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Channel: Rivista Eurasia – Pagina 327 – eurasia-rivista.org
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La Russia e la sicurezza europea

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Fonte: Rusya al-Yaum News Channel

Nell’ambito del programma “Il tema del giorno” trasmesso dall’emissione araba del canale Russia Today, l’emittente televisa russa ha invitato Tiberio Graziani, direttore di Eurasia.

L’argomento trattato ha riguardato i rapporti tra la Russia e i Paesi europei in relazione alla “sicurezza europea”.

Vengono qui riportati alcuni passi dell’intervista:

“Esistono stretti rapporti tra la Russia ed i Paesi europei che procedono in maniera positiva – ha affermato Graziani -, tuttavia dal punto di vista geopolitico questi Paesi sottostanno alle pressioni degli Usa.  Ad ogni modo, importanti relazioni economiche si stanno sviluppando tra la Russia ed i Paesi europei, specialmente alla luce della crisi finanziaria mondiale causata da Washington”.

Quanto all’iniziativa intrapresa lo scorso anno dal presidente russo Medvedev riguardante la firma di un accordo generale per la “sicurezza europea”, Graziani ha detto: “Credo che i leader europei, in particolare quello francese Sarkozy e la cancelliera tedesca Merkel, saranno costretti a  considerare con la massima attenzione questa iniziativa di Medvedev”.

Per quanto concerne la collaborazione Russia-Nato, ha dichiarato Graziani: “Dopo la Guerra dei Cinque giorni in Caucaso, gli Usa e la Nato si trovano costretti a prendere atto della realtà e ad arrestare necessariamente il progetto di allargamento della Nato verso Oriente”.

“L’unipolarismo è finito, poiché sono emersi altri nuovi poli che ormai vanno considerati nell’ottica di un mondo multipolare”.

La versione integrale dell’intervista può essere vista cliccando qui.

(traduzione dall’originale arabo di Enrico Galoppini)

L’intervista è stata rilasciata a Mosca il 16 settembre 2009 e teletrasmessa il 1 ottobre 2009


Stati Uniti: malgrado la crisi aumentano i bilanci dello spionaggio

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Fonte: voxnr.com

Mentre decine di migliaia di cittadini statunitensi dormono nella loro automobile o sui marciapiedi a causa dell’impatto devastante della crisi economica, il sistema di spionaggio e d’ingerenza degli Stati Uniti raggiunge proporzioni mai conosciute nella storia di questo paese. In quindici anni, secondo le cifre ufficiali, le spese delle 16 agenzie di informazione degli Stati Uniti sono passate da 26 miliardi di dollari (1994) a 75 miliardi, secondo quanto confermato questo 16 settembre, in una conferenza stampa, dallo ” zar” dell’Intelligence USA, Dennis Blair. Peggio ancora, il numero di funzionari utilizzati in questo sistema gigantesco d’infiltrazione, d’intelligence, di disinformazione e di aggressione raggiunge ora i 200.000, senza contare la legione di agenti, di informatori, di collaboratori che la macchina “imperiale” ingrassa in tutti gli angoli del mondo allo scopo di mantenere il suo dominio.

Gli Stati Uniti dispongono della rete di spionaggio più estesa della storia, la cui implicazione in una lunga successione di cospirazioni, di rapimenti, di assassinii e di atti di terrorismo e di sovversione è in gran parte dimostrata.

In cifre assolute, Washington detiene già da alcuni decenni, il record mondiale delle attività di intelligence, non soltanto presso i suoi nemici o nemici supposti ma anche nel sistema governativo ed industriale dei paesi che professano più grande servilismo e gli offrono il più grande appoggio.

SENZA INCLUDERE LA USAID ET SIMILIA

Il gigantesco dispositivo di penetrazione e di disinformazione descritto da Dennis Blair non comprende le filiali del Dipartimento di Stato come l’Agenzia di sviluppo internazionale (USAID), qualificata agenzia per la destabilizzazione internazionale, una macchina particolarmente attiva in America latina, a favore delle oligarchie pro-yankee. Nel frattempo, in Venezuela l’entità più potente della Comunità dell’Intelligence degli Stati Uniti, l’ODNI (Office of the Director of the National Intelligence) è accusato di condurre una campagna di propaganda contro il governo del presidente Chávez, mentre a Madrid, il presidente boliviano Evo Morales denuncia che gli Stati Uniti tramite la USAID, pagano la campagna elettorale dei suoi oppositori.

