UE è che il gas della prima sarebbe a disposizione di tutti i paesi di quest’ultima, non solo di Spagna e Francia in quanto paesi vicini all’esportatore. Riferimenti alla destinazione delle forniture di gas sono stati lasciati cadere completamente dai testi di tutti gli accordi fra Algeria ed UE come anche le clausole generali che vietavano di riesportare, le quali quand’erano ammesse, ostacolavano la competizione.

Inoltre, Sonotrach riceverà una quota degli introiti delle vendite di gas algerino da parte di rivenditori europei e sarà autorizzata a distribuire gas naturale liquefatto all’Europa tramite navi gasiere. Tali misure promuovono il mercato comune europeo del gas e riducono considerevolmente la dipendenza energetica europea dalla Russia.

Poco dopo la sottoscrizione del contratto con Sonotrach Bruxelles svelò una nuova iniziativa concernente la cooperazione con l’Africa – il progetto di costruire il gasdotto Trans-sahariano. Tale conduttura di 4.128 kilometri con una portata annuale di 30 bilioni di metri cubi servirebbe a collegare il Sahara con la Nigeria e l’Algeria. Il costo del progetto è stimato in 13 bilioni di dollari, ripartiti in 10 bilioni per la costruzione della struttura ed altri 3 in agevolazioni per la costruzione di cisterne per il gas. La conduttura s’interfaccerebbe con la rete nordafricana in Algeria e in definitiva il gas naturale verrà fornito all’Europa passando lungo il fondo del Mediterraneo, Spagna, Sicilia ed in futuro attraverso la Sardegna. Le riserve nigeriane di gas sono stimate attorno ai 5,22 trilioni di metri cubi, che è abbastanza per fornire l’Europa per un decennio. La costruzione inizierà nel 2011 e sarà completata nel 2015.

Considerando la complessità del progetto – le aree della Nigeria e del Niger sono montagnose, il Sahara è una zona con un clima terribile, e l’intera regione è afflitta da costante instabilità politica – il costo totale preventivato sembra estremamente basso, quasi metà del South Stream, il cui costo è valutato in 25 bilioni di dollari.

Aspetto importante, l’oleodotto trans-sahariano è il progetto proposto dall’UE che assumerà pure il ruolo di suo maggior finanziatore. L’Europa difficilmente consentirà a Gazprom di investirci fino a una quota consistente, nonostante la compagnia russa abbia segnalato il suo interesse a parteciparvi. Il presidente russo D. Medvedev ha confermato l’interesse della Russia al progetto nel corso della sua visita del giugno 2009 in Nigeria, come era stato dichiarato in precedenza durante i colloqui fra il CEO della Gazperom A. Miller ed il Direttore Generale della Corporation Nazionale Nigeriana del Petrolio Abubakar Yar’Adua. In quella circostanza le parti si accordarono per costituire una joint venture per costruire un oleodotto di 360 km verso la Nigeria.

Nonostante gli ovvi rischi, la Russia può ottenere enormi profitti economici e politici dal progetto. D’altro canto, attualmente Gazprom è coinvolta in un vasto programma di costosi progetti e abbastanza probabilmente la quota d’investimento che sarebbe in grado di versare nella partecipazione all’oleodotto trans-sahariano sarebbe alquanto limitata.

5 ottobre 2009

(Traduzione a cura di Lorenzo Salimbeni)

Roman Tomberg è diplomato al Centro per gli Studi Energetici dell’Istituto per l’Economia Mondiale e per le Relazioni Internazionali dell’Accademia Russa di Scienze ed esperto della Fondazione Culturale Strategica.

Le truppe di Assad sempre più vicine ai mercenari stranieri

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Saeed Naqvi, Sunday Guardian, 19 febbraio 2012

Una caratteristica della crisi siriana, che deve piacere a chi cerca apertamente la cacciata del regime, è che si sta rivelando un percorso lungo. Così lungo, infatti, che il mondo sta cominciando a sviluppare l’amnesia in merito alla questione palestinese. Questo deve essere uno stato di cose abbastanza felice per alcuni. Ciò fornisce certamente sollievo, una digressione che potenzialmente può tenere l’attenzione lontana da temi imbarazzanti, anche se i burattinai improvvisano una crisi dopo l’altra.

Ora ci sono giornalisti, traghettati in Siria da contrabbandieri affidabili, che testimoniano “il terrorismo transfrontaliero” da Turchia, Iraq, Giordania, Libano alla Siria. La risposta “brutale” siriana fa notizia, ma “il terrorismo transfrontaliero” no. L’espressione deve essere raccolta almeno a New Delhi.

I governi a volte operano in segreto e attutiscono le loro risposte. Ma il terrorismo transfrontaliero non fa eco neanche nei media indiani e in coloro che credono di attivare un discorso pubblico. Infuria il dibattito negli Stati Uniti, se assassinare gli scienziati iraniani abbia uno scopo utile. Ma l’intellighenzia, in questa madre della civiltà, non esprime stupore sulla dimensione etica se l’organizzare l’assassinio degli scienziati sia giusto o sbagliato, non c’è in nessuna parte del discorso. Questo stato di cose è un miglioramento della descrizione di Anthony Trollope di un colono della Tasmania che, alla domanda chi avrebbe ucciso prima se avesse visto un serpente e un aborigeno, ha risposto con candore stupefacente, “La questione non dovrebbe sorgere”?

Già, la storia siriana ha avuto molti colpi di scena sconvolgenti. La Lega Araba invia una missione in Siria, ma la sua relazione è nascosta perché il capo “sudanese” della missione è troppo “equilibrato” tra la brutalità di Stato e la violenza dei manifestanti. Che gli operativi di al-Qaida e dei taliban di Libia, Afghanistan e Pakistan abbiano trovato la loro strada per la Siria, viene riferito anche in Occidente. Ma i taliban dal Qatar? Il Qatar è un hub per il dialogo con i taliban, anche se ha iniziato a sdoppiarsi in un centro di reclutamento per le operazioni in Siria? Se è così, queste operazioni hanno la benedizione dalla più alta autorità di al-Qaida, Ayman al-Zawahiri.

In altre parole, Stati Uniti, Europa, Israele, Arabia Saudita, Qatar sono apertamente in compagnia di al-Qaida in Siria. Lanciare una guerra globale contro il terrorismo in Afghanistan e in Pakistan e infilare al-Qaida in nuovi teatri come la Libia e la Siria! Suppongo, la guerra globale al terrore verrà reindirizzata in questi teatri, una volta che l’Afghanistan e il Pakistan saranno stati ripuliti – una sorta di seconda fase di un’operazione in due tempi.

Bana kar mitana
Mita kar banane

(Costruisci, distruggi, costruisci di nuovo).

Nel frattempo, il gioco siriano è stato immensamente complicato dalla visita del Ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov a Damasco, insieme al personale d’intelligence russo. La prova fotografica è stata paragonata al di fuori di tutta la massa del dissenso violento in Siria. Evidentemente, Bashar al-Assad ha ricevuto il termine di una quindicina di giorni entro cui “ripulire” tali centri di ribellione, come Homs, non lontano dal confine con il Libano.

Lo spionaggio correlato alla diplomazia sta procedendo in parallelo alle operazioni ad Homs. Ad esempio, i nove pellegrini iraniani catturati dai ribelli mentre viaggiavano da Aleppo ad Hama per il santuario di Zainab, a Damasco. All’incirca nello stesso tempo, l’esercito siriano ha arrestato 49 soldati turchi. Ankara ha chiesto a Teheran di organizzare la loro liberazione. Il Ministro degli Esteri turco, Ahmet Davutoglu si precipitava a Mosca per chiedere aiuto. Per facilitare lo scambio l’esercito libero siriano (un camuffamento dei ribelli) ha rilasciato i pellegrini iraniani sul lato turco del confine. I pellegrini hanno fatto ritorno a Teheran.
Una situazione infinitamente più grave è sorta in una zona di Homs, dove mercenari e forze speciali stranieri sono circondati dall’esercito siriano.

Piuttosto che bombardare la zona di Baba Amro, la strategia siriana punta a catturare vivi gli stranieri e a ribaltare la situazione nella guerra mediatica occidentale. Un indizio circa la veridicità di questa storia è venuto dal ministro degli esteri francese Alain Juppé, che sta cercando l’aiuto della Russia per creare “corridoi umanitari” con cui consentire l’accesso ai “civili intrappolati dalle violenze”. In effetti, lo sforzo sui “corridoi” include l’idea di una nuova risoluzione del Consiglio di sicurezza, a cui l’occidente sta cercando di legare i russi.

I siriani, nel frattempo, stanno mantenendo i loro occhi sull’orologio e si affrettano lentamente a stringere il cordone sulla località di Baba Amro, presso Homs. Con altre buone notizie per loro, le fonti giordane confermavano l’arresto da parte dell’esercito giordano di sette terroristi che s’infiltravano in Siria.

Saeed Naqvi è un Distinguished Fellow presso la Observer Research Foundation ed è un giornalista.

FONTE:http://www.sunday-guardian.com/analysis/assads-troops-close-in-on-foreign-mercenaries#.T0Ek84m4yS8.facebook

Traduzione di Alessandro Lattanzio
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Una corsa agli armamenti in Sudamerica? Tra il pacifismo “ingenuo” e le ipotesi di conflitto

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Recentemente è stato reso noto il nuovo accordo tra Brasile e Francia, secondo il quale il primo sborserebbe più di 1200 milioni di dollari per l’acquisto di tecnologia militare di ultima generazione. Ciò non costituisce notizia in uno scenario regionale nel quale negli ultimi anni, in sostanza, c’è una corsa verso l’acquisto di materiale militare d’avanguardia da parte di tutti i paesi. Sebbene sia importante la magnitudine con la quale si presenta questo accordo, storico per il Brasile, ciò che più richiama l’attenzione è l’indifferenza di alcuni governi della regione sull’argomento.

Elenchiamo alcune considerazioni sulla regione da tenere in conto in questo contesto di riarmo: le dottrine di difesa dei paesi della subregione sudamericana si riversano verso la difesa delle risorse naturali, presenti in abbondanti quantità, contro un aggressore esterno con maggiori capacità. In questa forma, per quanto concerne lo scontro terrestre, le Forze Armate si adattano al combattimento su grandi spazi, ma in gruppi di dispiegamento veloce e forze speciali versatili, con capacità di eseguire “colpi di mano”. Un esempio di ciò, sono le nuove unità di fanteria mobile che il Brasile è in procinto di dispiegare nell’Amazzonia, come parte della sua dottrina strategica di Difesa [1]. D’altra parte, seguendo questo parametro di combattimento in spazi estesi, sono anche presenti programmi per l’acquisto di carri armati con tecnologia d’avanguardia, tali come i 350 Leopard II tedesco, acquistati dall’esercito cileno, con la capacità di compiere traiettorie di tiro a una distanza effettiva di 4 Km con un cannone da 120 mm e con munizioni capaci di perforare il blindaggio del rivale. A tutto questo si aggiungono gli acquisti di aeronavi di ultima generazione da parte di Cile, Perù, Ecuador, Colombia, Venezuela, Brasile e persino la Bolivia, paese che ha acquistato dei caccia in Cina, dopo il rifiuto degli Stati Uniti nel materializzare un accordo con la Repubblica Ceca [2].

La cosa che più richiama l’attenzione è che, mentre le dottrine cambiano, e la maggioranza dei paesi si riarmano secondo le proprie concezioni, esistono degli altri, dove si presentano incoerenze disastrose. Ci riferiremo al caso particolare dell’Argentina, la quale ha adottato, al pari del Brasile, una dottrina di difesa delle risorse naturali strategiche, precisamente, dell’acquifero Guaraní e dei Campi di ghiaccio Patagonici Meridionali (volgarmente conosciuti come ghiacciai continentali), per via dei quali ha modificato la distribuzione dei corpi dell’esercito. Ma, diversamente dal resto dei paesi sudamericani, l’Argentina non ha investito un solo dollaro nella modernizzazione dell’apparato militare, tranne che nel caso di 3 aerei per il trasporto di passeggeri dell’aerolinea statale LADE. È vero che esistono necessità urgenti come le opere pubbliche, la salute e l’educazione, ma un paese in cui il governo investe un miserrimo 0,8% del PIL [3] nella Difesa e preferisce spendere più di 600 milioni di pesos annui (162 milioni di dollari approssimativamente) per trasmettere le partite di calcio gratis, invece di evitare di giungere a un punto di non ritorno nel quale si trovano, attualmente, le Forze Armate argentine per via dell’obsolescenza del materiale, dovrebbe pensare all’importanza di possedere un apparato di difesa credibilmente dissuasivo in un mondo che tende ogni giorno di più verso le guerre per le risorse (e nel quale il Sudamerica sarà, prevedibilmente, uno scenario di conflitto del XXI secolo), ed è di vitale importanza rendere consapevole la popolazione e, in modo particolare, i poteri esecutivi e legislativi sulle conseguenze di questa problematica.

A sua volta, quanto detto in precedenza dimostra l’ingenuità del governo argentino quando pensa che essere pacifista significa non investire nella Difesa, se è vero che questo sia il motivo per il quale il governo non investe in questo settore, giacché non è la stessa cosa: non si deve confondere il pacifismo ingenuo, nel quale il nostro governo in apparenza è pervenuto [4], dal pacifismo propriamente detto, secondo il quale uno Stato sarà pacifista nella misura in cui le sue capacità militari siano sufficientemente forti da consentire di farlo sentire sicuro di se stesso e far sentire sicuro il suo vicino, il che non significa che affinché il vicino si senta più sicuro, bisogna ridurre gli armamenti. D’altra parte, non possiamo ignorare che nella regione esistono ipotesi di conflitto, come ha affermato la nostra ministro della DIFESA, Nilda Garré, dopo il summit dei presidenti dell’UNASUR tenutosi a Bariloche. Esistono ipotesi di conflitto tra Cile e Perù per il problema limitrofo nell’oceano; tra Colombia, Ecuador, Venezuela e Nicaragua per problemi che vanno da quelli territoriali fino a quelli di potere [5]; tra Venezuela, Stati Uniti e Guyana, per problemi di potere e di delimitazione del territorio, rispettivamente; ecc. Ciò è manifestamente dimostrato. Nemmeno bisogna negare che esistano ipotesi di conflitto segreto, ma quello è un altro tema che non si può affrontare per mancanza d’informazione.

Il problema radica nel demistificare la piega bellicista dell’idea di “ipotesi di conflitto” tra la popolazione e i governanti. Quest’idea, o l’adattamento di un’ipotesi di conflitto, non significa designare “nemico” lo Stato o gruppo con il quale si considera un’ipotesi di questo tipo [6], bensì semplicemente significa “essere preparato per, in caso di …”, avere la strategia e i mezzi disponibili da essere dispiegati immediatamente nel caso in cui fosse necessario. Non si può negare in un paese come l’Argentina, con l’estensione geografica e le copiose risorse naturali, una (o più) ipotesi di conflitto. Ad esempio, il Pentagono ha ordinato ai suoi ricercatori compiere uno studio di tutti gli acquiferi del mondo e il Guaraní è il terzo più grande del pianeta. Quest’informazione è alla portata di qualsiasi persona. Aggiungiamo le sette basi colombiane che i militari americani utilizzeranno per la “lotta contro il narcotraffico e il terrorismo” con l’uso, persino, di aerei AWACS, i cui radar intercettano aeronavi in un raggio di quasi 500Km, coprendo una superficie di 312.000 km2, per il Brasile è qualcosa di molto sgradevole avere quelle aeronavi che operano nella sua frontiera, a questo fatto si devono aggiungere le denunce fatte dagli Stati Uniti alla Triplice Frontiera, considerata punto di finanziamento del terrorismo internazionale, e la base Mariscal Estigarribia in Paraguay, dove potrebbe ospitare militari americani e, già così, avremmo la prima ipotesi di conflitto di Argentina, del bacino del Plata. D’altra parte, la questione delle Malvine e l’Atlantico Sud sono il secondo scenario sul quale il governo dovrebbe lavorare con veemenza. La presenza militare britannica presente nelle isole è uguale alla quantità della popolazione civile stanziata in quel luogo. A ciò gli aggiungiamo la capacità di proiezione britannica dalle isole verso l’Antartide e l’ampliamento delle capacità militari nelle stesse. Nello stesso tempo, quest’anno gli europei hanno manifestato la loro intenzione di insediare una base militare nelle Malvine, con il nullaosta dei britannici, ma nessun presidente dell’UNASUR ha convocato una riunione per condannare quella decisione, contrariamente a quanto avevano fatto con le basi colombiane. Ciò è dovuto alla mancanza di una Politica Estera e di Difesa seria da parte del governo di turno che si sforza di cercare un nemico interno da spiare mediante aerei UAV di ultima generazione, ciascuno dei quali costa più di 12 milioni di dollari di cui il governo argentino sarebbe disposto ad acquistare una certa quantità a Israele, anziché usarli per la lotta contro il narcotraffico nel nord del paese, il quale aumenta giorno dopo giorno. Abbiamo, in questo modo, una seconda ipotesi di conflitto, quella dell’Atlantico del Sud [7].

Per finire, a mio giudizio, non esiste una corsa agli armamenti in senso classico. È vero che uno Stato acquista armi perché il suo vicino lo fa anche. È la logica dell’equilibrio di potere che mantiene la stabilità regionale (e anche mondiale, secondo i casi). Ma, secondo me, quello che sta avvenendo in Sudamerica è un ricambio di materiale bellico eccessivamente obsoleto, sommato all’importanza che i presidenti danno al futuro scenario globale, nel senso che, come sono soliti dire a Itamaraty, un pensiero strategico, a lungo termine, è l’unica forma perché lo Stato e il suo popolo progrediscano e no mediante misure a breve termine. Non è un caso se il presidente francese, Nicolas Sarkozy, ha indicato che “il Brasile è diventato un paese imprescindibile, un gigante di cui il mondo non può non considerare nel momento di affrontare le sfide che ci attendono”. I veri statisti, artefici del progresso dello Stato, sono quelli che possiedono un pensiero strategico nel quale visualizzano lo scenario internazionale che accadrà tra 25 o 50 anni. Juan D. Perón, già negli anni cinquanta, parlava di scenario internazionale per l’anno 2000, nel quale prevedeva le guerre per le risorse che sarebbero sopravvenute e le misure che avrebbero dovuto prendere in quel momento in Argentina e nella regione, per evitare di essere oltrepassati da questi conflitti una volta entrati nel XXI secolo. Non si era sbagliato.

* Matías Alejandro Magnasco , laureato in Rapporti internazionali, frequenta  il Master in Rapporti Internazionali dell’Università Internazionale Tres Fronteras e il Círculo de Legisladores de la Nación. Membro dell’Osservatorio di Colombia del CAEI e del Centro Aeronautico di Studi Strategici.

1.  La quale consta di tre scenari strategici da difendere: l’Amazzonia, con la maggiore biodiversità del pianeta; il bacino del Plata, con l’acquifero Guaraní; e lo scenario dell’Atlantico, con i suoi 50.000 milioni di barili di petrolio che si valutano nel PRESAL.

2.  Non ci dilungheremo sui dati specifici degli armamenti acquistati, giacché non concernono con la sostanza del presente lavoro.

3.  Accordo del quale, in sostanza, l’80% dello stesso si destina ai salari. Bisogna rammentare che un complesso militare industriale, se ben amministrato, crea fonti di lavoro e, se ha la possibilità di esportare, genererebbe un introito di valuta molto importante. Questa è l’idea che si avverte in Brasile con la firma degli accordi con la Francia, ovverosia trasferire tecnologia nel proprio paese e generare indipendenza produttiva.