Nel gennaio scorso, il presidente Obama ha scelto l’ammiraglio in pensione Dennis Blair come capo del sistema d’intelligence, responsabile del briefing che riceve quotidianamente a questo titolo. Originario dello stato del Maine (Nord-est), Blair è stato compagno di studi di Oliver North. Mentre era a capo del Comando del Pacifico, si è distinto per avere fuorviato il presidente Bill Clinton al momento della crisi a Timor est. Il primo “zar” dell’intelligence yankee, nominato da George W. Bush, è stato John Negroponte.

MENTRE LA DISOCCUPAZIONE BATTE NUOVI RECORD

Le rivelazioni di Blair sul bilancio astronomico della Comunità di Intelligence sorprenderanno certamente i contribuenti che si trovano attualmente soffocati dalla crisi economica più dura dagli anni 30. L’ex-ammiraglio ha formulato le sue osservazioni sul pozzo finanziario che dirige, il giorno stesso in cui l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) ha annunciato che gli Stati Uniti sono fra i paesi industrializzati con i dati più allarmanti sull’occupazione, una situazione che peggiorerà ed influirà sui gruppi più vulnerabili: i giovani, gli immigranti e le donne. Secondo tutti gli studi recenti sullo stato dell’economia USA, la maggioranza degli statunitensi si sente soffocata da affitti ed ipoteche, senza parlare delle imposte, e del panico di fronte alla prospettiva di perdere il proprio impiego, come tanti lo hanno già perso, e, di conseguenza, i beni acquistati a credito.

Traduzione di Giovanni Petrosillo

Conferenza IsIAO. Società, religione e politica nell’India contemporanea

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Conferenza del Prof. Prasanna Kumar Nayak (Direttore del Dipartimento di Antropologia, Utkal University, Bhubaneswar, India) dal titolo

Society, Religion and Politics in Contemporary India

Il prof. Fabio Scialpi, Sapienza, Università di Roma e socio dell’IsIAO presenta al pubblico l’oratore.

Mercoledì 14 ottobre 2009 – ore 17,00
Via Ulisse Aldrovandi, 16/A – Roma
Sala conferenze dell’IsIAO

www.isiao.it

La cooperazione russo-italiana nel campo dell’energia prosegue, nonostante la crisi finanziaria internazionale

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Fonte: La Voce della Russia

La Società per azioni italiana “ENEL OGK-5”, che possiede in Russia quasi il 56% delle azioni della Società di generazione elettrica russa – in forma abbreviata “Ogk-5”, ha dichiarato di passare una della quattro centrali elettriche – GRES Reftin sugli Urali – all’uso parziale del carbone del Bacino carbonifero di Kuznetsk, nel sud della Siberia, al posto del carbone del Kazahstan che viene usato attualmente. Alcuni particolari al riguardo sono trattati in una rassegna preparata da Valerij Prostakov.

A prima vista la notizia di cui sopra ha un carattere nettamente tecnico e non è di interesse per un vasto pubblico in Italia. Ma i particolari dell’annuncio che ha fatto la divisione russa dell’ENEL, rivela che si tratta di uno sfruttamento razionale, da parte dei nostri partner italiani, delle possibilità di attività produttiva nell’industria elettroenergetica della Russia.

Il valore energetico del carbone del Bacino calorifico di Kuznetsk raggiunge 6700 chilocalorie per chilogrammo.Contro 4000 kcal. del carbone del Kazahstan. La quota del cenere contenuta nel carbone di Kuznetsk è pari al 6 %- 10 % contro il 40 % nel carbone del Kazahstan. Nella combustione del carbonio di Kuznetsk si produce del 40 % in più di energia termica, si producono meno rifiuti nocivi, si riduce del 66 % l’emissione di polvere nell’aria, aumentano l’affidabilità e la sicurezza dell’approvvigionamento termico della centrale elettrica, si rende più stabile il suo funzionamento nel periodo autunno-inverno, più rigido per condizioni climatiche negli Urali rispetto alla zona europea della Russia. Il comunicato che hanno diffuso i vertici dell’Enel-OGK-5 dice altresì che il passaggio di GRES Reftin all’utilizzo del carbone di nuovo tipo che presenta le caratteristiche fisiche del tutto diverse è un progetto pilota.