4. Anche se è necessario chiarire che il mancato investimento nel settore della Difesa risale a circa 30 anni.

5.  Conflitto Barometer. Heidelberg Institute.

6.  Faccio riferimento al termine gruppo, poiché molti Stati hanno ipotesi di conflitto con entità che non sono precisamente Stati.

7.  Per quanto concerne i futuri scenari di conflitto che l’Argentina potrebbe affrontare, valle la pena segnalare che ci sono diversi analisti che affrontano la questione dei “mapuches” come un conflitto in nuce. La questione consiste, così come la riferiscono determinati autori, nell’evitare che questo conflitto aumenti nel tempo fino a diventare un problema maggiore che dia a certe potenze il diritto a intervenire in qualche modo. Questo paragrafo l’ho sviluppato nelle note, poiché il tema dell’articolo si basa sulla “corsa agli armamenti” nella regione.

Fonti:

www.infodefensa.com
www.horaciocalderon.com
La Nación electrónico
Clarín electrónico
Observatorio Cono Sur Defensa y Fuerzas Armadas

(Trad. di Vincenzo Paglione)

Barak mette in guardia dal danneggiare ulteriormente le relazioni Israele-Turchia

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Fonte: Haaretz 12/10/2009

Il ministro della Difesa Ehud Barak ha messo in guardia, lunedì, dal danneggiare ulteriormente le relazioni di Israele con la Turchia, dopo che la Turchia ha escluso Israele da un esercitazione militare congiunta a causa delle sue critiche all’offensiva invernale di Israele contro Hamas, a Gaza. “Le relazioni tra Israele e la Turchia sono strategiche e sono state mantenute per decine di anni“, ha detto Barak alla fine di in una riunione, secondo una dichiarazione rilasciata dal suo addetto stampa. Ha poi aggiunto: “Nonostante tutti gli alti e bassi, la Turchia continua ad essere un attore centrale nella nostra regione, e non è utile farsi trascinare a criticarla“. L’esercitazione aerea internazionale, che doveva coinvolgere la IAF così come aerei e piloti della NATO, avrebbe dovuto svolgersi dalla base aerea della città dell’Anatolia di Konya.

Domenica scorsa, il ministro degli Esteri della Turchia ha pubblicamente riconosciuto, per la prima volta, che le critiche alla campagna di Gaza sono stati il motivo dell’esclusione d’Israele dalle esercitazioni nel suo paese. “Ci auguriamo che la situazione nella Striscia di Gaza migliori, che la situazione sia di nuovo nell’agenda diplomatica“, ha detto alla Cnn il ministro degli Esteri turco, Ahmet Davutoglu, in risposta ad una domanda sul motivo per cui la Turchia ha escluso Israele dall’esercitazione. “E che si crei una nuova atmosfera anche nelle relazioni turco-israeliane“, ha aggiunto. “Ma nella situazione attuale, naturalmente, criticano tale impostazione, [l’approccio] israeliano“. In precedenza, il ministero degli Esteri turco ha detto che “una questione tecnica“, non politica, ha indotto il ritardo dell’esercitazione, afferma la Cnn.

Il Ministero degli Esteri chiede riunione d’urgenza per discutere della crisi

I funzionari del ministero degli Esteri hanno convocato una riunione d’emergenza, domenica, per discutere della crisi tra Israele e Turchia, segnata dalla cancellazione dell’esercitazione. Una fonte di alto livello del ministero, ha riferito ad Haaretz delle preoccupazioni che i legami strategici con la Turchia siano in pericolo, dopo l’Operazione “Piombo fuso” nella Striscia di Gaza, dell’inizio di quest’anno. Fonti del ministero degli Esteri hanno confermato che l’incontro ha avuto luogo, seguendo le istruzioni dal direttore generale del ministero, Yossi Gal, ma non hanno voluto fornire dettagli.

I funzionari starebbero discutendo della profondità della crisi. Un punto di vista sostiene che “i legami strategici” siano diventati una descrizione unilaterale della situazione, e che il governo della Turchia del primo ministro Recep Tayyip Erdogan, non sia interessato a tali relazioni. “Può darsi che la realtà sia cambiata ed i legami strategici, che abbiamo pensato esistessero, siano semplicemente finiti”, ha detto un alto funzionario israeliano. “Forse abbiamo bisogno di avviare una nuova riflessione sui nostri legami e di dovere adottare delle misure in risposta“. I sostenitori di questo tipo di approccio, indicano che tra i paesi con rapporti diplomatici con Israele, la Turchia potrebbe essere la più ostile. Ma altri funzionari sostengono che la situazione può essere salvata. “C’è una crisi grave e dobbiamo affrontarla rapidamente“, ha detto un alto funzionario che ha esperienza del dossier turco.

L’esercitazione prevedeva la partecipazione di equipaggi provenienti da Italia, Paesi Bassi, Stati Uniti e altri paesi della NATO. Ma a differenza delle preparazioni con gli altri partecipanti, i turchi hanno portato in stallo i colloqui iniziali  con i loro omologhi israeliani. La settimana scorsa, funzionari militari turchi hanno sorpreso le Forze di Difesa israeliane con la notizia che stavano cancellando la partecipazione d’Israele all’esercitazione, a causa delle attività del paese nella Striscia di Gaza.

Gli sforzi di Israele per ottenere una risposta dal ministro degli esteri turco, sono stati accolti evasivamente. Israele ha poi contattato Stati Uniti, Italia e Paesi Bassi sulla questione, questi paesi hanno annunciato che non avrebbero preso parte alla esercitazione. Alti funzionari del ministero degli Esteri dicono che questa è una mossa insolita da parte dei turchi, perché, nonostante le tensioni e la retorica anti-Israele di Erdogan, è il primo vero passo che rompe l’accordo tripartito tra Israele, Stati Uniti e la Turchia.
I funzionari israeliani dicono che, per quanto a loro conoscenza, il passo dei militari turchi deriva da ordini diretti di Erdogan, che ha inasprito la retorica anti-israeliana, dopo l’offensiva su Gaza, e che ha anche portato al congelamento dei negoziati tra Siria e Israele con la mediazione della Turchia. Gli analisti dicono che il cambiamento fondamentale nella posizione della Turchia è data dai militari, che hanno accettato le direttive politiche del primo ministro su una questione di strategia della difesa.

Erdogan ha accusato Israele di aver commesso, nella Striscia di Gaza, ciò che definisce un genocidio e ha detto all’allora Primo Ministro, Ehud Olmert, di averlo tradito. Erdogan ha anche affrontato il presidente Shimon Peres a Davos, a gennaio e ha insistito sul fatto che Israele deve essere processato per crimini di guerra. Il leader turco ha anche chiesto che le sanzioni contro l’Iran siano tolte, ed ha invitato la comunità internazionale a concentrarsi, invece, sulle capacità nucleari di Israele.

Traduzione di Alessandro Lattanzio
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La Russia deve prepararsi alla sconfitta della NATO in Afghanistan

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Fonte: Global ResearchDeutsche Press Agentur – 2009/10/13

Bruxelles/Parigi: Le discussioni, a una conferenza a Parigi, sul futuro dell’Afghanistan, gestite dal think tank East-West Institute, ‘hanno solo ulteriormente rafforzato l’impressione dell’incombente capitolazione della NATO in Afghanistan‘, ha scritto Dmitry Rogozin in un feed Twitter sulla riunione. ‘La Russia e i suoi partner dell’Asia centrale dovrebbero essere pronti a un tale drammatico scenario’.

La NATO ha attualmente circa 67.700 soldati in Afghanistan, che operano sotto il mandato delle Nazioni Unite, nel tentativo di stabilizzare il paese. La Russia appoggia la missione, permettendo che alcuni rifornimenti della NATO passino attraverso il suo territorio, e collabora con la NATO nella lotta contro il traffico di droga afgano. Tuttavia, finora ha escluso ogni partecipazione militare nel paese.

I leader della NATO insistono sul fatto che l’Alleanza resterà in Afghanistan per tutto il tempo necessario per consolidare il governo del paese e all’esercito di controllare il proprio paese. Ma la missione è bloccata dall’aspra battaglia con i taliban. Il sostegno pubblico nei paesi della NATO sta diminuendo, e stanno crescendo i dubbi sulle credenziali democratiche del governo di Kabul, dati i rapporti sui brogli di massa nelle elezioni di agosto.

Rogozin, ex capo del partito nazionalista della Russia ‘Patria’, è stato nominato ambasciatore alla NATO nel gennaio 2008. S’è rapidamente fatto un nome, per essere apertamente critico verso alcune politiche dell’Alleanza, in particolare il desiderio di incorporare stati ex-sovietici come la Georgia e l’Ucraina.

La NATO dovrebbe accettare solo il presidente della Georgia Mikheil Saakashvili, se erano disposti ad accettare anche Hitler e Saddam Hussein, ha detto Rogozin al culmine della guerra della Russia in Georgia, nell’agosto 2008.

Lunedì ha accusato la NATO di far finta di non accorgersi di un rapporto commissionato dall’Unione europea, che afferma che sia la Georgia che la Russia hanno violato il diritto internazionale nella loro guerra. ‘Per me, questa è l’ennesima prova che la Russia aveva ragione e la NATO ha sbagliato’, ha scritto su Twitter. Solleverà la questione in una riunione degli ambasciatori della NATO di Mercoledì, ha detto.

Traduzione di Alessandro Lattanzio
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L’ipocrita ingerenza del FMI e della Banca mondiale nella Repubblica democratica del Cong

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Fonte: Voltaire, édition internationale

L’11 agosto 2009 la segretaria di Stato USA Hillary Clinton si era recata nella Repubblica democratica del Congo per esigere l’annullamento del mega-contratto firmato tra Kinshasa e Pechino. Il FMI ha riportato una nuova vittoria al termine della sua ultima missione nella Repubblica democratica del Congo (RDC) ottenendo la revisione del famoso contratto cinese concluso nel 2007. La soppressione in quel contratto della garanzia dello Stato congolese riporta così il controverso prestito della Cina da 9 a 6 miliardi di dollari. Tale convenzione, a torto definita « contratto del secolo », prevedeva inizialmente 6 miliardi di investimenti nello sviluppo di infrastrutture e 3 miliardi di dollari per il settore minerario. Il FMI ha dunque vinto il braccio di ferro contro la Cina ma, soprattutto, conserva il predominio sulla politica economica della RDC.

Questa nuova ingerenza del FMI negli affair interni della RDC dimostra una volta di più tutta l’ipocrisia delle potenze occidentali che utilizzano le istituzioni finanziarie internazionali per saccheggiare le risorse naturali appartenenti ai Congolesi. In effetti, nel momento delle trattative per la revisione del contratto cinese, la Banca mondiale, spalleggiata dall’ambasciatrice del Canada e da Hillary Clinton di passaggio a Kinshasa, faceva pressione sul governo congolese per farlo ritornare sulla sua decisione di rescindere la « compartecipazione » KMT (Kingamyambo Musonoi Tailings) conclusa illegalmente tra l’impresa canadese First Quantum, lo Stato congolese, l’impresa pubblica congolese Gécamines, la sudafricana Industrial Development Corporation e la SFI (Società finanziaria internazionale) la quale non è altro che la filiale della Banca mondiale incaricata di appoggiare il settore privato… E’inevitabile dunque constatare che i contratti leonini non sono più un problema per le istituzioni finanziarie internazionali quando sono in gioco gli interessi delle potenze occidentali !

Non vi è alcun dubbio che il contratto cinese sia una nuova offensive del gigante asiatico per accaparrarsi le risorse minerarie del continente nero e che esso genererà un nuovo debito per la RDC. Ufficialmente, è questo rischio di super-indebitamento che ha spinto il FMI ad intervenire in quella convenzione bilaterale. Praticando un ricatto inaccettabile, alla fine ha raggiunto i suoi scopi, mantenendo così la sua tutela sulla RDC. Il ricatto è stato duplice : senza revisione del contratto, la RDC avrebbe potuto mettere una croce sopra un nuovo accordo triennale con il FMI nonché su un alleggerimento del suo debito…atteso dal  2003 !

Ora, quel debito che lo Stato congolese continua a rimborsare malgrado la crisi economica mondiale è un debito « odioso », poiché una larghissima parte di esso è stata contratta dal dittatore Mobutu con la complicità dei creditori occidentali, specialmente del FMI e della Banca mondiale. Per fondare la nullità di quel debito che non ha alcun valore legale, i poteri pubblici dovrebbero procedere immediatamente all’audit di esso al fine di rilevarne la parte illegittima : quella che non ha giovato alla popolazione. Ogni anno, la servitù del debito accaparra circa 500 milioni di dollari, quasi tre volte gli aiuti urgenti concessi dal FMI lo scorso marzo.

La RDC non è un caso isolato. Nell’insieme dei paesi in via di sviluppo, il rimborso dei debiti illegittimi alle condizioni dettate dai finanziatori internazionali costituisce un ostacolo alla soddisfazione dei bisogni umani fondamentali, nonché una manifesta violazione del diritto dei popoli a disporre di se stessi e specialmente delle loro risorse naturali. Per questo, l’emancipazione delle popolazioni del Sud passerà necessariamente attraverso l’annullamento incondizionato del debito del terzo mondo  e la netta rottura degli accordo con le IFI. In effetti, i paesi in via di sviluppo non hanno niente da aspettarsi da queste due istituzioni incapaci di affrancarsi dal credo neoliberale responsabile, dopo la crisi del debito del 1982, della pauperizzazione di miliardi di individui. Ricordiamo inoltre che tali istituzioni si sono rese complici di gravi violazioni dei diritti umani sostenendo finanziariamente delle dittature come quelle di Mobutu e l’apartheid in Sudafrica. La Banca mondiale ed il FMI devono dunque imperativamente rendere i conti di fronte alla giustizia ed essere sostituiti da nuove organizzazioni internazionali democratiche e rispettose dei diritti umani fondamentali.

8 ottobre 2009

Gli autori:

Renaud Vivien, membro del Comitato per l’annullamento del debito del terzo mondo (CADTM).

Yvonne Ngoyi, membro del Comitato per l’annullamento del debito del terzo mondo (CADTM).

Victor Nzuzi, agricoltore, coordinatore del GRAPR et NAD Kinshasa (RDC).

Dani Ndombele, membro del Comitato per l’annullamento del debito del terzo mondo (CADTM).

José Mukadi, membro del Comitato per l’annullamento del debito del terzo mondo (CADTM).

Luc Mukendi, coordinatore d’AMSEL /CADTM Lubumbashi (RDC).

Questa tribuna libera è stata inizialmente pubblicata da La Libre Belgique (edizione del 7 ottobre 2009)

Traduzione in italiano eseguita da Belgicus

Crocevia Pericoloso: gli USA espandono la NATO asiatica contro la Cina e la Russia

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Fonte: Global Research, 17 ottobre 2009 Stop NATO

Il 12 ottobre gli Stati Uniti e l’India hanno lanciato una esercitazione militare di diciotto giorni, nome in codice Yudh Abhyas (studio di guerra), nello stato indiano dell’Uttar Pradesh. Descritta come “uno delle più grandi esercitazioni congiunte da combattimento terrestre” [1], l’esercitazione “coinvolge il Battaglione di fanteria motorizzata dell’esercito indiano e la 2a Squadriglia del 14° CAV del 25.mo Stryker Brigade Combat Team, composto da circa 320 militari statunitensi.” [2]

L’impiego dei veicoli da combattimento blindati Stryker per le esercitazioni, segna la prima volta in cui siano state utilizzate all’estero, da quando sono stati introdotti in Iraq, nel 2003, e inviati in Afghanistan, all’inizio di quest’anno. Una settimana prima dell’esercitazione, il Pentagono ha riferito che “l’esercito sta pianificando di implementare 17 dei suoi veicoli da combattimento Stryker, questo mese, in India, per la prima esercitazione del genere nel paese. Questo è anche il più grande spiegamento di Strykers, al di fuori di quelli inviati in Iraq e in Afghanistan“.[3]

Lungi dall’essere un caso isolato, l’operazione congiunta USA-indiana è emblematica della cooperazione militare senza precedenti tra le due nazioni nucleari, nel corso degli ultimi anni, in realtà un partenariato strategico militare, i cui scopi principali sono soppiantare la Russia, da decenni principale alleato militare e fornitore di armi della India, e consolidare un blocco militare nella regione Asia-Pacifico volto al contenimento della Cina e a favorire l’accerchiamento di entrambe questa nazioni.

Un comunicato del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti sull’esercitazione attualmente in corso, ha osservato che a “più di due anni dalla programmazione, [ciò] si compie dopo che il Dipartimento della Difesa ha continuato a sollecitare l’India ad aumentare la loro collaborazione militare. Il comandante del Marina nel Pacifico, Amm. Timothy J. Keating, il mese scorso ha viaggiato in India e ha detto che i responsabili si sono impegnati ad aumentare i rapporti militari con gli Stati Uniti.” [4]

Mentre le esercitazioni hanno un indirizzo immediato modesto – apparentemente tecniche contro-insurrezione e anti-terrorismo – “Centinaia di soldati, utilizzando aerei da trasporto pesante e carri armati, stanno partecipando alle più grandi in assoluto esercitazioni militari tra i due paesi, che si trovavano su lati opposti nella Guerra fredda, ma ora cercano di costruire legami strategici e militari. Con un alleato nell’India, Washington cerca anche di tenere d’occhio l’esercito cinese in crescente mobilità e forza militare, nella zona.” [5] Inoltre, una fonte della stampa indiana ha riferito che “durante Yudh Abhyas, vi sarà anche un’altra esercitazione, nominata Cope India-09, tra le forze aeree dei due paesi, che avrà inizio ad Agra, il 19 ottobre.” [6]

Il Times of India del 24 settembre, riferisce che l’annuale esercitazione militare cino-indiana che si tiene ogni dicembre, dal 2007, “per costruire maggiore mutua fiducia“, per il 2009 è stata annullata.

La progressione della sostituzione della Russia, come primo alleato militare dell’India, nel contesto dei piani del Pentagono per una NATO dell’Asia-Pacifico, è stato di recente approfondito da Voice of America: “Per decenni, l’India dipendeva in gran parte, prima dall’Unione Sovietica e poi dalla Russia, per le sue forniture militari. Ma, una volta terminata la guerra fredda ed iniziarono a migliorare le relazioni dell’India con gli Stati Uniti, durante la presidenza di Bill Clinton, New Delhi ha progressivamente aumentato la sua cooperazione militare con Washington… Oggi, oltre a tenere esercitazioni militari congiunte con le forze armate degli Stati Uniti, l’India sta anche acquistando armamenti degli Stati Uniti, per miliardi di dollari.”

Lo stesso articolo ha citato l’ambasciatore indiano negli Stati Uniti, Meera Shankar: “Le nostre forze armate, una volta avuta mutua familiarità, potranno tenere dialoghi regolari ed esercitazioni congiunte in aria, terra e mare… i nostri scambi nella difesa erano trascurabili, un decennio fa. Abbiamo fatto ordini per un valore di 3,5 miliardi dollari, lo scorso anno, e potrebbero crescere ancora di più in futuro.” [7]

La crescita della gamma completa (full spectrum) – terra, aria e mare – nella collaborazione militare tra gli Stati Uniti e l’India, è in parte legata alla escalation della guerra dell’America e della NATO in Asia del Sud: Afghanistan e Pakistan, vicini dell’India. Il 13 ottobre, il Washington Post ha rivelato che la Casa Bianca invierà 13.000 soldati di supporto, che si uniranno ad ulteriori 21.000 unità di combattimento, che già o presto, saranno dispiegati quest’anno, e la BBC ha annunciato, il giorno dopo, che “l’amministrazione Obama aveva già detto che il governo britannico avrebbe presto annunciato un aumento sostanziale delle sue forze militari in Afghanistan“, da confermare ufficialmente la prossima settimana, in una riunione dei capi della difesa della NATO, nella capitale della Slovacchia. [8] Il 15 ottobre, il comandante regionale della NATO nella provincia di Helmand e nelle zone adiacenti, nel sud dell’Afghanistan, il generale Mart de Kruif, ha detto che “abbiamo bisogno di almeno due brigate aggiuntive alle forze della coalizione, qualcosa come 10.000 o 15.000 soldati.” [9] Il Comitato militare della NATO, l’autorità militare ad alto livello in seno all’Alleanza, ha appena completato un giro di ispezione in Afghanistan. “Ad attenderli c’erano i rappresentanti militari di tutti i 28 Stati membri della NATO, nonché rappresentanti militari di 14 nazioni non aderenti alla NATO, che contribuiscono alle forze dell’ISAF.” [10]

All’India è stato assegnato un ruolo da svolgere nella “stabilizzazione” del subcontinente, con l’Afghanistan e il Pakistan che sono stati gettati in guerra e nel caos, da quando gli Stati Uniti e la NATO hanno invaso la prima nazione, il 7 ottobre 2001. Ma l’asse New Delhi-Washington è carico di nuovi disegni e programmi, anche più grandi e pericolosi, potenzialmente catastrofici.

Con il North Atlantic Treaty Organization in espansione in Europa orientale – praticamente tutta l’Europa orientale – nel corso degli ultimi dieci anni, e il potenziamento dei suo contatti militari e le implementazioni tramite i vari accordi di partenariato, (Partenariato per la Pace, del Dialogo Mediterraneo, Istanbul Cooperation Initiative, Contatto Paesi, trilaterale Afghanistan-Pakistan-NATO Commissione militare), la sola l’alleanza militare del  mondo si estende sui cinque i continenti, Medio Oriente e Pacifico meridionale, effettivamente prendendo in consegna gli altri blocchi militari della Guerra Fredda, come il Central Treaty Organization (CENTO), il South-East Asia Treaty Organization (SEATO) e il Trattato per la sicurezza di Australia, Nuova Zelanda e  Stati Uniti (ANZUS), costituendo pertanto la prima internazionale alleanza militare della storia.

Le quattro nazioni identificate dalla NATO come paesi di contatto – Australia, Giappone, Nuova Zelanda e Corea del Sud – sono tutti nella zona Asia-Pacifico e, in varia misura, hanno contribuito con truppe e supporto navale alla guerra degli USA della NATO in Afghanistan. Iniziative come la Proliferation Security Initiative [11] degli USA, per la sorveglianza navale e le operazioni di interdizione, iniziò nel ed è ancora focalizzata principalmente in Asia, e il programma di scudo anti-missile globale [12], integrerà sia i principali Stati membri della NATO che gli emergenti candidati asiatici alla NATO.

L’India come una potenza nucleare e seconda nazione più popolosa al mondo, che confina con la Cina e ha storici legami strategici con la Russia, è cruciale nel disegno di tutto il mondo occidentale per stabilire la sua superiorità militare, in modo che, nelle parole di un analista indiano di diversi anni fa, gli Stati Uniti siano in grado di completare la loro visione per il predominio su ogni settore del mondo, con questo stratagemma: Avere i più stretti rapporti statali con ogni nazione del mondo, più stretti di quelle di tutte le altre nazioni con qualsiasi altra nazione, anche se Stati confinanti.

Proprio come nel 1978, quando gli ex rivali, Egitto e Israele, si riconciliarono unilateralmente grazie agli Stati Uniti, che non è affatto vicino al Medio Oriente, così ora ogni paese, nel mondo, che è in una situazione di conflitto – dal Sud Asia al Caucaso, dall’Africa ai Balcani – deve passare attraverso Washington e Bruxelles per risolvere le proprie divergenze. Tale ruolo, come tanti altri, è stato devoluto dalle Nazioni Unite agli Stati Uniti e alla NATO.

La strategia militare degli Stati Uniti e, in generale, occidentale in Asia, non è limitata all’India, tuttavia essa ha un ruolo preminente nei piani dell’Occidente. L’Australia, che all’inizio di quest’anno ha pubblicato un Libro Bianco della Difesa [13], dove annuncia la sua più grande acquisizione di armi e di piani per arrogarsi il ruolo di potenza militare regionale, sta “spingendo per ricostruire i legami della difesa con l’India, rischiando le ire potenziali della Cina, chiedendo formalmente che all’Australia sia consentito partecipare alla annuale esercitazione navale congiunta India-Usa, Malabar.” [14] L’esercitazione navale Malabar è parte integrante del piano degli Stati Uniti che prevede di integrare l’India nella sua rete militare asiatica e globale. Una fonte indiana riporta le seguenti informazioni in relazione all’esercitazionee di quest’anno: “L’esercitazione della serie Malabar si svolgerà, [nell’aprile 2009] al largo della costa giapponese, in cui le navi da guerra indiane effettueranno manovre in formazione di guerra a fianco delle navi da guerra della Marina statunitense e della giapponese Maritime Self-Defence Force. “L’esercitazione Malabar, che era iniziata come un’esercitazione bilaterale nel 1992 con gli americani, negli ultimi anni ha assunto un carattere multi-nazionale, con una maggiore partecipazione da parte degli alleati degli Stati Uniti, e che ha portato la Cina a notarle e ad osservarle. “L’ultima esercitazione trilaterale Malabar, con India, Stati Uniti e Giappone, si è tenuta all’inizio del 2007, al largo delle coste giapponesi. Nella parte successiva di quello stesso anno, l’India si è iscritta alla 25.ma esercitazione navale multilaterale Malabar, che coinvolge anche le marine di Singapore e Australia, oltre a quelle degli Stati Uniti e del Giappone, nel golfo del Bengala.” [15]

L’intenzione dell’Australia di partecipare alle prossimi esercitazioni Malabar – “un’esercitazione ovviamente destinata, da parte degli Stati Uniti, ad avvolgere la forza militare strategica della Cina” – segue anche “la scia del controverso libro bianco della difesa del governo del Primo Ministro [Kevin] Rudd, che ha chiesto un aumento delle capacità navali e sembrava suggerire che la strategia della difesa australiana, per i prossimi decenni, potrebbe essere plasmata dall’espansione militare della Cina.” [16] Durante la recente visita nella nazione, il  ministro degli Esteri australiano Stephen Smith ha invitato l’India a partecipare alle esercitazioni multilaterali ospitate dall’Australian Defence Force, a Kakadu e Pitch Black”. [17]

L’India confina con la Cina, come con molti altri paesi, in cui gli Stati Uniti e i suoi alleati della NATO stazionano truppe. e dove conducono o condurranno regolarmente esercitazioni militari, tra cui Afghanistan e Pakistan. Il Comando del Pacifico del Pentagono ha tenuto l’operazione militare congiunta annuale Khaan Quest, in Mongolia, che confina con Cina e Russia. Nel mese di luglio, la Mongolia ha annunciato che riforniva le truppe della NATO nela guerra in Afghanistan, con un rapporto americano notizia che affermava: “il paese prevede di inviare truppe in Afghanistan, in una collaborazione che nasce dalla sua politica del ‘prossimo terzo’, di cercare alleati diversi dalla Cina e la Russia“, e “la partecipazione della Mongolia in Iraq e in Afghanistan, ha contribuito a cementare la sua alleanza con gli Stati Uniti e garantirsi sicurezza ed aiuti.” [18]

Il mese scorso la NATO ha condotto una esercitazione per la protezione civile con una ventina di nazioni, Zhetysu 2009, in Kazakhstan, anch’esso confinante con Cina e Russia. Il presidente francese Nicolas Sarkozy si è appena assicurato i diritti di transito nel paese, per le forze militari del suo paese.

Il 27 settembre la stampa cinese ha riferito in merito a un esercitazione militare multinazionale che verrà condotta in Cambogia, una nazione allontanata dalla Cina, il prossimo anno: “Oltre 2.000 militari sono destinati al primo evento nel paese e proverranno da oltre 20 paesi, di cui 1.500 dagli Stati Uniti. [D]urante una visita di quattro giorni a Washington DC, Tea Banh, Vice Primo Ministro e Ministro della Difesa Nazionale della Cambogia, ha incontrato il vicesegretario di Stato, James Steinberg, con cui ha discusso della cooperazione per la sicurezza tra gli Stati Uniti e la Cambogia.” [19]

Il 14 ottobre delle relazioni hanno fatto emergere l’attuazione, da parte di  Taiwan, del suo “più grande… test missilistico, lanciato da una base segreta e ben custodita nel sud di Taiwan“. Il rapporto ha anche detto che i missili erano “in grado di raggiungere le maggiori città cinesi.” [20] Con il presidente Ma Ying-jeou che osservava, “l’esercitazione includeva prove di tiro di un missile superficie-superficie a medio raggio, top secret e sviluppato di recente, con una gittata di 3.000 chilometri, in grado di colpire le città più importanti della Cina centrale, settentrionale e meridionale“. [21]

Notizie del giorno successivo hanno riferito che il ministero della Difesa della Corea del Sud “prevede di dotare la Marina di navi da 7.600 tonnellate della classe Aegis, tra cui una della Classe King Sejong, con il nuovissimo tipo di missili di fabbricazione americana, SM-6” e che “al fine di garantire un uso corretto dei missili SM-6 [Extended Range Active], la Marina della Corea del Sud sarà naturalmente legata al sistema di difesa missilistica degli Stati Uniti, ritenendo che essa avrà bisogno dell’appoggio di alcuni dispositivi di ricognizione e di intelligence, compresi i satelliti spia e i radar del sistema MD [difesa anti-missile] degli USA“. [22]

Ogni anno il Pentagono conduce l’esercitazione multinazionale ‘Cobra Gold’ in Thailandia. Quest’anno le forze armate del paese ospitante, degli Stati Uniti, Giappone, Singapore e Indonesia sono state coinvolte, e molte altre nazioni “parteciperanno a diversi ruoli, durante l’esercitazione“: Australia, Brunei, Francia, Italia, Gran Bretagna, Bangladesh, India, le Filippine, la Repubblica Popolare di Cambogia, Cina, Canada, Germania, Corea del Sud, Laos, Nepal, Pakistan, Vietnam e Mongolia. [23]

Ad eccezione della Cina, l’elenco di opra è una rappresentazione fedele di un asse NATO – NATO asiatica in formazione. Il 14 ottobre la USS Bonhomme Richard, nave d’assalto anfibio, è arrivata a Timor Est per “la prima esercitazione militare congiunta di quest’ultimo con gli Stati Uniti” ed è stato riferito che “le manovre con 2.500 soldati delle forze degli Usa e dell’Australia, dureranno fino al 24 ottobre.” [24] L’ambasciatore americano presso la nuova nazione, Hans Klem, ha detto che le esercitazioni si concentreranno sul tema “Addestramento nella giungla, urbana, della fanteria [e] e sbarchi su spiaggie…” [25] La penetrazione militare del Pentagono in Asia e lo sconfinamento in Cina, coordinato a ogni passo con gli alleati di Washington della NATO, è parte di una campagna internazionale per ottenere la presenza militare e il dominio su ogni longitudine e latitudine. Il continente europeo è stato assorbito quasi completamente nella NATO.

Il nuovo Africa Command degli USA, ha recentemente completato una esercitazione militare con 25 nazioni in Gabon, e inizierà presto manovre multinazionali in Uganda. La guerra in Afghanistan ha recentemente fornito agli Stati Uniti e alla NATO, nuove basi e diritti di transito militare nei paesi dell’Asia centrale, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Turkmenistan e Uzbekistan. “Gli Stati Uniti hanno garantito il ‘transito letale’ con l’Uzbekistan e il Kazakistan… Sia il Ministero della Difesa del Kirghizistan che l’ambasciata americana a Bishkek hanno confermato, in precedenza, che il Manas Transit Center agevolerà la spedizione di merci militari in Afghanistan… e il transito delle forniture in Afghanistan attraverso il Turkmenistan, ‘è possibile’…” [26]

Dei tre paesi del Caucaso meridionale, la Georgia e l’Azerbaigian sono veri e propri avamposti militari del Pentagono e della NATO alle frontiere della Russia e l’Armenia ha appena annunciato che potrebbe inviare truppe in Afghanistan, a servire sotto comando NATO. Washington ha recentemente ottenuto l’uso di sette nuove basi militari in Colombia, e ha annunciato piani simili per le due basi navali a Panama, due anni dopo la riattivazione dell’US Naval Forces Southern Command. Anche le aree disabitate del mondo (e la loro energia e altre risorse) non sono al di là del Pentagono e delle competenze della NATO. Il 9 ottobre, il più alto comandante militare del Comando europeo degli Stati Uniti e la NATO, l’ammiraglio James Stavridis, “mette in guardia su un conflitto con la Russia nel Circolo Polare Artico” come ha riferito il Times di Londra.

La scorsa settimana uno scrittore indiano ha offerto questa prospettiva sintetica: “L’arco di accerchiamento della Russia viene rafforzato. I legami NATO facilitano l’installazione del sistema di difesa antimissile degli Stati Uniti in Georgia. Gli Stati Uniti hanno per scopo avere una catena di paesi legati alla ‘collaborazione’ con la NATO, che ha portato nel suo sistema di difesa missilistica – che si estende dai suo alleati nel Baltico a quelli dell’Europa centrale. L’obiettivo ultimo di tutto questo è neutralizzare la capacità strategica di Russia e Cina, e stabilire la propria superiorità nucleare. Il documento della strategia di difesa nazionale, rilasciato dal Pentagono del 31 luglio 2008, ritrae la percezione di Washington di una risorgente Russia e una Cina in ascesa come potenziali avversari.” [27] L’analista non esagera.

Nel febbraio 2008, un rapporto della Reuters diceva che: “Gli Stati Uniti sono preoccupati che Russia, Cina e i paesi produttori petrolio dell’OPEC possano utilizzare il loro crescente peso finanziario per promuovere obiettivi politici, ha detto il capo delle spie degli Stati Uniti davanti al Congresso…” Il Direttore Nazionale dell’Intelligence, Michael McConnell, ha detto al Senate Intelligence Committee che aveva “preoccupazioni circa le capacità finanziarie della Russia, della Cina e dei paesi OPEC.” Le sue preoccupazioni, tuttavia, ha suggerito questioni militari piuttosto che economiche e commerciali. Una sintesi della sua testimonianza aveva poco da dire dell’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio e molto della Russia e della Cina. “La Russia, sostenuta in parte dalle entrate petrolifere, sta posizionandosi a controllare gli approvvigionamenti energetici e la rete di distribuzione dell’Europa orientale, e l’esercito russo ha cominciato a invertire il suo lungo declino…. La Cina ha perseguito una politica di impegno globale col desiderio di espandere la sua economia in crescita e di ottenere l’accesso ai mercati, alle risorse, alla tecnologia e al know-how.” [28] Poco dopo la Russia “ha chiesto una spiegazione all’America sulla relazione del direttore nazionale dei servizi segreti statunitensi, in cui Russia, Cina, Iraq, Iran, Corea del Nord e al-Qaida sono descritti come fonti della minaccia strategica per gli Stati Uniti, ha detto all’ITAR-TASS una fonte vicina al Cremlino.” [29] Cosi è, la Russia e la Cina effettivamente sono state aggiunte al famigerato “asse del male“, tirato fuori dall’ex presidente George W. Bush, nel gennaio del 2002.

La partenza di Bush dalla Casa Bianca e l’arrivo del suo successore non hanno cambiato nulla, tranne che le cose sono andate progressivamente a peggiorare. Un articolo dell’Associated Press del 1 maggio 2009 diceva che “L’amministrazione Obama sta lavorando per migliorare le deteriorate relazioni degli Stati Uniti con una serie di nazioni latino-americane, per contrastare la crescente influenza iraniana, cinese e russa nell’emisfero occidentale, ha detto il Segretario di Stato Hillary Rodham Clinton…[30] Nell’ultima relazione quadriennale del National Intelligence Strategy, del mese scorso, il Direttore della National Intelligence degli USA, Dennis Blair ha affermato ” Russia, Cina, Iran e Corea del Nord rappresentano le maggiori sfide agli ‘interessi nazionali’ degli Stati Uniti.”[31]  Cina e Russia hanno sostituito il soggiogato Iraq nei ranghi dell’”asse del male“, assieme ai rimanenti membri Iran e Corea del Nord. La relazione di Blair ha affermato che la Russia “può continuare a cercare strade per riaffermare il potere e l’influenza, in modo da intralciare gli interessi degli Stati Uniti.” Un paragrafo del documento afferma “la Cina, che commercia regolarmente con gli Stati Uniti e possiede miliardi del suo debito nazionale“, e “Pechino compete per le stesse risorse di cui gli Stati Uniti hanno bisogno, ed è nel pieno processo della rapida modernizzazione militare.” [32]

Nel 2006, un articolo apparso su Foreign Affairs, la rivista di New York del Council on Foreign Relations, intitolato “The Rise of US Nuclear Primacy“, i coautori Keir A. Lieber e Daryl G. Press, hanno esplorato in maniera aperta come gli Stati Uniti potrebbero trattare con i suoi “challenger” cinese e russo.

Come il titolo del pezzo indica, l’accento è posto sulle armi nucleari e la superiorità americana rispetto a loro. La sua tesi di fondo si riassume in questo paragrafo: “Per quattro decenni, le relazioni tra le maggiori potenze nucleari sono state modellate dalla loro vulnerabilità comune, una condizione nota come mutua distruzione assicurata. Ma con l’arsenale USA in rapida crescita, assieme al decadimento della Russia e le ridotte dimensioni di quello della Cina, l’era MAD stava terminando – e l’era della supremazia nucleare degli Stati Uniti incominciava.” [33] Tale valutazione portava inevitabilmente alla conclusione che “probabilmente presto sarà possibile per gli Stati Uniti distruggere gli arsenali nucleari a lungo raggio della Russia o della Cina, con un primo colpo“. Gli autori esaminavano con distaccato sangue freddo i progressi comparativi in ciascuno dei sistemi di lancio della triade di armi nucleari degli Stati Uniti – missili a terra, aerei e sottomarini – e come in tutti e tre i casi, Washington potesse egualmente avviare primi attacchi paralizzanti alla Cina e alla Russia. Per esempio, si affermava che “l’US Air Force ha finito di dotare i suoi bombardieri B-52 dei missili nucleari da crociera, che sono probabilmente invisibili ai radar della difesa aerea di Russia e Cina. E l’Air Force ha inoltre migliorato l’avionica dei suoi bombardieri stealth B-2, per consentire loro di volare ad altitudini estremamente basse, al fine di evitare anche i radar più sofisticati“. E fanno l’elenco delle vulnerabilità delle due nazioni in modo quasi divertito: “L’arsenale nucleare della Russia più si restringe, più facile sarà per gli Stati Uniti procedere ad un primo colpo. Il vero piano di guerra degli Stati Uniti può chiedere prima il targeting dei centri di comando e controllo della Russia, sabotando le stazioni radar della Russia, o l’adozione di altre misure preventive – che renderebbero la forza effettiva degli Stati Uniti di gran lunga più letale di quanto il nostro modello presuppone. “Secondo il nostro modello, con un attacco a sorpresa semplificato, si avrebbero buone possibilità di distruggere tutte le basi russe di bombardieri, sottomarini e ICBM. L’arsenale nucleare della Cina è ancora più vulnerabile ad un attacco degli Stati Uniti. Un primo attacco Usa potrebbe avere successo se è lanciato con sorpresa o nel bel mezzo di una crisi, durante un allerta cinese. La Cina ha un limitato arsenale nucleare strategico. Secondo le valutazioni non classificate del governo americano, l’intero arsenale nucleare intercontinentali della Cina è composto da 18 ICBM fissi a testata singola.