Come è noto, una condizione dell’acquisto delle attività messe in asta in Russia era l’attuazione di un programma d’investimento che prevedeva, in particolare; la costruzione di nuovi impianti energetici di un determinato tipo, e la loro messa in funzione entro un determinato termine.

L’Enel è diventata la prima società straniera ad avere accettato tali condizioni e ad avere comprato il pacchetto di controllo di azioni di OGK-5. L’Enel provvede ad assolvere completamente i suoi impegni in Russia. Ogni anno la società italiana investe nell’elettroenergetica russa fino a 15 miliardi di rubli. Nei termini stabiliti – entro il Dicembre 2010, alla GRES Reftin sarà messo in funzione un impianto di una potenza di 410 megawatt del costo di circa 400 milioni di Euro. Un analogo progetto è stato elaborato per un’altra GRES facente parte di OGK-5 – quella di Nevinnomyssk nel Sud della Russia. L’Enel ha concesso alla sua Società figlia in Russia un credito di 50 milioni di Euro per non fermare il finanziamento del suo programma d’investimento nelle condizioni della carenza di fondi liquidi. Il Direttore dell’ENI per i progetti internazionali, Carlo Tamburi, ha dichiarato che la Società intende realizzare in Russia progetti d’investimento anche in futuro nonostante la crisi finanziaria internazionale.

Sulla base degli assetti del gas della Jukos fallita, l’Enel, congiuntamente con l’ENI le cui quote di partecipazione sono in rapporto del 40 % al 60 %, ha costituito la Società “Sever-Energhia” (Nord-Energia). Ora l’Enel sta provvedendo a costituire in Russia, sulla base di questa nuova società, un’impresa verticalmente integrata che si occuperà della produzione di gas e della distribuzione dell’energia elettrica.
In cambio dell’accesso alle risorse russe i partner italiani includono la Gazprom nei loro progetti, in Italia e in paesi terzi.
In particolare, un progetto congiunto è direttamente legato all’ingresso della Gazprom, in volume fino al 33 %, in un’impresa che sotto il controllo dell’ENI partecipa allo sfruttamento del giacimento di petrolio “Elephant” in Libia.
L’Enel, da parte sua, propone al partner russo, di acquistare, a scelta, quote di partecipazione in alcune centrali elettriche in Italia.

La cooperazione russo-italiana nel campo dell’energia prosegue nonostante la crisi finanziaria internazionale.

“GazpromNation. Il sistema Putin e il nuovo Grande Gioco in Asia Centrale” di Stefano Grazioli

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Bisogna aver paura della Russia? E’ tornato il Grande Gioco in Asia Centrale? Qual è il ruolo di Gazprom? Come ha scritto quella vecchia volpe di Evgeni Primakov, ex capo dello spionaggio russo ed ex primo ministro “la Russia è stata analizzata, ma non pienamente compresa. L’ignoranza porta direttamente alla distorsione”. GazpromNation è il libro per capire davvero chi e perché comanda oggi a Mosca e quali sono le strategie del Cremlino sullo scacchiere mondiale, con particolare attenzione allo spazio postsovietico e alle repubbliche dell’Asia centrale.

Stefano Grazioli è nato a Sondrio nel 1969. Dopo la maturità classica al Liceo Piazzi ha studiato a Berlino e Milano, laureandosi in Scienze Politiche all’Università Cattolica nel 1994. Dal 1993 al 1997 ha lavorato in Germania per media italiani e tedeschi (“Deutsche Welle”), prima di trasferirsi in Austria, dove nel 1999 ha conseguito il Master in European Journalism alla Donau Universität. A Vienna ha diretto tra l’altro la redazione online del quotidiano “Kurier” fino al 2002. Collabora con l’Internationales Journalismus Zentrum di Krems an der Donau. Dal 2003 vive tra Bonn, Sondrio e Mosca lavorando come autore freelance per testate svizzere e italiane, occupandosi soprattutto di Russia e Asia Centrale. Con Pierluigi Mennitti ha fondato nel 2009 il sito di informazione indipendente www.esreport.net, East Side Report – Inside Eastern Europe and Central Asia.
In Italia ha pubblicato: I minerali della Valmalenco, La Collezione Grazioli (1992) – La Galassia Neonazista in Germania e Austria (Datanews, 2002) – Vladimir Putin, La Russia e il nuovo ordine mondiale (Datanews, 2003) – Nel nome della Gente, populisti estremisti e leader carismatici nell’Europa d’oggi (Boroli, 2004) – Putin Dixit (lulu.com, e-book, 2008).

Per informazioni sull’acquisto del libro cliccare qui

Non cambia la Ostpolitik

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Fonte: “ESReport”, 5 ottobre 2009

Il nuovo governo di centrodestra tedesco non modificherà di una virgola la politica verso la Russia. Non ci saranno stravolgimenti, ripercussioni, cambiamenti di rotta. Berlino e Mosca continueranno ad avere buoni, ottimi rapporti. Anzi, l’asse si salderà sempre di più. Basta sapere come vanno le cose oggi e dare un’occhiata a qual è stata la strategia al Kanzleramt e al Cremlino negli ultimi vent’anni.

Di più. Si può andare addirittura a ripescare l’inizio della Ostpolitik di Willy Brandt e Walter Scheel per capire come anche Angela Merkel e Guido Westerwelle calcheranno le orme dei loro predecessori, di qualsiasi colore. Chi ventila o addirittura auspica un dietrofront che da Mosca riporti acriticamente e automaticamente verso Washington rimarrà deluso. I tedeschi non sono fessi. Sono pragmatici. E i russi pure. Ma rimaniamo in Germania.

Durante gli ultimi quattro anni alla Cancelleria c’è stata la Merkel e all’Auswärtiges Amt c’è stato Frank Walter Steinmeier, vicinissimo a Gerhard Schröder. Steinmeier ha continuato sulla linea dell’ex leader della Spd: è stato lui a tenere i rapporti con Mosca. L’Ostpolitik è stata cosa socialdemocratica negli ultimi undici anni: sotto Schröder non l’ha fatta certo il ministro degli Esteri in scarpe da tennis, quello Joschka Fischer che fa ora il lobbysta per il Nabucco e la Bmw, destino strano per un verde.

Ma l’amicizia con Mosca prima dell’amico rosso di Putin l’ha curata il buon vecchio cristianodemocratico Helmut Kohl, cancelliere nero per sedici anni (1982-1998) e grande amico prima di Mikhail Gorbaciov poi di Boris Eltsin. Non solo architetto della riunificazione tedesca e dell’ancoraggio della Germania unificata all’Unione Europea, ma anche e soprattutto colui che ha voluto far riappacificare Berlino e Mosca nell’ottica di una nuova partnership continentale. Kohl, Cdu, ha governato con i liberali: il suo ministro degli Esteri Klaus Kinkel è stato il successore di Hans Dietrich Genscher, il padrino di Guido Westerwelle. Tutti gialli all’Auswärtiges Amt.

E così torniamo ancora indietro, quando insieme alla Spd ancora ben viva, quella di Brandt e poi di Helmut Schmidt, il liberale Genscher (praticamente dal 1974 al 1992 sempre agli Esteri in coabitazione prima con cancellieri rossi e poi con quello nero) ha tessuto le reti della Ostpolitik inventata proprio da chi era venuto prima di lui come ministro degli Esteri in una coalizione socialliberale o rossogialla che dir si voglia: Scheel, per nove giorni l’unico cancelliere facente funzioni liberale che la Germania ha mai avuto, poi diventato Bundespresident.

La Germania di oggi, quella del duo Merkel-Westerwelle, piacerà forse un po’ meno a Mosca per la forma, ma sulla sostanza non c’è tanto di nuovo da inventarsi. Con quasi cinquemila imprese tedesche di ogni ordine di grandezza presenti in Russia, gli interessi (reciproci) vanno oltre il colore delle coalizioni. Certo, non è più il tempo delle saune e vodke tra Kohl e Eltsin o delle slittate in famiglia tra Putin e Schröder. Il fattore spettacolo ne risentirà, non il business.