Per confermare che il loro studio è indicativo non solo della loro convinzione, gli autori aggiungono che “I miglioramenti apportati all’arsenale nucleare degli Stati Uniti offrono la prova che gli Stati Uniti stanno attivamente cercando il primato … L’attuale e futura forza nucleare Usa, in altre parole, sembra progettata per effettuare un attacco preventivo contro le disarmante Russia e Cina. La ricerca intenzionale della supremazia nucleare è, del resto, del tutto coerente con la dichiarata politica di espansione gli Stati Uniti della propria posizione dominante a livello mondiale.”

In considerazione di ciò che si è sviluppato nel frattempo, dalla sua pubblicazione, l’articolo prevede la verità nuda sulla cosiddetta difesa missilistica, affermando: “il tipo di difesa missilistica che gli Stati Uniti potrebbero plausibilmente sviluppare sarebbe utile soprattutto in un contesto offensivo, non uno difensivo – come complemento ad una prima capacità di attacco americano, non come un singolo scudo. Se gli Stati Uniti lanciassero un attacco nucleare contro la Russia (o la Cina), al Paese bersaglio sarebbe rimasto un piccolo arsenale superstite – se non del tutto. A quel punto, anche un relativamente modesto o inefficiente sistema di difesa anti-missile potrebbe essere sufficiente per la protezione contro eventuali attacchi di rappresaglia, perché il nemico devastato avrebbe così, poche testate e sistemi d’inganno.”

Il pezzo si conclude nel riconoscere che con la fine del Patto di Varsavia, e di qualsiasi pretesa che le armi nucleari americane e della NATO sarebbero necessarie contro un grande attacco militare convenzionale, e che erano senza più alcun scopo ulteriori iniziative come la Strategic Defense Iniziative di Ronald Reagan, per costringere gli avversari a esaurirsi in una fallimentare corsa agli armamenti strategica, “Washington continuò a rifiutarsi dall’astenersi dal primo colpo e dallo sviluppare una limitata capacità di difesa anti-missile del paese, assumendo così un nuovo aspetto, forse più minaccioso. La conclusione più logica da fare era che la capacità di condurre una guerra nucleare resta una componente fondamentale della dottrina militare degli Stati Uniti, e che la supremazia nucleare rimane un obiettivo degli Stati Uniti“.

Per quante parole come concorrenza e sfide siano fatte nei discorsi dai politici degli Stati Uniti e degli altri occidentali, quando si riferiscono a questioni interne, la Casa Bianca e il Pentagono non tollereranno concorrenze serie e non consentiranno alcuna sfida alla loro corsa al dominio militare, politico ed economico mondiale. Quando tutto il resto fallisce, persino prima ancora, l’ultima ratio di Washington consiste nel suo arsenale nucleare e nei suoi sistemi di lancio.

Note

1) Indo-Asian News Agency, October 12, 2009

2) Russian Information Agency Novosti, October 12, 2009

3) US Department of Defense, American Forces Press Service, October 6, 2009

4) Ibid

5) Reuters, October 12, 2009

6) Indo-Asian News Agency, October 12, 2009

7) Voice of America, October 8, 2009

8 ) BBC News, October 14, 2009

9) Agence France-Presse, October 15, 2009

10) NATO, October 15, 2009

11) Proliferation Security Initiative And US 1,000-Ship Navy: Control Of World’s Oceans, Prelude To War Stop NATO, January 29, 2009 http://rickrozoff.wordpress.com/2009/08/26/proliferation-security-initiative-and-us-1000-ship-navy-control-of-worlds-oceans-prelude-to-war/

12) US Accelerates First Strike Global Missile Shield System, Stop NATO, August 19, 2009 http://rickrozoff.wordpress.com/2009/09/02/us-accelerates-first-strike-global-missile-shield-system

Global Military Bloc: NATO’s Drive Into Asia Stop NATO, January 24, 2009

http://rickrozoff.wordpress.com/2009/08/26/global-military-bloc-natos-drive-into-asia

13) Australian Military Buildup And The Rise Of Asian NATO, Stop NATO, May 6, 2009 http://rickrozoff.wordpress.com/2009/08/28/australian-military-buildup-and-the-rise-of-asian-nato

14) The Australian, October 15, 2009

15) Outlook India, April 10, 2009

16) The Australian, October 15, 2009

17) Ibid

18) Reuters, July 22, 2009

19) Xinhua News Agency, September 27, 2009

20) Radio Taiwan International, October 14, 2009 20) Radio Taiwan International, 14 ottobre 2009

21) Deutsche Presse-Agentur, October 14, 2009

22) Chosun Ilbo, October 15, 2009

23) Embassy of the United States of America Bangkok, January 13, 2009

24) Deutsche Presse-Agentur, October 14, 2009

25) Ibid

26) EurasiaNet/Eurasia Insight, October 13, 2009

27) Younes Bhat, Crisis from the Balkans to Caucasus: Munich Speech to Reset Button Mainstream Weekly, October 11, 2009

28) Reuters, February 5, 2008

29) Voice of Russia, February 8, 2008

30) Associated Press, May 1, 2009

31) Radio Free Europe/Radio Liberty, September 16, 2009

32) Ibid

33) The Rise of US Nuclear Primacy, Keir A. Lieber and Daryl G. Press Foreign Affairs, March/April 2006

Rick Rozoff è un frequente collaboratore di Global Research.

Traduzione di Alessandro Lattanzio
http://www.aurora03.da.ru
http://www.bollettinoaurora.da.ru
http://sitoaurora.narod.ru
http://sitoaurora.altervista.org
http://eurasia.splinder.com

Crocevia Pericoloso: gli USA espandono la NATO asiatica contro la Cina e la Russia

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Fonte: Global Research, 17 ottobre 2009 Stop NATO

Il 12 ottobre gli Stati Uniti e l’India hanno lanciato una esercitazione militare di diciotto giorni, nome in codice Yudh Abhyas (studio di guerra), nello stato indiano dell’Uttar Pradesh. Descritta come “uno delle più grandi esercitazioni congiunte da combattimento terrestre” [1], l’esercitazione “coinvolge il Battaglione di fanteria motorizzata dell’esercito indiano e la 2a Squadriglia del 14° CAV del 25.mo Stryker Brigade Combat Team, composto da circa 320 militari statunitensi.” [2]

L’impiego dei veicoli da combattimento blindati Stryker per le esercitazioni, segna la prima volta in cui siano state utilizzate all’estero, da quando sono stati introdotti in Iraq, nel 2003, e inviati in Afghanistan, all’inizio di quest’anno. Una settimana prima dell’esercitazione, il Pentagono ha riferito che “l’esercito sta pianificando di implementare 17 dei suoi veicoli da combattimento Stryker, questo mese, in India, per la prima esercitazione del genere nel paese. Questo è anche il più grande spiegamento di Strykers, al di fuori di quelli inviati in Iraq e in Afghanistan“.[3]

Lungi dall’essere un caso isolato, l’operazione congiunta USA-indiana è emblematica della cooperazione militare senza precedenti tra le due nazioni nucleari, nel corso degli ultimi anni, in realtà un partenariato strategico militare, i cui scopi principali sono soppiantare la Russia, da decenni principale alleato militare e fornitore di armi della India, e consolidare un blocco militare nella regione Asia-Pacifico volto al contenimento della Cina e a favorire l’accerchiamento di entrambe questa nazioni.

Un comunicato del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti sull’esercitazione attualmente in corso, ha osservato che a “più di due anni dalla programmazione, [ciò] si compie dopo che il Dipartimento della Difesa ha continuato a sollecitare l’India ad aumentare la loro collaborazione militare. Il comandante del Marina nel Pacifico, Amm. Timothy J. Keating, il mese scorso ha viaggiato in India e ha detto che i responsabili si sono impegnati ad aumentare i rapporti militari con gli Stati Uniti.” [4]

Mentre le esercitazioni hanno un indirizzo immediato modesto – apparentemente tecniche contro-insurrezione e anti-terrorismo – “Centinaia di soldati, utilizzando aerei da trasporto pesante e carri armati, stanno partecipando alle più grandi in assoluto esercitazioni militari tra i due paesi, che si trovavano su lati opposti nella Guerra fredda, ma ora cercano di costruire legami strategici e militari. Con un alleato nell’India, Washington cerca anche di tenere d’occhio l’esercito cinese in crescente mobilità e forza militare, nella zona.” [5] Inoltre, una fonte della stampa indiana ha riferito che “durante Yudh Abhyas, vi sarà anche un’altra esercitazione, nominata Cope India-09, tra le forze aeree dei due paesi, che avrà inizio ad Agra, il 19 ottobre.” [6]

Il Times of India del 24 settembre, riferisce che l’annuale esercitazione militare cino-indiana che si tiene ogni dicembre, dal 2007, “per costruire maggiore mutua fiducia“, per il 2009 è stata annullata.

La progressione della sostituzione della Russia, come primo alleato militare dell’India, nel contesto dei piani del Pentagono per una NATO dell’Asia-Pacifico, è stato di recente approfondito da Voice of America: “Per decenni, l’India dipendeva in gran parte, prima dall’Unione Sovietica e poi dalla Russia, per le sue forniture militari. Ma, una volta terminata la guerra fredda ed iniziarono a migliorare le relazioni dell’India con gli Stati Uniti, durante la presidenza di Bill Clinton, New Delhi ha progressivamente aumentato la sua cooperazione militare con Washington… Oggi, oltre a tenere esercitazioni militari congiunte con le forze armate degli Stati Uniti, l’India sta anche acquistando armamenti degli Stati Uniti, per miliardi di dollari.”

Lo stesso articolo ha citato l’ambasciatore indiano negli Stati Uniti, Meera Shankar: “Le nostre forze armate, una volta avuta mutua familiarità, potranno tenere dialoghi regolari ed esercitazioni congiunte in aria, terra e mare… i nostri scambi nella difesa erano trascurabili, un decennio fa. Abbiamo fatto ordini per un valore di 3,5 miliardi dollari, lo scorso anno, e potrebbero crescere ancora di più in futuro.” [7]

La crescita della gamma completa (full spectrum) – terra, aria e mare – nella collaborazione militare tra gli Stati Uniti e l’India, è in parte legata alla escalation della guerra dell’America e della NATO in Asia del Sud: Afghanistan e Pakistan, vicini dell’India. Il 13 ottobre, il Washington Post ha rivelato che la Casa Bianca invierà 13.000 soldati di supporto, che si uniranno ad ulteriori 21.000 unità di combattimento, che già o presto, saranno dispiegati quest’anno, e la BBC ha annunciato, il giorno dopo, che “l’amministrazione Obama aveva già detto che il governo britannico avrebbe presto annunciato un aumento sostanziale delle sue forze militari in Afghanistan“, da confermare ufficialmente la prossima settimana, in una riunione dei capi della difesa della NATO, nella capitale della Slovacchia. [8] Il 15 ottobre, il comandante regionale della NATO nella provincia di Helmand e nelle zone adiacenti, nel sud dell’Afghanistan, il generale Mart de Kruif, ha detto che “abbiamo bisogno di almeno due brigate aggiuntive alle forze della coalizione, qualcosa come 10.000 o 15.000 soldati.” [9] Il Comitato militare della NATO, l’autorità militare ad alto livello in seno all’Alleanza, ha appena completato un giro di ispezione in Afghanistan. “Ad attenderli c’erano i rappresentanti militari di tutti i 28 Stati membri della NATO, nonché rappresentanti militari di 14 nazioni non aderenti alla NATO, che contribuiscono alle forze dell’ISAF.” [10]

All’India è stato assegnato un ruolo da svolgere nella “stabilizzazione” del subcontinente, con l’Afghanistan e il Pakistan che sono stati gettati in guerra e nel caos, da quando gli Stati Uniti e la NATO hanno invaso la prima nazione, il 7 ottobre 2001. Ma l’asse New Delhi-Washington è carico di nuovi disegni e programmi, anche più grandi e pericolosi, potenzialmente catastrofici.

Con il North Atlantic Treaty Organization in espansione in Europa orientale – praticamente tutta l’Europa orientale – nel corso degli ultimi dieci anni, e il potenziamento dei suo contatti militari e le implementazioni tramite i vari accordi di partenariato, (Partenariato per la Pace, del Dialogo Mediterraneo, Istanbul Cooperation Initiative, Contatto Paesi, trilaterale Afghanistan-Pakistan-NATO Commissione militare), la sola l’alleanza militare del mondo si estende sui cinque i continenti, Medio Oriente e Pacifico meridionale, effettivamente prendendo in consegna gli altri blocchi militari della Guerra Fredda, come il Central Treaty Organization (CENTO), il South-East Asia Treaty Organization (SEATO) e il Trattato per la sicurezza di Australia, Nuova Zelanda e Stati Uniti (ANZUS), costituendo pertanto la prima internazionale alleanza militare della storia.

Le quattro nazioni identificate dalla NATO come paesi di contatto – Australia, Giappone, Nuova Zelanda e Corea del Sud – sono tutti nella zona Asia-Pacifico e, in varia misura, hanno contribuito con truppe e supporto navale alla guerra degli USA della NATO in Afghanistan. Iniziative come la Proliferation Security Initiative [11] degli USA, per la sorveglianza navale e le operazioni di interdizione, iniziò nel ed è ancora focalizzata principalmente in Asia, e il programma di scudo anti-missile globale [12], integrerà sia i principali Stati membri della NATO che gli emergenti candidati asiatici alla NATO.

L’India come una potenza nucleare e seconda nazione più popolosa al mondo, che confina con la Cina e ha storici legami strategici con la Russia, è cruciale nel disegno di tutto il mondo occidentale per stabilire la sua superiorità militare, in modo che, nelle parole di un analista indiano di diversi anni fa, gli Stati Uniti siano in grado di completare la loro visione per il predominio su ogni settore del mondo, con questo stratagemma: Avere i più stretti rapporti statali con ogni nazione del mondo, più stretti di quelle di tutte le altre nazioni con qualsiasi altra nazione, anche se Stati confinanti.

Proprio come nel 1978, quando gli ex rivali, Egitto e Israele, si riconciliarono unilateralmente grazie agli Stati Uniti, che non è affatto vicino al Medio Oriente, così ora ogni paese, nel mondo, che è in una situazione di conflitto – dal Sud Asia al Caucaso, dall’Africa ai Balcani – deve passare attraverso Washington e Bruxelles per risolvere le proprie divergenze. Tale ruolo, come tanti altri, è stato devoluto dalle Nazioni Unite agli Stati Uniti e alla NATO.

La strategia militare degli Stati Uniti e, in generale, occidentale in Asia, non è limitata all’India, tuttavia essa ha un ruolo preminente nei piani dell’Occidente. L’Australia, che all’inizio di quest’anno ha pubblicato un Libro Bianco della Difesa [13], dove annuncia la sua più grande acquisizione di armi e di piani per arrogarsi il ruolo di potenza militare regionale, sta “spingendo per ricostruire i legami della difesa con l’India, rischiando le ire potenziali della Cina, chiedendo formalmente che all’Australia sia consentito partecipare alla annuale esercitazione navale congiunta India-Usa, Malabar.” [14] L’esercitazione navale Malabar è parte integrante del piano degli Stati Uniti che prevede di integrare l’India nella sua rete militare asiatica e globale. Una fonte indiana riporta le seguenti informazioni in relazione all’esercitazionee di quest’anno: “L’esercitazione della serie Malabar si svolgerà, [nell’aprile 2009] al largo della costa giapponese, in cui le navi da guerra indiane effettueranno manovre in formazione di guerra a fianco delle navi da guerra della Marina statunitense e della giapponese Maritime Self-Defence Force. “L’esercitazione Malabar, che era iniziata come un’esercitazione bilaterale nel 1992 con gli americani, negli ultimi anni ha assunto un carattere multi-nazionale, con una maggiore partecipazione da parte degli alleati degli Stati Uniti, e che ha portato la Cina a notarle e ad osservarle. “L’ultima esercitazione trilaterale Malabar, con India, Stati Uniti e Giappone, si è tenuta all’inizio del 2007, al largo delle coste giapponesi. Nella parte successiva di quello stesso anno, l’India si è iscritta alla 25.ma esercitazione navale multilaterale Malabar, che coinvolge anche le marine di Singapore e Australia, oltre a quelle degli Stati Uniti e del Giappone, nel golfo del Bengala.” [15]

L’intenzione dell’Australia di partecipare alle prossimi esercitazioni Malabar – “un’esercitazione ovviamente destinata, da parte degli Stati Uniti, ad avvolgere la forza militare strategica della Cina” – segue anche “la scia del controverso libro bianco della difesa del governo del Primo Ministro [Kevin] Rudd, che ha chiesto un aumento delle capacità navali e sembrava suggerire che la strategia della difesa australiana, per i prossimi decenni, potrebbe essere plasmata dall’espansione militare della Cina.” [16] Durante la recente visita nella nazione, il ministro degli Esteri australiano Stephen Smith ha invitato l’India a partecipare alle esercitazioni multilaterali ospitate dall’Australian Defence Force, a Kakadu e Pitch Black”. [17]

L’India confina con la Cina, come con molti altri paesi, in cui gli Stati Uniti e i suoi alleati della NATO stazionano truppe. e dove conducono o condurranno regolarmente esercitazioni militari, tra cui Afghanistan e Pakistan. Il Comando del Pacifico del Pentagono ha tenuto l’operazione militare congiunta annuale Khaan Quest, in Mongolia, che confina con Cina e Russia. Nel mese di luglio, la Mongolia ha annunciato che riforniva le truppe della NATO nela guerra in Afghanistan, con un rapporto americano notizia che affermava: “il paese prevede di inviare truppe in Afghanistan, in una collaborazione che nasce dalla sua politica del ‘prossimo terzo’, di cercare alleati diversi dalla Cina e la Russia“, e “la partecipazione della Mongolia in Iraq e in Afghanistan, ha contribuito a cementare la sua alleanza con gli Stati Uniti e garantirsi sicurezza ed aiuti.” [18]

Il mese scorso la NATO ha condotto una esercitazione per la protezione civile con una ventina di nazioni, Zhetysu 2009, in Kazakhstan, anch’esso confinante con Cina e Russia. Il presidente francese Nicolas Sarkozy si è appena assicurato i diritti di transito nel paese, per le forze militari del suo paese.

Il 27 settembre la stampa cinese ha riferito in merito a un esercitazione militare multinazionale che verrà condotta in Cambogia, una nazione allontanata dalla Cina, il prossimo anno: “Oltre 2.000 militari sono destinati al primo evento nel paese e proverranno da oltre 20 paesi, di cui 1.500 dagli Stati Uniti. [D]urante una visita di quattro giorni a Washington DC, Tea Banh, Vice Primo Ministro e Ministro della Difesa Nazionale della Cambogia, ha incontrato il vicesegretario di Stato, James Steinberg, con cui ha discusso della cooperazione per la sicurezza tra gli Stati Uniti e la Cambogia.” [19]

Il 14 ottobre delle relazioni hanno fatto emergere l’attuazione, da parte di Taiwan, del suo “più grande… test missilistico, lanciato da una base segreta e ben custodita nel sud di Taiwan“. Il rapporto ha anche detto che i missili erano “in grado di raggiungere le maggiori città cinesi.” [20] Con il presidente Ma Ying-jeou che osservava, “l’esercitazione includeva prove di tiro di un missile superficie-superficie a medio raggio, top secret e sviluppato di recente, con una gittata di 3.000 chilometri, in grado di colpire le città più importanti della Cina centrale, settentrionale e meridionale“. [21]

Notizie del giorno successivo hanno riferito che il ministero della Difesa della Corea del Sud “prevede di dotare la Marina di navi da 7.600 tonnellate della classe Aegis, tra cui una della Classe King Sejong, con il nuovissimo tipo di missili di fabbricazione americana, SM-6” e che “al fine di garantire un uso corretto dei missili SM-6 [Extended Range Active], la Marina della Corea del Sud sarà naturalmente legata al sistema di difesa missilistica degli Stati Uniti, ritenendo che essa avrà bisogno dell’appoggio di alcuni dispositivi di ricognizione e di intelligence, compresi i satelliti spia e i radar del sistema MD [difesa anti-missile] degli USA“. [22]

Ogni anno il Pentagono conduce l’esercitazione multinazionale ‘Cobra Gold’ in Thailandia. Quest’anno le forze armate del paese ospitante, degli Stati Uniti, Giappone, Singapore e Indonesia sono state coinvolte, e molte altre nazioni “parteciperanno a diversi ruoli, durante l’esercitazione“: Australia, Brunei, Francia, Italia, Gran Bretagna, Bangladesh, India, le Filippine, la Repubblica Popolare di Cambogia, Cina, Canada, Germania, Corea del Sud, Laos, Nepal, Pakistan, Vietnam e Mongolia. [23]

Ad eccezione della Cina, l’elenco di opra è una rappresentazione fedele di un asse NATO – NATO asiatica in formazione. Il 14 ottobre la USS Bonhomme Richard, nave d’assalto anfibio, è arrivata a Timor Est per “la prima esercitazione militare congiunta di quest’ultimo con gli Stati Uniti” ed è stato riferito che “le manovre con 2.500 soldati delle forze degli Usa e dell’Australia, dureranno fino al 24 ottobre.” [24] L’ambasciatore americano presso la nuova nazione, Hans Klem, ha detto che le esercitazioni si concentreranno sul tema “Addestramento nella giungla, urbana, della fanteria [e] e sbarchi su spiaggie…” [25] La penetrazione militare del Pentagono in Asia e lo sconfinamento in Cina, coordinato a ogni passo con gli alleati di Washington della NATO, è parte di una campagna internazionale per ottenere la presenza militare e il dominio su ogni longitudine e latitudine. Il continente europeo è stato assorbito quasi completamente nella NATO.

Il nuovo Africa Command degli USA, ha recentemente completato una esercitazione militare con 25 nazioni in Gabon, e inizierà presto manovre multinazionali in Uganda. La guerra in Afghanistan ha recentemente fornito agli Stati Uniti e alla NATO, nuove basi e diritti di transito militare nei paesi dell’Asia centrale, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Turkmenistan e Uzbekistan. “Gli Stati Uniti hanno garantito il ‘transito letale’ con l’Uzbekistan e il Kazakistan… Sia il Ministero della Difesa del Kirghizistan che l’ambasciata americana a Bishkek hanno confermato, in precedenza, che il Manas Transit Center agevolerà la spedizione di merci militari in Afghanistan… e il transito delle forniture in Afghanistan attraverso il Turkmenistan, ‘è possibile’…” [26]

Dei tre paesi del Caucaso meridionale, la Georgia e l’Azerbaigian sono veri e propri avamposti militari del Pentagono e della NATO alle frontiere della Russia e l’Armenia ha appena annunciato che potrebbe inviare truppe in Afghanistan, a servire sotto comando NATO. Washington ha recentemente ottenuto l’uso di sette nuove basi militari in Colombia, e ha annunciato piani simili per le due basi navali a Panama, due anni dopo la riattivazione dell’US Naval Forces Southern Command. Anche le aree disabitate del mondo (e la loro energia e altre risorse) non sono al di là del Pentagono e delle competenze della NATO. Il 9 ottobre, il più alto comandante militare del Comando europeo degli Stati Uniti e la NATO, l’ammiraglio James Stavridis, “mette in guardia su un conflitto con la Russia nel Circolo Polare Artico” come ha riferito il Times di Londra.

La scorsa settimana uno scrittore indiano ha offerto questa prospettiva sintetica: “L’arco di accerchiamento della Russia viene rafforzato. I legami NATO facilitano l’installazione del sistema di difesa antimissile degli Stati Uniti in Georgia. Gli Stati Uniti hanno per scopo avere una catena di paesi legati alla ‘collaborazione’ con la NATO, che ha portato nel suo sistema di difesa missilistica – che si estende dai suo alleati nel Baltico a quelli dell’Europa centrale. L’obiettivo ultimo di tutto questo è neutralizzare la capacità strategica di Russia e Cina, e stabilire la propria superiorità nucleare. Il documento della strategia di difesa nazionale, rilasciato dal Pentagono del 31 luglio 2008, ritrae la percezione di Washington di una risorgente Russia e una Cina in ascesa come potenziali avversari.” [27] L’analista non esagera.

Nel febbraio 2008, un rapporto della Reuters diceva che: “Gli Stati Uniti sono preoccupati che Russia, Cina e i paesi produttori petrolio dell’OPEC possano utilizzare il loro crescente peso finanziario per promuovere obiettivi politici, ha detto il capo delle spie degli Stati Uniti davanti al Congresso…” Il Direttore Nazionale dell’Intelligence, Michael McConnell, ha detto al Senate Intelligence Committee che aveva “preoccupazioni circa le capacità finanziarie della Russia, della Cina e dei paesi OPEC.” Le sue preoccupazioni, tuttavia, ha suggerito questioni militari piuttosto che economiche e commerciali. Una sintesi della sua testimonianza aveva poco da dire dell’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio e molto della Russia e della Cina. “La Russia, sostenuta in parte dalle entrate petrolifere, sta posizionandosi a controllare gli approvvigionamenti energetici e la rete di distribuzione dell’Europa orientale, e l’esercito russo ha cominciato a invertire il suo lungo declino…. La Cina ha perseguito una politica di impegno globale col desiderio di espandere la sua economia in crescita e di ottenere l’accesso ai mercati, alle risorse, alla tecnologia e al know-how.” [28] Poco dopo la Russia “ha chiesto una spiegazione all’America sulla relazione del direttore nazionale dei servizi segreti statunitensi, in cui Russia, Cina, Iraq, Iran, Corea del Nord e al-Qaida sono descritti come fonti della minaccia strategica per gli Stati Uniti, ha detto all’ITAR-TASS una fonte vicina al Cremlino.” [29] Cosi è, la Russia e la Cina effettivamente sono state aggiunte al famigerato “asse del male“, tirato fuori dall’ex presidente George W. Bush, nel gennaio del 2002.

La partenza di Bush dalla Casa Bianca e l’arrivo del suo successore non hanno cambiato nulla, tranne che le cose sono andate progressivamente a peggiorare. Un articolo dell’Associated Press del 1 maggio 2009 diceva che “L’amministrazione Obama sta lavorando per migliorare le deteriorate relazioni degli Stati Uniti con una serie di nazioni latino-americane, per contrastare la crescente influenza iraniana, cinese e russa nell’emisfero occidentale, ha detto il Segretario di Stato Hillary Rodham Clinton…[30] Nell’ultima relazione quadriennale del National Intelligence Strategy, del mese scorso, il Direttore della National Intelligence degli USA, Dennis Blair ha affermato ” Russia, Cina, Iran e Corea del Nord rappresentano le maggiori sfide agli ‘interessi nazionali’ degli Stati Uniti.”[31] Cina e Russia hanno sostituito il soggiogato Iraq nei ranghi dell’”asse del male“, assieme ai rimanenti membri Iran e Corea del Nord. La relazione di Blair ha affermato che la Russia “può continuare a cercare strade per riaffermare il potere e l’influenza, in modo da intralciare gli interessi degli Stati Uniti.” Un paragrafo del documento afferma “la Cina, che commercia regolarmente con gli Stati Uniti e possiede miliardi del suo debito nazionale“, e “Pechino compete per le stesse risorse di cui gli Stati Uniti hanno bisogno, ed è nel pieno processo della rapida modernizzazione militare.” [32]

Nel 2006, un articolo apparso su Foreign Affairs, la rivista di New York del Council on Foreign Relations, intitolato “The Rise of US Nuclear Primacy“, i coautori Keir A. Lieber e Daryl G. Press, hanno esplorato in maniera aperta come gli Stati Uniti potrebbero trattare con i suoi “challenger” cinese e russo.

Come il titolo del pezzo indica, l’accento è posto sulle armi nucleari e la superiorità americana rispetto a loro. La sua tesi di fondo si riassume in questo paragrafo: “Per quattro decenni, le relazioni tra le maggiori potenze nucleari sono state modellate dalla loro vulnerabilità comune, una condizione nota come mutua distruzione assicurata. Ma con l’arsenale USA in rapida crescita, assieme al decadimento della Russia e le ridotte dimensioni di quello della Cina, l’era MAD stava terminando – e l’era della supremazia nucleare degli Stati Uniti incominciava.” [33] Tale valutazione portava inevitabilmente alla conclusione che “probabilmente presto sarà possibile per gli Stati Uniti distruggere gli arsenali nucleari a lungo raggio della Russia o della Cina, con un primo colpo“. Gli autori esaminavano con distaccato sangue freddo i progressi comparativi in ciascuno dei sistemi di lancio della triade di armi nucleari degli Stati Uniti – missili a terra, aerei e sottomarini – e come in tutti e tre i casi, Washington potesse egualmente avviare primi attacchi paralizzanti alla Cina e alla Russia. Per esempio, si affermava che “l’US Air Force ha finito di dotare i suoi bombardieri B-52 dei missili nucleari da crociera, che sono probabilmente invisibili ai radar della difesa aerea di Russia e Cina. E l’Air Force ha inoltre migliorato l’avionica dei suoi bombardieri stealth B-2, per consentire loro di volare ad altitudini estremamente basse, al fine di evitare anche i radar più sofisticati“. E fanno l’elenco delle vulnerabilità delle due nazioni in modo quasi divertito: “L’arsenale nucleare della Russia più si restringe, più facile sarà per gli Stati Uniti procedere ad un primo colpo. Il vero piano di guerra degli Stati Uniti può chiedere prima il targeting dei centri di comando e controllo della Russia, sabotando le stazioni radar della Russia, o l’adozione di altre misure preventive – che renderebbero la forza effettiva degli Stati Uniti di gran lunga più letale di quanto il nostro modello presuppone. “Secondo il nostro modello, con un attacco a sorpresa semplificato, si avrebbero buone possibilità di distruggere tutte le basi russe di bombardieri, sottomarini e ICBM. L’arsenale nucleare della Cina è ancora più vulnerabile ad un attacco degli Stati Uniti. Un primo attacco Usa potrebbe avere successo se è lanciato con sorpresa o nel bel mezzo di una crisi, durante un allerta cinese. La Cina ha un limitato arsenale nucleare strategico. Secondo le valutazioni non classificate del governo americano, l’intero arsenale nucleare intercontinentali della Cina è composto da 18 ICBM fissi a testata singola.

Per confermare che il loro studio è indicativo non solo della loro convinzione, gli autori aggiungono che “I miglioramenti apportati all’arsenale nucleare degli Stati Uniti offrono la prova che gli Stati Uniti stanno attivamente cercando il primato … L’attuale e futura forza nucleare Usa, in altre parole, sembra progettata per effettuare un attacco preventivo contro le disarmante Russia e Cina. La ricerca intenzionale della supremazia nucleare è, del resto, del tutto coerente con la dichiarata politica di espansione gli Stati Uniti della propria posizione dominante a livello mondiale.”

In considerazione di ciò che si è sviluppato nel frattempo, dalla sua pubblicazione, l’articolo prevede la verità nuda sulla cosiddetta difesa missilistica, affermando: “il tipo di difesa missilistica che gli Stati Uniti potrebbero plausibilmente sviluppare sarebbe utile soprattutto in un contesto offensivo, non uno difensivo – come complemento ad una prima capacità di attacco americano, non come un singolo scudo. Se gli Stati Uniti lanciassero un attacco nucleare contro la Russia (o la Cina), al Paese bersaglio sarebbe rimasto un piccolo arsenale superstite – se non del tutto. A quel punto, anche un relativamente modesto o inefficiente sistema di difesa anti-missile potrebbe essere sufficiente per la protezione contro eventuali attacchi di rappresaglia, perché il nemico devastato avrebbe così, poche testate e sistemi d’inganno.”

Il pezzo si conclude nel riconoscere che con la fine del Patto di Varsavia, e di qualsiasi pretesa che le armi nucleari americane e della NATO sarebbero necessarie contro un grande attacco militare convenzionale, e che erano senza più alcun scopo ulteriori iniziative come la Strategic Defense Iniziative di Ronald Reagan, per costringere gli avversari a esaurirsi in una fallimentare corsa agli armamenti strategica, “Washington continuò a rifiutarsi dall’astenersi dal primo colpo e dallo sviluppare una limitata capacità di difesa anti-missile del paese, assumendo così un nuovo aspetto, forse più minaccioso. La conclusione più logica da fare era che la capacità di condurre una guerra nucleare resta una componente fondamentale della dottrina militare degli Stati Uniti, e che la supremazia nucleare rimane un obiettivo degli Stati Uniti“.

Per quante parole come concorrenza e sfide siano fatte nei discorsi dai politici degli Stati Uniti e degli altri occidentali, quando si riferiscono a questioni interne, la Casa Bianca e il Pentagono non tollereranno concorrenze serie e non consentiranno alcuna sfida alla loro corsa al dominio militare, politico ed economico mondiale. Quando tutto il resto fallisce, persino prima ancora, l’ultima ratio di Washington consiste nel suo arsenale nucleare e nei suoi sistemi di lancio.

Note

1) Indo-Asian News Agency, October 12, 2009

2) Russian Information Agency Novosti, October 12, 2009

3) US Department of Defense, American Forces Press Service, October 6, 2009

4) Ibid

5) Reuters, October 12, 2009

6) Indo-Asian News Agency, October 12, 2009

7) Voice of America, October 8, 2009

8 ) BBC News, October 14, 2009

9) Agence France-Presse, October 15, 2009

10) NATO, October 15, 2009

11) Proliferation Security Initiative And US 1,000-Ship Navy: Control Of World’s Oceans, Prelude To War Stop NATO, January 29, 2009 http://rickrozoff.wordpress.com/2009/08/26/proliferation-security-initiative-and-us-1000-ship-navy-control-of-worlds-oceans-prelude-to-war/

12) US Accelerates First Strike Global Missile Shield System, Stop NATO, August 19, 2009 http://rickrozoff.wordpress.com/2009/09/02/us-accelerates-first-strike-global-missile-shield-system

Global Military Bloc: NATO’s Drive Into Asia Stop NATO, January 24, 2009

http://rickrozoff.wordpress.com/2009/08/26/global-military-bloc-natos-drive-into-asia

13) Australian Military Buildup And The Rise Of Asian NATO, Stop NATO, May 6, 2009 http://rickrozoff.wordpress.com/2009/08/28/australian-military-buildup-and-the-rise-of-asian-nato

14) The Australian, October 15, 2009

15) Outlook India, April 10, 2009

16) The Australian, October 15, 2009

17) Ibid

18) Reuters, July 22, 2009

19) Xinhua News Agency, September 27, 2009

20) Radio Taiwan International, October 14, 2009 20) Radio Taiwan International, 14 ottobre 2009

21) Deutsche Presse-Agentur, October 14, 2009

22) Chosun Ilbo, October 15, 2009

23) Embassy of the United States of America Bangkok, January 13, 2009

24) Deutsche Presse-Agentur, October 14, 2009

25) Ibid

26) EurasiaNet/Eurasia Insight, October 13, 2009

27) Younes Bhat, Crisis from the Balkans to Caucasus: Munich Speech to Reset Button Mainstream Weekly, October 11, 2009

28) Reuters, February 5, 2008

29) Voice of Russia, February 8, 2008

30) Associated Press, May 1, 2009

31) Radio Free Europe/Radio Liberty, September 16, 2009

32) Ibid

33) The Rise of US Nuclear Primacy, Keir A. Lieber and Daryl G. Press Foreign Affairs, March/April 2006

Rick Rozoff è un frequente collaboratore di Global Research.

Traduzione di Alessandro Lattanzio
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Come furono uccisi 10 soldati francesi in Afghanistan, nell’agosto 2008

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Fonte: http://www.dedefensa.org/15/10/2009 – Bloc notes

Quattordici mesi dopo, il Times di Londra dà la spiegazione dell’agguato che costò la vita a dieci soldati francesi in Afghanistan (il 18 Agosto 2008), in un documento presentato come esclusivo, il 15 Ottobre 2009. L’attacco è stato una sorpresa, poiché la zona dov’è avvenuto era tranquilla, ma era calma perché il servizio segreto italiano (gli italiani avevano occupato l’area, in precedenza) pagavano i ‘signori della guerra’ locali, per mantenerla calma. Quando gli italiani hanno lasciato la zona, i pagamenti cessarono. I francesi, che presero l’area sotto il loro controllo, un mese prima l’incidente, non sapevano di questa situazione durante la presenza dagli italiani e del cambiamento intervenuto.

I [francesi] non sapevano cosa succedeva nei mesi prima dell’arrivo dei loro soldati, a metà del 2008, cioè che il servizio segreto italiano ha pagato decine di migliaia di dollari ai comandanti talebani e ai signori della guerra locali per mantenere la zona tranquilla, afferma The Times. I pagamenti illegali, la cui esistenza fu nascosta alle forze francesi in arrivo, sono stati resi noti da fonti militari occidentali.

“I funzionari dell’intelligence statunitense furono sbalorditi quando scoprirono, attraverso conversazioni telefoniche intercettate, che gli italiani comprarono i militanti, in particolare nella provincia di Herat, nel lontano ovest. Nel giugno 2008, alcune settimane prima dell’agguato, l’ambasciatore USA a Roma rivolse un indirizzo, o fece una protesta diplomatica, al governo Berlusconi, per le accuse relative a tale tattica.

“Tuttavia, una serie di alti ufficiali della Nato hanno detto al Times che i pagamenti, che sono stati successivamente scoperti, furono effettuati anche nella zona di Sarobi. Funzionari occidentali dicono che poiché i francesi non sapevano nulla dei pagamenti, fecero una valutazione della minaccia catastroficamente sbagliata. “Non si può essere troppo dogmatici su queste cose”, ha detto un funzionario di alto livello della NATO a Kabul. “Potrebbe anche avere un senso tacitare i gruppi locali e non usare la violenza per mantenere sotto controllo il conflitto. Ma è una follia farlo e non informarne i propri alleati“.

E’ in queste circostanze, secondo il Times, tutte le caratteristiche di questo tipo di guerra, il cui significato è impossibile da afferrare perché non c’è uno, in cui le pratiche commerciali hanno in gran parte sostituito le regolari operazioni belliche per la “pacificazione” o la “sicurezza“, dove l’assenza di coordinamento, la sfiducia, la mancanza di simpatia o l’indifferenza hanno segnato i rapporti tra alleati. (Gli italiani non hanno messo in guardia i francesi. Gli americani che spiano tutti, gli italiani in questo caso, e intervengono su questa vicenda attaccando la prassi italiana, quando loro stessi l’hanno usata in molte altre circostanze).

E’ difficile trovare una sintesi migliore, nelle circostanze tragiche le cui condizioni sono state rivelate dal Times, prevedendo la totale condanna di una guerra di cui nessuno capisce il senso, tra la versione ufficiale e la realtà evidente. Ognuno afferma la propria solidarietà e annuncia gli obiettivi umanitari del conflitto, o la sua necessità strategica. Ma tutti vi si trovano per mediocri ragioni di opportunità politica o di propaganda interna. La maggior parte degli alleati sono in Afghanistan, perché gli americani glielo ha chiesto, e cha la loro politica di asservimento, a tale riguardo, vieta loro di rifiutare, ma il loro impegno è minimo ed oggetto di tutti i sotterfugi possibili. Gli americani sono lì perché seguono un percorso (la “politica dell’ideologia e dell’istinto“), che non possono abbandonare per paura di essere accusati di codardia dalla loro opinione pubblica e dalla loro opposizione, e perché la macchina da guerra degli Stati Uniti si rifiuta di abbandonare ciò che crede di aver chiuso. Nessuno, tra coloro che conoscono le reali condizioni del conflitto, crede in fondo a tutto ciò che dice la versione ufficiale, e ognuno gioca per conto suo, senza preoccuparsi l’alleato, o l’informa delle condizioni reali del proprio impegno. In queste condizioni, pagare potentati locali ha ovviamente un senso e, come ha detto il funzionario citato, “non si può essere troppo dogmatici su queste cose“.

Tutte le condizioni del profondo baratro che separa la presentazione virtuale (narrativa) delle cose e la realtà, vi si trovano. Uno degli effetti della cosa è che uomini e donne muoiono per questa strana “causa“, che è la più completa perversione che si possa immaginare in un sistema politico. Forse la vicenda si trascinerà per le proteste delle famiglie colpite, eventualmente innescando a sua volta, proteste tra gli alleati coinvolti – o forse non tanto, date le circostanze non proprio gloriose, e si continuerà come se nulla fosse stato reso noto. Nulla, assolutamente nulla, è stato detto circa l’essenziale, cioè del fatto che non possiamo immaginare cosa più malvagia e più stupida di una guerra senza fine o senso, e che tutti in fondo considerano di per sé inutile, costosa e senza prospettive, ed inutilmente crudele verso i soldati, che capiscono così poco di una lotta che non ha alcun senso.

Traduzione di Alessandro Lattanzio
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Bagliori di una guerra segreta

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Fonte: “Clarissa.it”, 16 ottobre 2009

Il 19 ottobre riprendono a Vienna i negoziati sul nucleare iraniano. Le schermaglie pubbliche non mancano: gli iraniani annunciano che senza accordo sull’arricchimento dell’uranio all’estero continueranno da soli; Hillary Clinton risponde che gli Usa non attenderanno oltre; Vladimir Putin sostiene che non ci sono le condizioni per un inasprimento delle sanzioni. Intanto segnali disparati fanno intendere che sono in corso scontri sotterranei, autentici bagliori di una guerra segreta.

Ne riportiamo alcuni, in ordine sparso, avvertendo che si tratta per lo più di notizie isolate ma che potrebbero anche essere (in tutto o in parte) tessere di un puzzle ordinato e profondamente interconnesso.

Lo strano caso della morte di Khamenei. Mentre scriviamo è ancora mistero su alcune notizie circolate su siti web, e riprese da testate come il britannico Daily Telegraph o l’israeliano Haaretz, secondo cui il leader spirituale iraniano Ali Khamenei sarebbe deceduto o in coma da alcuni giorni. Mancano conferme ufficiali ma anche smentite ad alto livello.
Se la notizia fosse vera sarebbe una scossa tellurica per il regime che potrebbe aprire scenari del tutto imprevedibili, anche drammatici, visto il momento delicatissimo in cui si verifica. Designato a succedere pro tempore a Khamenei sarebbe infatti l’ayatollah moderato Rafsanjani, a capo del Consiglio degli esperti, in attesa che questo organo elegga il successore di Khamenei. Ma Rafsanjani è anche il principale oppositore del presidente Ahmadinejad e si dubita che larghe fasce degli apparati di sicurezza (come i pasdaran e le milizie basiji) possano accettarne la legittimità morale e politica.
Ma anche se la notizia fosse falsa sarebbe altrettanto interessante. La fonte primaria da cui proviene, infatti, non è neutra, arrivando dal blog del “giornalista” ebreo-americano Michael Ledeen. Ledeen è una vecchia conoscenza degli ambienti dell’intelligence: “falco” vicino ai settori neocon durante la presidenza Bush, è stato consulente del Dipartimento di Stato e consulente dei servizi israeliani. Esperto di Iran, terrorismo, politica internazionale, il suo nome è stato accostato allo scandalo Iran-connection (anni ’80, Amministrazione Reagan/Bush sr.) ed alle vicende relative la strategia della tensione in Italia, paese che Ledeen conosce perfettamente e di cui parla fluentemente la lingua.
Ledeen sarebbe dunque, e soprattutto, un maestro delle cosiddette psy-ops, ovvero un esperto di attività di disinformazione e guerra psicologica. Il propagarsi della notizia potrebbe ben iscriversi, dunque, nel testare le reazioni sia degli apparati di controllo iraniani, ma anche e soprattutto dell’opinione pubblica interna al paese, per verificare quale sia lo stato dell’arte e la risposta in quegli ambienti riformisti che hanno vigorosamente protestato dopo le recenti elezioni macchiate, secondo l’opposizione, da pesanti brogli.

Brzezinski, il “pacifista” imperiale. Zbigniew Brzezinski è uno dei massimi esponenti dell’establishment americano. Democratico, ormai ottantenne, è stato Consigliere per la sicurezza nazionale dell’Amministrazione di Jimmy Carter (1977-1981), membro (e anche fondatore) dei più importanti think-tank anglosassoni, come la Trilateral Commsission, o il Council on Foreign Relations (CFR). Attualmente professore di relazioni internazionali alla Johns Hopkins University, Barack Obama lo ha citato pubblicamente come un suo mentore e consigliere personale.
Verrà ricordato nella storia contemporanea come l’ideatore della “trappola afgana” quando nel 1979, con una abilissima strategia, gli americani fecero in modo (o come disse lo stesso Brzezinski “aumentammo consapevolmente la possibilità”) che i russi invadessero l’Afghanistan per farne il “loro Vietnam” ed impantanarli in una guerra di logoramento che fu una delle concause principali della dissoluzione dell’Urss.
La contrapposizione Est/Ovest è sempre stata la linea strategica di fondo della visione geopolitica di Brzezinski. Di origine polacca, fautore della guerra fredda, ha sempre agito in un contesto bipolare, in cui ogni mezzo era lecito (come sponsorizzare il jihadismo islamico) pur di contenere il nemico principale rappresentato dall’Unione Sovietica. Ma anche dopo il crollo di quell’Impero, per Brzezinski il “nemico” rimane l’oriente eurasiatico di cui la Russia è il fulcro.
Questa visione politologica torna di grande attualità in un passaggio storico fondamentale per il consolidamento definitivo o la crisi dell’Impero americano, in cui le relazioni con la Russia si intrecciano con la disputa sul nucleare iraniano. Allearsi tatticamente con Mosca per liquidare Teheran e terminare definitivamente l’occupazione dell’area mediorientale e centro-asiatica, o accettare l’Iran come una potenza regionale, riconducendolo progressivamente nel campo occidentale, con la funzione storica che ebbe per la geopolitica anglosassone di gendarme del Golfo e argine di contenimento per la Russia e oggi anche Cina?
Nell’estate 2008, durante la crisi russo-georgiana, Brzezinski espresse chiaramente il suo pensiero equiparando Putin a Stalin e Hitler: “… Oggi la comunità internazionale deve […] reagire a una Russia che ricorre sfacciatamente all’uso della forza, con un più vasto disegno imperiale in mente: reintegrare il territorio ex sovietico sotto il dominio del Cremlino e impedire all’Occidente l’accesso al Mar Caspio e all’Asia centrale, grazie al controllo sull’oleodotto Baku/Ceyhan che attraversa la Georgia. Se la Georgia capitolerà, non solo l’Occidente si ritroverà tagliato fuori dal Mar Caspio e dall’Asia centrale, ma possiamo logicamente prevedere che Putin, se non troverà ostacoli, userà la medesima tattica verso l’Ucraina, Paese contro il quale ha già espresso minacce” (1).
Queste perentorie affermazioni vanno coordinate con la relazione che Brzezinski pronunciò davanti alla Commissione esteri del Senato americano il 1° febbraio del 2007. Una analisi impietosa e di durissima critica alla politica neo-con di Bush che rischiava di aprire una voragine in tutto il Medio Oriente e oltre, dall’Iraq al Pakistan passando per Afghanistan e Iran: “La guerra in Iraq è una calamità storica, strategica e morale. Iniziata sulla base di false presunzioni, sta pregiudicando la legittimità globale dell’America; le sue vittime civili e i suoi abusi ne stanno intaccando le credenziali morali. Provocata da impulsi manichei e da un’arroganza imperiale, sta intensificando l’instabilità regionale. (…) Se gli Stati Uniti continueranno a lasciarsi impantanare in un prolungato e sanguinoso coinvolgimento iracheno, il punto d’arrivo, su questa strada in discesa, sarà probabilmente un conflitto con l’Iran e con larga parte del mondo musulmano” (2)
In quella stessa sede Brzezinski fece riferimento alla possibilità (“scenario plausibile”) che l’allargamento del conflitto all’Iran potesse essere provocato da un attentato (“provocazione”) in Iraq o negli stessi Stati Uniti, attribuito agli iraniani e sfruttato dagli americani per una “azione militare difensiva”. Parole inaudite e pubblicamente pronunciate in una sede istituzionale da chi sa perfettamente di cosa parla quando si riferisce a provocazioni di intelligence di quel genere.
Molti analisti ritennero che in quel modo Brzezinski volesse bruciare un piano dell’Amministrazione, preventivabile o in corso di attuazione, proprio per impedire una avventura contro l’Iran. Siamo al 1° febbraio 2007. Alla fine di agosto dello stesso anno molti siti alternativi e giornalisti d’inchiesta indipendenti riportarono la notizia dello strano caso di un bombardiere strategico B-52 armato con sei missili cruise a testata atomica, che in spregio ai trattati internazionali e ai regolamenti della Us Force, veniva spostato da una base nel Dakota e fatto atterrare in Louisiana, bloccato da alcuni ufficiali dell’aviazione. In molti ritengono che quel bombardiere col suo armamento atomico fosse in procinto di attuare o una qualche operazione “false flag” o un attacco segreto verso l’Iran, sotto la direzione del vice-presidente Dick Cheney, e fu sventato da ufficiali “ribelli” delle forze armate (3).
Le scorse settimane Brzezinski ha lanciato un altro missile preventivo per il caso in cui Israele decidesse, come temuto da più parti, di sferrare un raid aereo unilaterale per colpire i siti nucleari iraniani, e per dire quale dovrebbe essere l’atteggiamento di risposta statunitense: “Non siamo esattamente dei piccoli bimbi impotenti. Dovrebbero [i bombardieri israeliani n.d.r.] volare sul nostro spazio aereo in Iraq. Dovremmo sederci a guardare?… Dobbiamo essere seri sulla questione e negare loro tale diritto. Ciò significa un rifiuto, e non solo a parole. Se tentassero il sorvolo, si decolla e li si fronteggia. Hanno la scelta di tornare indietro o no”. (4)
Ancora parole inaudite. Un alto esponente dell’establishment americano sostiene che gli aerei statunitensi (si noti che Brzezinski nel riferirsi ai cieli dell’Iraq usa l’espressione “nostro spazio aereo”) dovrebbero intercettare gli aerei israeliani ed eventualmente abbatterli. L’esperienza dell’uomo è tale da sapere impraticabile, politicamente, tale eventualità. Ma forse Brzezinski si rivolge ancora ad elementi delle forze militari ai quali garantisce il sostegno di almeno una parte importante della sfera politica nella loro azione di contrasto a piani belligeranti.
Brzezinski non è un pacifista. Le sue posizioni rispondono a precise attuazioni tattiche di visioni strategiche di fondo. È interessante delineare brevemente queste concezioni soprattutto in contrapposizione a quelle della dottrina neocon, che in definitiva si stanno ancora contrapponendo nell’amministrazione americana sul dossier iraniano.
Negli anni ’90 i neo-conservatori repubblicani delineavano il PNAC (Project for the New American Century) che verrà poi applicato nel momento in cui giungeranno al potere dal 2001 in poi, e soprattutto dopo i tragici fatti dell’11 settembre. Le linee portanti del PNAC illustrano una politica attiva e diretta da parte statunitense per il consolidamento del dominio economico e militare a livello globale. Concetti come “guerra preventiva” o “esportazione della democrazia” diverranno tristemente comuni. Applicando principi per cui “la leadership americana è un bene sia per l’America che per il resto del mondo”, la dottrina vuole “promuovere la causa della libertà politica ed economica al di fuori degli USA” e “preservare ed estendere un assetto internazionale favorevole alla sicurezza, alla prosperità e ai principi degli USA”. Questo significa un approccio aggressivo e, dove necessario, l’occupazione ed il controllo militare diretto delle aree strategiche.
Negli stessi anni (1997) Brzezinski scrive e pubblica un saggio politologico fondamentale: The grand chessboard (La grande scacchiera). L’obiettivo che si pone in questa opera è, sostanzialmente, lo stesso del PNAC, ovvero come strutturare il dominio imperiale americano. Ma se l’obiettivo è lo stesso, strategie e tattiche sono alquanto diverse.
Partendo dalle considerazioni che tutti i grandi imperi della storia sono implosi perché non riuscivano più a sostenere il peso economico e militare del dominio, e che il fulcro eurasiatico rimane quello in cui si gioca la partita decisiva, Brzezinski delinea una strategia fatta di pesi e contrappesi di piccole, medie, grandi potenze regionali che di fatto si bilancino in una sorta di continua tensione e contrapposizione di interessi. Gli Stati Uniti avrebbero in questo contesto il ruolo di grande sorvegliante che, di volta in volta, secondo le necessità e coi mezzi più appropriati allo scopo, risolve o crea micro-conflitti, sviluppa regioni o paesi mentre attenua l’influenza di altri, crea alleanze o le impedisce. Il pianeta diverrebbe una sorta di orologio di cui l’America determina, col suo potere economico-finanziario, militare, tecnologico, lo scandire del tempo.
I due paesi fulcro nell’area calda mondiale, l’Eurasia (una sorta di Balcani del pianeta), sono l’Ucraina e l’Iran, che, come tali, devono assumere il ruolo di potenze regionali che possano bilanciare e contenere l’affermazione di potenze egemoniche come Russia e Cina, in grado di minacciare questo ordine mondiale costruito dagli Stati Uniti.
Appare evidente come la visione di Brzezinski entri in collisione, nella pratica, con la dottrina neocon, e perché egli abbia in questi anni così duramente criticato l’occupazione dell’Iraq ed ora paventi il possibile allargamento del conflitto all’Iran. E questo spiega le critiche che gli sono piovute addosso dalle lobbies ebraiche americane e da Israele, che nella visione “democratica” di Brzezinski vedrebbe notevolmente ridimensionato il suo ruolo di potenza regionale e gendarme occidentale del Medio Oriente.

Un po’ di dietrologia. Gli Stati Uniti hanno deciso di dismettere i piani di scudo missilistico da installare in Europa orientale, in Polonia e Cekia. L’annuncio di Obama sullo scudo è stato preceduto, e da taluni messo in relazione, con alcuni inquietanti e poco chiari avvenimenti su cui è obiettivamente difficile dare un giudizio ma che pare opportuno riportare. Per approfondimenti rimandiamo all’articolo scritto da Giulietto Chiesa che ha raccontato molto puntualmente i fatti (5).
Pur non concordando con Chiesa sull’assunto di fondo (ovvero che la rinuncia americana sullo scudo sia stata “devastante per i piani israeliani” sostenendo, come si è cercato di illuminare anche in questa analisi, una tesi diametralmente opposta), tuttavia lo strano caso della nave russa Arctic Sea, sequestrata da ignoti gruppi speciali mentre trasportava, forse proprio in Iran, o in Israele, o magari negli Stati Uniti, un carico segretissimo (tecnologie nucleari? componenti per un attentato “false flag”?) appare come un mistero tutto da chiarire. Tanto più che subito dopo il “ritrovamento” della nave, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu arrivava a sorpresa con un viaggio segreto a Mosca, infrangendo ogni protocollo diplomatico, ed esigendo un colloquio diretto con Medvedev.
Le fonti riportano di un Netanyahu furibondo che avrebbe a più riprese minacciato i russi, direttamente (“la Russia dovrebbe pararsi il sedere”), e indirettamente (“non sorprendetevi di vedere funghi atomici su Teheran”), ordinando in modo perentorio “un’immediata restituzione di tutti i documenti, dell’equipaggiamento e degli agenti del Mossad” catturati a bordo della Arctic Sea. L’atteggiamento, insomma, di chi rimproveri ad un altro di aver tradito i patti.
Non basta. Alcuni giorni dopo si verifica un incendio presso la base militare di Tambov a 400 km da Mosca. La base ospiterebbe i bunker della Direzione generale dell’Intelligence russa, e nell’incendio sarebbero andati distrutti “documenti segreti di speciale importanza”. Ma non di incidente si sarebbe trattato, bensì della fulminea e devastante azione di commandos di truppe speciali. Una fazione militare interna (o forse esterna con appoggi all’interno) ha agito per cancellare situazioni compromettenti detenute da un’altra fazione? A favore di chi e contro chi?

Il celebre giornalista d’inchiesta Robert Fisk ha pubblicato sull’Independent un articolo che rivela piani segreti tra paesi produttori di petrolio e potenze occidentali e asiatiche per l’abbandono del dollaro quale moneta di riferimento per le transazioni commerciali energetiche (6).
Paesi del Golfo tra cui Arabia Saudita, Kuwait, Qatar, Emirati Arabi, e dall’altra Francia, Russia, Giappone, Cina, starebbero negoziando la creazione di una nuova moneta di conto parametrata su oro e altre divise nazionali come lo yen giapponese, lo yuan cinese, l’euro, e forse il rublo.
Fisk avrebbe avuto conferma di tali manovre da fonti finanziarie arabe di paesi del Golfo Persico e cinesi di Hong Kong. Obiettivo temporale fissato il 2018. Gli Stati Uniti sarebbero a conoscenza di tali incontri ma sarebbero convinti di riuscire a scongiurare una prospettiva che potrebbe altrimenti significare la fine del dominio nordamericano.
Già da tempo, anche in seguito alla crisi finanziaria mondiale, da più parti si è parlato della prospettiva di creare un nuovo ordine finanziario che contempli anche una nuova moneta internazionale che poggi su un paniere diversificato e non più solo sul dollaro. Ma l’elemento nuovo portato da Fisk è che quasi tutte le potenze mondiali (alcune delle quali strette alleate degli americani) e i maggiori produttori mediorentali, starebbero complottando alle spalle e contro gli Stati Uniti un vero e proprio golpe finanziario globale.
La notizia, se vera, sarebbe a dir poco clamorosa.
Ma vista con altra ottica potrebbe essere inserita in un altro scenario. Ammettiamo che incontri e generici colloqui siano stati fatti tra gli interlocutori indicati, ma di fatto una prospettiva come quella indicata è impossibile da portare a termine, almeno in queste condizioni di potere geopolitico, proprio perché le aristocrazie arabe del Golfo e paesi come Francia e Giappone sono legati a doppio filo con gli Stati Uniti. Tuttavia alcuni gruppi di potere interni agli stessi Usa, o paesi terzi come Israele, potrebbero avere tutto l’interesse a far trapelare lo scenario per allarmare altre componenti del potere statunitense sulla fragilità e sui rischi che si potrebbero correre se il Medio Oriente non venisse consolidato in maniera vigorosa una volta per tutte.
Lo stesso Fisk, tra le righe, si rende ben conto di poter essere stato lo strumento di un gioco di disinformazione e non a caso chiude l’articolo con un richiamo degno di chi conosce bene il gioco e la posta in palio: “Alla fine del mese scorso l’Iran ha annunciato che le sue riserve in valuta estera saranno in futuro in euro e non in dollari. I banchieri ricordano, naturalmente, quanto è capitato all’ultimo Paese produttore di petrolio del Medio Oriente che ha tentato di vendere il petrolio in euro e non in dollari. Pochi mesi dopo che Saddam Hussein aveva comunicato la sua decisione ai quattro venti, gli americani e gli inglesi hanno invaso l’Iraq”.

(1) “Basta illusioni: non fidiamoci di Putin”, Corriere della Sera, 19 agosto 2008
http://www.corriere.it/esteri/08_agosto_19/basta_illusioni_non_fidiamoci_di_putin_a53b0982-6d9c-11dd-8a0c-00144f02aabc.shtml

(2) Come riportato in “Lettere al Corriere – Risponde Sergio Romano”, Corriere della Sera, 17 febbraio 2007
http://archiviostorico.corriere.it/2007/febbraio/17/Brzezinski_sosia_democratico_Kissinger_co_9_070217121.shtml

(3) Tra varie possibili fonti si veda ad esempio questa intervista a Webster Tarpley di Massimo Mazzucco:
http://www.luogocomune.net/site/modules/news/article.php?storyid=2183

(4) http://www.thedailybeast.com/blogs-and-stories/2009-09-18/how-obama-flubbed-his-missile-message/

(5) Giulietto Chiesa, “Intrigo internazionale e funghi atomici su Teheran. Alta tensione” – Megachip
http://www.megachipdue.info/component/content/article/42-in-evidenza/668-intrigo-internazionale-e-funghi-atomici-su-teheran-alta-tensione.html

(6) Robert Fisk, “The demise of the dollar”, The Independent
http://www.independent.co.uk/news/business/news/the-demise-of-the-dollar-1798175.html

Il sistema Putin e l’Europa. Intervista a Stefano Grazioli

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Stefano Grazioli, giornalista specializzato sulla Russia, è autore del libro di recente pubblicazione GazpromNation. Il sistema Putin e il nuovo Grande Gioco in Asia Centrale (cliccare qui per maggiori informazioni sull’opera)

Nel suo ultimo libro Gazpromnation parla di “sistema Putin”. Potrebbe sintetizzarci i caratteri fondamentali del sistema Putin?

Il sistema Putin è quello che ha portato la Russia protagonista sulla scena internazionale e soprattutto dato una svolta decisa a un paese che sotto Eltsin era finito al collasso (default 1998). È la reazione al sistema caotico, oligarchico e pseudo democratico di Eltsin. È il sistema che la stragrande maggioranza dei russi condivide perché ha portato ordine, stabilità e grandi miglioramenti. Nessuno dice che sia un sistema perfetto, tutt’altro, visto che i problemi russi sono ancora enormi, ma Vladimir Putin ha dato una nuova prospettiva al Paese. È un sistema in cui lo stato ho un ruolo fondamentale e in cui i robber barons sono stati costretti ad occuparsi solo di affari economici e non di politica. È un sistema in cui gli oligarchi sono stati sostituiti dai siloviki e dai silogarchi, ma che ha ridistribuito (in minima parte, ma sempre meglio dello zero di prima) ricchezza. È un sistema in cui si cerca il compromesso tra i gruppi di potere. È un sistema che non ha trovato ancora una soluzione al cancro della corruzione, ma dei cui effetti positivi ha approfittato una fetta sempre maggiore della popolazione. È un sistema che ha retto grazie anche alla forza del prezzo del petrolio, ma che ha saputo creare le riserve attraverso un fondo di stabilizzazione per affrontare la crisi. Senza di esso si sarebbe passati direttamente alla guerra civile. È un sistema con luci ed ombre interne, che ha dovuto affrontare attacchi interni ed esterni di ogni genere, che ha avuto il suo 11 settembre (Beslan), anche se molti in Occidente sembrano esserselo dimenticato. È un sistema in transizione, non punto di approdo.

Dmitrij Medvedev rientra ancora nel sistema Putin, o da quando è diventato presidente ha costruito (o sta costruendo) un proprio sistema parallelo/alternativo a quello del Primo Ministro?

Medvedev è arrivato dov’è perché l’ha voluto Putin. Come Putin è arrivato nel 2000 al Cremlino per volere di Eltsin e degli oligarchi. La differenza è che mentre Putin non era una creatura di Berezovski, Medvedev è una di Putin. Fanno parte della stessa squadra. Al momento si sono divisi ruoli e compiti, il tandem sembra funzionare anche se la borraccia è quasi vuota e la pedalata non è uniforme. La crisi ha portato qualche screzio, ma la sostanza di fondo non muta. Putin avrebbe potuto dare uno strappo alla Costituzione e farsi eleggere per la terza volta alla presidenza. Ma ha voluto rispettare le regole, ben sapendo che chi andava al Cremlino sarebbe stato una persona più che affidabile. Naturalmente Medvedev ha acquisito spazio e potere con il suo team, si tratta però sempre di uomini la cui visione globale non è differente da quella dell’attuale primo ministro. Sono i civiliki, per scoprire chi sono si deve leggere il libro… I diversi apparati comunque possono concorrere, ma non arriveranno a distruggersi a vicenda. Putin ha costretto Berezovski a riparare all’estero. Improbabile che la cosa si ripeta con Medvedev.

Secondo lei perché Putin ha scelto come successore Medvedev e non l’altrettanto accreditato Ivanov?

Se al posto di Medvedev Putin avesse scelto Ivanov avremmo avuto una storia diversa. Purtroppo in Occidente non si hanno ben chiari certi segnali che arrivano da Mosca. Come accennato prima nel caso del terzo mandato. Putin avrebbe potuto far modificare la carta costituzionale (legalmente) e rimanere al Cremlino. Non l’ha fatto. Ha dimostrato di essere sempre attento alla forma e conciliato le sue decisioni con gli interessi di casa propria. E ha mandato al suo posto un tranquillo giurista di Pietroburgo dalla visione economiche piuttosto liberali. Non un uomo dei servizi o dell’apparato militare come il ministro della difesa Ivanov. Volendo interpretare questa decisione si potrebbe dire che a Ivanov (esponente più in vista della corrente chekista, dei siloviki) è stato preferito un civile, una persona lontana dall’intelligence e con una formazione decisamente diversa da quella di Putin, proprio per dare un’immagine moderata e poco bellicosa al Cremlino. Paradossalmente alla guerra con la Georgia si è arrivati durante la presidenza Medvedev, ma questa è un’altra storia.

Nella sua opera prima citata definisce la Russia una “democrazia controllata”. Potrebbe spiegarci tale concetto?

L’idea di una democrazia controllata, o sovrana, è stata sviluppata da Vladislav Surkov, l’ideologo del Cremlino, già un paio di anni fa. Non si tratta di abolire i principi democratici che dovranno regolare la Russia nel prossimo futuro. Non si tratta di far fuori la democrazia per motivi ideologici, non fare più elezioni e cancellare la libertà di stampa: la Russia ha avuto bisogno dopo settant’anni di comunismo e dieci di anarchia di una cura forte per riordinare se stessa. E la transizione non è certo finita. Il modello a cui tende deve essere specifico, non un’imitazione malriuscita di quello occidentale e deve tenere conto della storia di questo Paese. L’idea di rafforzare lo stato, il bisogno di curare malattie vecchie e nuove e trovare rimedi a problemi devastanti (dalla corruzione al crollo demografico) sono elementi della dottrina Surkov che vanno di pari passo con la necessità di creare consenso su una base formalmente democratica. Il controllo dei media da parte dello stato e in mani amiche, l’emarginazione forzata dell’opposizione, il parlamentarismo debole, non sono però una prerogativa della Russia di Putin e Medvedev. Basta andare indietro ai tempi di Eltsin per trovare di peggio o dare un’occhiata anche dalle nostre parti in Occidente.

Lei conosce molto bene, oltre alla Russia, anche la Germania, e dedica parecchio spazio all’alleanza strategica tra Mosca e Berlino. Qual è lo stato attuale delle loro relazioni, alla luce del trionfo elettorale di CDU e liberali in Germania? Berlino può e potrà conciliare l’alleanza “storica” con gli USA colla sempre più stretta amicizia verso Mosca?

L’alleanza tra Mosca e Berlino è sì strategica (non militare, ovviamente) e si basa molto sul pragmatismo che da sempre c’è al Cremlino e al Kanzleramt. Non è solo una questione degli ultimi vent’anni (ottimi rapporti tra Gorbaciov prima e Eltsin dopo con Helmut Kohl, tra Putin prima con Schröder e ora con la Merkel), ma si può andare indietro alla Ostpolitik di Willy Brandt e Walter Scheel. Durante gli anni Settanta ha governato in Germania un’alleanza tra socialdemocratici e liberali che ha aperto le porte agli stretti rapporti del dopo 1989. Oggi governano i conservatori della Merkel (che ha già dimostrato di essere sullo stesso binario di Schröder, anche se con meno frizzi e lazzi, ma il prodotto non cambia) e gli eredi di Scheel. Guido Westerwelle è un liberale cresciuto con Genscher – il ministro degli esteri durante la riunificazione – e il suo elettorato è anche quello dell’industria e della finanza che non vuole certo rinunciare a fare affari con Mosca. Berlino guarderà sempre più verso est, anche con occhio critico, ma non tirandosi certo indietro: l’alleanza transatlantica e l’amicizia con gli Usa non pregiudica certo i rapporti con la Russia. Sul lungo periodo bisognerà vedere, ma lo sviluppo dipende da molti fattori e dalle scelte dei singoli attori. Non penso che gli Stati Uniti arriveranno mai all’ultimatum, o con noi o con Mosca. La via pragmatica sarà quella che prevarrà.

Germania a parte, la nazione europea politicamente più vicina alla Russia appare l’Italia, e ciò in particolare con Berlusconi alla presidenza del Consiglio. Nel corso del suo ultimo governo il legame è parso approfondirsi, suggellato dall’accordo per il South Stream, alternativo o quanto meno limitativo del progetto Nabucco patrocinato da Washington. Cosa pensa dello stato attuale dei rapporti tra Italia e Russia, e dei possibili sviluppi futuri?

Tra Italia e Russia i rapporti sono sempre stati ottimi e corretti e non c’è motivo di pensare che questa tendenza possa essere invertita. Ovviamente anche alla luce degli accordi economici che interessano i colossi dell’energia o le piccole aziende. Come per la Germania, ritengo che al di là dei colori dei governi, una più stretta collaborazione con Mosca sia inevitabile e proficua, non solo perché noi guardiamo a est, ma perché loro guardano a ovest. Almeno per ora. Purtroppo in Italia si ha un’immagine della Russia ancora legata al passato e la scarsa attenzione dei media verso questo Paese non facilita certo la presa di coscienza che la Russia anche se non un alleato è un partner fondamentale. I tedeschi lo hanno capito da un pezzo.

La politica italiana sta vivendo un momento particolarmente “agitato”, col susseguirsi di scandali e disavventure di vario genere a danno del Presidente del Consiglio. Berlusconi e i suoi sostenitori imputano il tutto ad una “manovra eversiva”, e taluni aggiungono (tesi comparsa anche su quotidiani a diffusione nazionale e vicini al primo ministro, come “Libero” e “il Giornale”) che a tessere le trame di questo “complotto antinazionale” sarebbero proprio gli USA, indispettiti dagli accordi strategici tra Roma e Mosca. Francesco Verderami sul “Corriere della Sera” ha lasciato intendere che i servizi segreti russi starebbero dando sostegno a Berlusconi, sebbene quest’ultimo abbia smentito categoricamente. Lei si è fatto una sua idea a proposito?

Le teorie del complotto sono spesso stuzzicanti, ma alla prova della realtà faticano a reggere. E’ naturale che i servizi dei diversi paesi si parlino (anche se non si dicono tutto), a maggior ragione se si tratta di questioni che coinvolgono alti rappresentati di stato o di governo. Nel caso specifico non so dire se Berlusconi abbia telefonato a Putin chiedendogli aiuto perché gli americani gli stanno facendo le scarpe, è certo però che in alcuni ambienti a Washington l’asse Gazprom-Eni non è stato accolto bene. Ma allora cosa dovrebbero fare gli Usa con la Merkel?

(Intervista di Daniele Scalea)

Il grande ritorno di Israele in Africa

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Fonte: Jeune Afrique 11/09/2009

Non accadeva da più di vent’anni : l’assai controverso ministro degli Esteri israeliano Avigdor Lieberman – dirigente del partito di estrema destra Israel Beytenu – che ha qualcosa a che fare con la giustizia del suo paese – è attualmente in tournée in Africa. Dal 2 al 10 settembre, ha visitato in successione l’Étiopia, il Kenya, il Ghana, la Nigeria e l’Uganda. Un’« operazione seduzione » i cui obiettivi sono chiari : rafforzare le relazioni economiche tra lo Stato ebraico ed il continente nei settori dell’energia, dell’agricoltura, dell’irrigazione, delle infrastrutture o, beninteso,  della sicurezza, ma anche lanciare una sfida diplomatica all’Iran.

Secondo le autorità israeliane, « durante la visita sarà rievocata la questione iraniana in relazione agli sforzi di quel paese per impiantarsi nella regione ed operarvi ». Detto chiaramente, si tratta di rispondere alle visite di Mahmud Ahmadinejad – che lo scorso febbraio si è recato in Kenya, a Gibuti e nelle Comore – e di tentare di (ri)conquistare il sostegno dell’Africa, specialmente alle Nazioni Unite, al fine di avere più peso contro il programma nucleare iraniano.

Due anni fa, il ministro degli Esteri israeliano Zipi Livni raccontava così cinquant’anni di relazioni con il continente : « L’inizio delle relazioni tra Israele e l’Africa risale alla metà del XX secolo. Per essere esatti al 1957, con l’apertura di una rappresentanza diplomatica nel Ghana. In realtà, si potrebbe dire che esse sono nate tremila anni fa, quando la regina di Saba rese visita a re Salomone. È vero che esse hanno avuto alti e bassi – sono state fiorenti negli anni 1950 e 1960, inesistenti negli anni 1970 e rinascenti negli anni 1980 e 1990. Oggi, le relazioni tra Israele e la grande maggioranza dei paesi africani possono essere definite eccellenti. » Un buona sintesi, con delle riserve sull’ultimo epiteto che spiegano senza dubbio il viaggio di Lieberman.

All’epoca delle indipendenze africane, il ministro degli Esteri israeliano Golda Meir si rivolge risolutamente verso l’Africa. Per lei, gli Africani ed il popolo ebreo condividono non pochi punti in comune. Hanno dovuto sbarazzarsi della tutela coloniale. Hanno dovuto valorizzare delle terre spesso ingrate. E sono stati vittime della Storia, morti nei campi di concentramento o ridotti in schiavitù.

Aiuto militare

Ma al di là della comunanza di destini, la volontà di sedurre l’Africa sub-sahariana risponde a ragioni più prosaiche. In piena guerra fredda, Israele conduce la propria lotta diplomatica. Si tratta di rompere una situazione di isolamento assicurandosi il voto dei paesi africani alle Nazioni Unite e di rafforzare la sicurezza dello Stato formando un «cordone sanitario» attorno ai paesi arabi sentiti come ostili.

A metà degli anni 1960, Israele – ferocemente ostile al regime sudafricano dell’apartheid – intrattiene relazioni diplomatiche con più di trenta paesi africani. Vi invia i suoi esperti, forma unità d’élite, vende armi. Nel 1966, una decina di paesi africani riceve da Israele un aiuto militare diretto. Un certo generale Congolese, Joseph-Désiré Mobutu, beneficia pure, nel 1963, di un addestramento in paracadutismo… Due anni prima di prendere il potere !

Questa politica di aperture si altera a partire dalla Guerra dei Sei Giorni del 1967 : Israele diviene una potenza conquistatrice. Ma la vera rottura avviene nel 1973, con la guerra del Kippur. Il raggiungimento del canale di Suez da parte delle forze israeliane ha contrariato i paesi africani e lo choc petrolifero accresce la loro dipendenza energetica nei confronti dei paesi arabi. Risultato : ad eccezione del Malawi, del Lesotho e dello Swaziland, tutti tagliano i ponti con Israele – che allora si riavvicina al Sudafrica razzista. L’isolamento dello Stato ebraico raggiunge il suo parossismo il 10 novembre 1975, con la risoluzione 3379 delle Nazioni Unite che assimila sionismo e razzismo. I soli paesi africani ad opporvisi sono il Malawi, il Lesotho, la Repubblica centrafricana, la Liberia e la Côsta d’Avorio.

Realpolitik

Comunque, al di là delle posizioni politiche di principio, continua ad imporsi la realpolitik. «Durante quel periodo, i legami economici in realtà aumentano : gli scambi commerciali triplicano e le imprese israeliane accrescono le loro iniziative, in particolare in Nigeria, in Kenya e nello Zaire », spiega Naomi Shazan [1]. L’assenza di relazioni ufficiali non impedisce ad Israele nemmeno di mantenere il suo arsenale militare. Alla fine degli anni 1970, circa il 35 % delle vendite d’armi israeliane si fanno in Africa. « Agenti del Mossad, emissari militari ed un piccolo gruppo di uomini d’affari sostituiscono i diplomatici come interlocutori privilegiati dei dirigenti africani e (principalmente) dei partiti di opposizione », valuta Naomi Shazan. Specialisti della protezione ravvicinata di personalità garantiscono la formazioni presso servizi di sicurezza presidenziali o sono messi direttamente a loro disposizione. Come in Costa d’Avorio, in Liberia, nello Zaire, nel Togo, nel Gabon… Nel luglio 1976, Israele si segnala per un blitz all’aeroporto di Entebbe. L’operazione Tuono permette a Zahal di liberare più di duecento ostaggi detenuti dal Fronte popolare di liberazione della Palestina (FPLP). Del resto, il 10 settembre, Avigdor Lieberman parteciperà in Uganda ad una cerimonia di commemorazione in omaggio alle vittime.

Nel 1978, gli accordi di Camp David segnano l’inizio di una leggera calma momentanea, ma bisogna attendere il 1982 perché Mobutu Sese Seko, nell’ex Zaire, annunci il ristabilirsi delle relazioni diplomatiche, seguito dalla Liberia (1983), dalla Costa d’Avorio e dal Camerun (1986), dal Togo (1987)… Quanto alla dittatura d’ispirazione marxista del colonnello Mengistu, essa riceve armi e permette, in cambio, il « rimpatrio » degli ebrei d’Etiopia, i Falascià.

All’inizio degli anni 1990 – dopo che nel 1987 Israele ha condannato esplicitamente l’apartheid e le Nazioni Unite hanno annullato, nel 1991, la risoluzione che assimilava sionismo e razzismo –, altri paesi africani come il Kenya, la Guinea o la Repubblica centrafricana riprendono a parlare con lo Stato ebraico. Senza che quest’ultimo si decida ad adottare una strategia chiara e coerente nei confronti dell’Africa. « Non c’è più una dottrina come all’epoca di Golda Meir, spiega Frédéric Encel, professore incaricato a Sciences-Po [2]. Il personale addetto all’Africa è numericamente ristretto e di qualità inferiore. La prospettiva africana è finita. Dagli accordi di Oslo, Israele ha iniziato un ripiegamento diplomatico, economico e tecnico verso l’Occidente – Europa, Stati Uniti, paesi dell’ex URSS. »

Settore privato in prima fila

È dunque il settore privato israeliano a modellare le attuali relazioni con il continente, tra importatori di diamanti, compagnie di sicurezza più o meno collegate al potere ed esperti di ogni genere. Anche per le vendite d’armi, l’Africa non è più un mercato portante. « Nel 2005, l’India ha fatto acquisti in Israele per 900 milioni di dollari in materiali militari ad altissimo valore aggiunto, continua Frédéric Encel. Oggi, sui circa 4 miliardi di dollari che rappresentano le vendite d’armi, 1,5 miliardi provengono dall’India e dalla Cina, il resto si distribuisce tra il Caucaso, l’Europa, la Turchia e gli Stati Uniti. L’Africa non acquista armamento sofisticato ma, piuttosto, servizi, molto meno costosi – ad esempio, guardie del corpo. »

Nel momento in cui Israele rimette ufficialmente piede sul continente, più di quaranta paesi africani intrattengono legami diplomatici con lo Stato ebraico. « In tutti questi ultimi anni, vi è manifestamente un ritorno di Israele in Africa, afferma Encel. È troppo presto per parlare di dottrina ma, a titolo di esempio, la Nigeria vende molto petrolio allo Stato ebraico, riceve sempre più ingegneri israeliani e… nel 2008, non ha votato la risoluzione delle Nazioni Unite contro il muro di separazione. » Se Lieberman desidera ridare respiro alle relazioni politiche ed economiche, rischia però di scontrarsi con certe reticenze. Per il presidente in esercizio dell’Unione Africana, Muammar Gheddafi, « le ambasciate di Israele in Africa sono delle gang che cercano alleanze con delle minoranze per perturbare il nostro continente ».

Note

1. Professore emerito di scienze politiche e di studi africani all’università ebraica di Gerusalemme.

2. Autore di Atlas géopolitique d’Israël, éd. Autrement,.

Traduzione dal francese eseguita da Belgicus

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OCS e declino USA

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L’asse Cina-Russia-Iran della SCO si candida come alternativa al controllo statunitense delle risorse mondiali

Press TV – 2009/10/15

L’Iran s’è offerto di rafforzare il suo ruolo di fornitore di energia e di via di transito per gli Stati membri della Shanghai Cooperation Organization (SCO). “Teheran è pronta a fornire ai membri del SCO energia e accesso alle acque libere”, ha detto il Primo Vice-Presidente dell’Iran, Mohammad-Reza Rahimi, al segretario generale dell’organizzazione, Bolat Nurgaliyev, a Pechino. Rahimi ha detto che l’Iran potrebbe tentare di aumentare il livello della sua cooperazione con la SCO, tanto più che il mondo si trova ad affrontare il tentativo, da parte degli Stati Uniti, di ottenere il controllo unilaterale sulle riserve energetiche mondiali.

In risposta alle parole del vice-presidente iraniano, Nurgaliyev ha definito importante il ruolo della Repubblica islamica nel fornire energia e un corridoio di transito ai membri dell’organizzazione. Rahimi era nella capitale cinese per partecipare al vertice SCO, che ha riunito nella Grande Sala del Popolo gli inviati di Cina, Russia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Uzbekistan, Mongolia, India, Iran, Pakistan e Afghanistan.

La SCO è un’organizzazione intergovernativa fondata a Shanghai nel 2001. Nel quadro della SCO, gli Stati membri s’impegnano a una ampia gamma di collaborazioni economiche, politico e di sicurezza.

L’Iran a far parte dell’organizzazione, come Stato osservatore, dal 2005.

La Russia pronta ad abbandonare il dollaro nel commercio di gas e petrolio con la Cina

RIA Novosti – 2009/10/14

PECHINO – La Russia è pronta a considerare l’uso delle monete nazionali di Russia e Cina, al posto del dollaro, nel settore energetico (petrolio e gas) dei loro rapporti bilaterali, ha detto il primo ministro Vladimir Putin. Il premier, attualmente in visita a Pechino, ha detto che una decisione definitiva sulla questione può essere presa soltanto dopo una approfondita analisi da parte degli esperti. “Ieri, le società energetiche, in particolare la Gazprom, hanno sollevato la questione dell’uso della moneta nazionale. Siamo pronti a esaminare la possibilità di vendere le risorse energetiche in rubli, ma i nostri partner cinesi hanno bisogno di rubli per fare ciò. Siamo anche pronti a vendere in yuan”, ha detto Putin. Ha sottolineato che “ci dovrebbe essere un equilibrio”.

Martedì scorso, la Russia e la Cina hanno concordato le condizioni per le forniture di gas russo, per un livello pari a 70 miliardi di metri cubi l’anno. La Cina importa dalla Russia anche petrolio. Il primo ministro russo ha detto che il problema sarà affrontato, tra gli altri, in una riunione dei ministri delle finanze della Shanghai Cooperation Organization (SCO), che sarà convocata entro la fine dell’anno, in Kazakistan. Il quotidiano britannico The Independent, della Gran Bretagna, ha segnalato che i funzionari russi avevano tenuto “riunioni segrete” con Stati arabi, la Cina e la Francia, sulla fine dell’uso del dollaro nel commercio internazionale del petrolio. I paesi stanno cercando di passare dal dollaro a un paniere di valute tra cui l’euro, lo yen giapponese, il cinese Yuan, l’oro e una nuova moneta unificata dei principali paesi arabi produttori di petrolio. The Independent ha detto le riunioni sono state confermate da fonti bancarie cinesi e arabe.

La Russia rinnova gli appelli a un mondo multipolare, e a un nuovo sistema di sicurezza europeo

RIA Novosti – 2009/10/14

Barvikha: la Russia continuerà a promuovere l’idea di creare un nuovo organismo di sicurezza pan-europeo, nonostante la decisione degli Stati Uniti di abolire i suoi piani sullo scudo antimissile nell’Europa centrale, ha detto il presidente russo. “Nonostante l’allentamento delle tensioni, la risoluzione di diversi problemi, e il riconoscimento di un ordine mondiale multipolare da parte dei principali attori internazionali, mi sembra opportuno istituire un tale sistema, e noi promuoveremo ulteriormente questa idea”, ha detto Dmitry Medvedev dopo i colloqui con il suo omologo ceco, Vaclav Klaus.

Medvedev ha proposto nell’estate del 2008 d’istituire una organizzazione che garantisca la pace in Europa, in cui nessuno Stato od organizzazione avesse il monopolio. Medvedev ha detto che le organizzazioni e blocchi esistenti, comprese l’UE, la NATO, l’OSCE e l’alleanza post-sovietica CIS, non sono in grado di affrontare tutte le questioni della sicurezza, e che i paesi europei hanno bisogno di un forum per discutere e affrontare le loro. Ha tracciato un parallelo con il gruppo delle 20 nazioni sviluppate e in via di sviluppo, il cui ruolo è diventato più importante dall’inizio della attuale crisi economica mondiale.

Parlando alla conferenza stampa con Medvedev, Klaus ha accolto con favore il disgelo nelle relazioni Russia-USA e la fine della disputa sul previsto radar nella Repubblica Ceca e della base missilistica in Polonia. Mosca ha esaminato i piani di una minaccia alla propria sicurezza. “Sento le tensioni sono placarsi. Sono felice di questo”, ha detto Klaus.

Le relazioni Russia-Cechia erano tese per il consenso di Praga ad ospitare il radar.

Traduzione di Alessandro Lattanzio

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Ahmedinejad e Berlusconi: i due complotti

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Fonte: Claudio Moffa

Uno strano destino sembra accomunare due personalità e due paesi così diversi fra loro: è dal giugno scorso che l’Italia di Berlusconi e l’Iran di Ahmedinejad sono teatro di eventi che solo uno sguardo molto ingenuo potrebbe percepire come casuali o come frutto esclusivo delle “intemperanze” o delle “aberrazioni” dei due leaders.

In realtà, è evidente che si è di fronte a due complotti tesi a destabilizzare i governi di Roma e di Teheran, consacrati dal voto popolare e protesi a cambiamenti capaci di incidere non solo sugli equilibri interni ma anche su quelli internazionali. Le due derive sono, fatte salve le differenze storiche e istituzionali fra i due paesi, molto simili: prima l’aggressione sul piano elettorale, poi la mobilitazione di piazza, infine – falliti i due tentativi, e a fronte della consimile determinazione di Ahmedinejad e Berlusconi a non “mollare” alle pressioni delle rispettive cosiddette “opinioni pubbliche” – l’escalation violenta: alle voci sulla morte di Khamenei, alle violenze di piazza contro Ahmedinejad, e all’attentato stragista del Belucistan, ben corrispondono – tenuto conto delle diversità storiche fra i due paesi – da una parte la diffamazione permanente via internet, tv e “stampa progressista” contro il Presidente del Consiglio italiano, e dall’altra le minacce dirette contro la sua persona. Alcuni, mezzo loffi e mezzo superficialii, minimizzano, ma in realtà quell’istigazione a delinquere via internet di un dirigente del PD di De Benedetti “sparate a Berlusconi”, e il volantino “comunista” che promette la “rivoluzione” contro la maggioranza liberamente eletta dal popolo e dal proletariato italiani, non sono da sottovalutare. Solo per un caso fortuito la bomba del disperato musulmano milanese non è esplosa, altrimenti avremmo avuto anche qui da noi la prima vera e propria strage della strategia della tensione del nuovo secolo: rivolta, oggi, contro il rinnovamento del paese proposto dal centrodestra, così come di quella degli anni Settanta obiettivo era stata l’avanzata di una sinistra non ancora erosa e distrutta dall’egemonismo del giornale partito di De Benedetti (1976). Peraltro, in entrambi gli attentati iraniano e italiano funziona la disinformatio tipica delle strategie complottiste: in Iran, la maschera sunnita per una strage che, come del resto denunciato esplicitamente da Ahmedinejad, puzza lontano mille miglia Mossad (con relative proiezioni anglo-americane); in Italia, le maschere islamica dell’oscuro Mohamed Israfel e quella “comunista”, riedizione becera delle BR del “compagno” Moretti, assassine del filoarabo Moro.

Fin qui gli aspetti esteriori che accomunano le due crisi iraniana e italiana. Ma la forma dei due complotti non permette certo di concludere automaticamente circa l’identità di campo e di minacciato “destino” dei due governi. Una prima differenza sta nell’élite politica che circonda i due leaders: Ahmedinejad è personalità determinata, ma anche prodotto di una generazione diffusa di leaders politici forgiatisi dopo il 1979, e nel pieno di un rivolgimento profondo della società iraniana. Questo anche spiega la ferocia dell’attentato di tre giorni fa, un chiaro tentativo di fare il vuoto attorno al presidente iraniano. Quanto a Berlusconi, egli è invece prodotto soprattutto di se stesso: ha inventato lui stesso il suo partito, sconvolgendo i piani del complotto di Tangentopoli, e ricompattando attorno a sé una parte almeno del ceto politico dei vecchi partiti della prima repubblica. Ma proprio questo rende assai più debole il suo progetto e il suo establishment politico: non c’è alcun ricambio vero nelle fila del centrodestra alla sua leadership, è un dato oggettivo prima ancora che una critica o un apprezzamento.

Ma questo ragionamento riguarda più che altro il futuro, le tenuta nel tempo lungo del programma del centrodestra. La domanda dell’oggi è invece, confrontando le crisi in Iran e in Italia, soltanto questa: riconosciuta l’esistenza di due piani di destabilizzazione consimili nelle forme, si può forse estendere la similitudine alla loro natura ultima? Sono le stesse forze che vogliono eliminare Ahmedinejad, quelle che minacciano in Italia il governo Berlusconi?

La risposta non è semplice: per l’Iran il quadro è sufficientemente chiaro, chi vuole il rovesciamento di Ahmedinejad e la fine del suo programma di sviluppo nucleare è il solito Israele e il solito sionismo oltranzista: non solo oggi Obama resiste, ma persino Bush junior aveva alla fine puntato i piedi contro i tentativi di Tel Aviv di coinvolgere gli Stati Uniti in una aggressione contro Teheran. E’ sempre e solo Israele che predilige la “soluzione finale”, oggi per il “caso Ahemdinejad”, ieri per tutte le altre crisi mediorientali: che riesca o no a tentare questa partita (vincerla è altra cosa), dipenderà dalle pressioni (ad orologeria?) della giustizia israeliana su alcuni leaders politici dello Stato ebraico, dai rapporti interni allo stesso sionismo internazionale e, negli USA, dal braccio di ferro fra Obama e la Rodham Clinton, assediata nel suo Dipartimento di Stato dall’attivismo concorrenziale di George Mitchell e del suo consorte. Una partita sottile e incerta che, fra le altre cose, la dice lunga sulla vacuità delle analisi della solita sinistra antiamericanista, incapace di distinguere fra le proprie condivisibili opzioni e aspirazioni, e i fatti; e fra i tempi lunghi (forse lunghissimi) e lenti (forse lentissimi) della diplomazia obamiana, e la direzione effettiva della strada intrapresa dal nuovo capo della Casa Bianca: il quale, in Honduras come nel Darfur mostra di essere pressato ma nello stesso tempo anche desideroso di liberarsi dalla stretta mortale della “lobby”.

Quanto a Berlusconi, il suo filoisraelismo è plateale e sbandierato ad ogni occasione, ben saldo anche nella composizione della compagine governativa di centrodestra. Cosa che spinge Odifreddi a compiere la sua eroica scelta antisionista attaccando la Gelmini (ma sulla riforma universitaria Giorgio Israel ha detto cose sagge) e collaborando con Il fatto di Travaglio e Colombo, che più filoisraeliani non si può.

Ma le contraddizioni non sono solo del matematico e della sinistra finta antisionista, ma anche, all’opposto, del centrodestra: perché, nonostante l’Afghanistan, nonostante il non riconoscimento di Hamas, ci sono altri capitoli del programma del governo di centrodestra che, commisti al decisionismo del leader del PDL, spaventano molto i poteri forti internazionali: l’alleato Gheddafi, assolutamente necessario per bloccare i flussi migratori senza regole in Italia, è sicuramente – nonostante le belle parole terzomondiste e anticolonialiste con cui il premier italiano ha commentato l’accordo con Tripoli di 14 mesi  fa – molto scomodo, viste certe denunce forti del leader libico contro Israele, l’ONU e la sua in-giustizia internazionale. Di più e più dirompente, l’opzione nucleare è una sfida non solo all’immobilismo interno ammantato di bucolicismo ecologista, ma anche agli equilibri mediterranei. Certo l’Italia non è l’Iran, ma imboccata la strada dell’energia atomica, le iniziali opzioni possono anche mutare o quanto meno essere percepite come mutabili da chi è ossessionato dal monopolio strategico nel settore. Per il nucleare (anche per il nucleare) morì molto probabilmente Mattei.

Infine, per toccare un altro fronte, la manovella aquilana di Tremonti, il meccanismo che ha messo in moto l’attacco ai paradisi fiscali e all’anarchia destabilizzatrice del grande capitale speculativo transnazionale – un avvio che che spiega la ragionevolezza, con tutte le sue contraddizioni, dello scudo fiscale – rischia di incrinare la dittatura finanziaria non solo sull’economia – le questioni cruciali del signoraggio, dello strapotere bancario e appunto dei paradisi fiscali – ma persino sul ceto politico del “mondo libero”: perché quel sta procedendo, sia pure attraverso l’insopportabile mediazione dei “grandi” del mondo (la cui “autonomizzazione” non esaurisce certo il problema) è la possibile liberazione della Politica dalla sua schiavizzazione ad opera del mondo finanziario e dunque massmediatico. La rabbiosa reazione – cadenzata a suon di mignotte e di domande diffamatorie – di Repubblica contro Berlusconi e Tremonti rappresenta appunto questo: non si tratta solo o tanto di invidia personale fra i due big del capitalismo italiano (il “fallito” De Benedetti contro il vincente Berlusconi) quanto della certezza che il centrodestra non si comporterà mai, sotto la guida del suo attuale premier, come il cagnolino addomesticato del centrosinistra postbipolare, istruito giorno per giorno dagli spocchiosi e minacciosi editoriali di Scalfari.

In Italia è Repubblica a giocare, peraltro fin dai tempi del PCI di Berlinguer, Napolitano e Cossutta e delle micidiali campagne polacca e afghana, questo ruolo antidemocratico che svuota le istituzioni repubblicane e il voto popolare della loro legittimità e sacralità costituzionale: all’estero, lo stesso ruolo è svolto oggi dai media cugini, dall’Economist al Times dalla Frankfurter Allegmeine al New York Times, da El Pais a Sky di Murdoch. Il vero impero massmediatico del nostro secolo, altro che Mediaset: l’impero che aggredisce giorno dopo giorno non solo l’Italia di Berlusconi ma anche l’Iran di Ahmedinejad, dipingendolo come una dittatura integralista e feroce, conciostesso creando il terreno – come nel 2001-2003 nei confronti dell’Iraq, e nel 1999 contro la Jugoslavia – per un suo rovesciamento o dall’interno o dall’esterno.

E’ troppo presto per fare di questa coincidenza il punto focale per capire una situazione molto complessa, proponendo conclusioni affrettate: tanto più che, a fronte di certe possibili direttrici “neomatteiane” dell’ENI con cui il centrodestra mostra una sintonia forte, o a fronte del ben diverso atteggiamento nei confronti della Russia di Putin (un paese odiato dalla solita lobby mediatica internazionale, tanto quando l’Iran) la stampa berlusconiana usa esattamente gli stessi clichet quando scrive di Medio Oriente, con toni troppo accesi e netti per poter cercare di leggere “fra le righe” un comportamento solo tattico (un tatticismo che peraltro, se fosse tale, rischierebbe di trasformarsi in un boomerang: un po’ come la scelta di Craxi e Andreotti di partecipare alla guerra d’Iraq del 1991, in controtendenza con lo spirito di Sigonella). Tuttavia, lo svolgersi degli avvenimenti nei due paesi merita anche in futuro un’attenzione comparata per cercare di comprendere quel che accade: in Iran se la campagna internazionale cui è sottoposto il governo di Teheran non ripeta nei meccanismi profondi della disinformazione (prendere un episodio condannabile e amplificarlo a “simbolo” della perfidia del regime) quella contro l’Italia; e in Italia, quali delle componenti della politica internazionale del nostro paese – se quella puramente diplomatica, quella ideologica, o quella “strutturale” intracapitalistica – costituisca alla fine la pietra miliare su cui elaborare una corretta analisi e eventualmente – per chi ne avesse voglia e coraggio – un agire politico diverso.

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