E la Ostpolitik la faranno da oggi ancor più Eon, Basf e compagnia che non il simpatico Guido, i cui elettori vengono proprio da quei settori dell’industria e della finanza che vedono nella Russia un “partner irrinunciabile”.

Più che una semplice “impasse”. Modelli in contrasto, visioni geopolitiche e MERCOSUR

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L’Argentina nel corso della sua storia ha sperimentato diversi modelli di sviluppo economico. Inizialmente fu quello agro-esportatore che, vincolato agli scambi con l’Inghilterra ed al commercio internazionale, andò in crisi negli anni ’30. Si tentò allora un’industrializzazione sostitutiva, prima sotto la guida peronista e poi sotto quella radicale, inframmezzate però da colpi di Stato militari. Negli anni ’70 anche questo modello fu accantonato per una politica neoliberista ortodossa, condotta prima dai militari e poi da Menem, i cui effetti furono però disastrosi economicamente e socialmente. L’Argentina ha pagato duramente questo fallimento all’inizio del nuovo millennio, ma sotto la gestione di Duhalde prima e di Nestor Kirchner poi, è riuscita a riprendersi. Davanti a sé si aprono ora due possibili strade: adottare un modello agro-industriale, che rischierebbe però di trasformare l’Argentina in una mono-cultura di soia da esportazione (con conseguente “malattia olandese”), oppure uno industriale diversificato, che beneficerebbe l’intera popolazione. Ma perché questa seconda via di sviluppo abbia successo, è necessaria una forte integrazione nel MERCOSUR e una solida alleanza col Brasile.

Titolo: Più di una semplice “impasse”. Modelli in contrasto, visioni geopolitiche, MERCOSUR
Autori: Alberto J. Sosa e Cristina Dirié
Numero rapporto: 2
Data di pubblicazione: 11 ottobre 2009 (ed. originale del maggio 2009)
Leggi il Rapporto pdf (1,3 MB)

Prospettive della sicurezza cooperativa in Eurasia centrale

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Fonte: http://en.fondsk.ru/ 07.10.2009

Il ritiro del sistema anti-missile degli Stati Uniti dall’Europa dell’Est, ha portato al dibattito sulle prospettive di un sistema cooperativo di sicurezza in Eurasia centrale. Il sistema anti-missile annunciato dall’amministrazione di George Bush Jr. nel 2007, aveva portato a gravi tensioni nella regione, quasi a ricordare la rivalità della guerra fredda. Con il nuovo presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, che si concentra a ‘resettare’ le relazioni con la Russia, la prospettiva della cooperazione Russia-USA appare luminosa nella regione dell’Eurasia centrale, con la Russia che già permette il transito nel suo territorio per rifornire l’Afghanistan e rimodellare la sua posizione nei confronti dell’Iran, in materia di disarmo nucleare.
Lo scudo anti-missile è stato svelato nel gennaio 2007. Esso mirava a implementare dal 2012 un sistema radar nella Repubblica Ceca e 10 intercettori in Polonia. Lo scopo principale dello scudo anti-missile, come affermato dai diplomatici degli Stati Uniti, era quello di intercettare i potenziali attacchi missilistici dagli ‘Stati canaglia’, come la Corea del Nord e l’Iran. Alle obiezioni che i paesi come l’Iran non hanno missili che possono colpire gli Stati Uniti o l’Europa, i sostenitori dello scudo hanno affermato che ciò riguardava il possibile possesso di tali armi nel prossimo futuro. Sia la Polonia che la Repubblica Ceca hanno espresso la volontà di ospitare nei loro territori, i componenti del sistema di difesa missilistico degli Stati Uniti.
Mentre gli Usa hanno giustificato ciò col fatto dei pericoli da parte degli ‘Stati canaglia’, la Russia l’ha considerata una mossa per minare la sicurezza della Russia e la sua sfera di influenza. Il rifiuto degli Stati Uniti della proposta della Russia, per un utilizzo congiunto della stazione radar di Gabala, in Azerbaigian ha dato luogo al sospetto dell’uso del sistema anti-missile contro la Russia e i suoi alleati. L’opposizione russa ha trovato forte risonanza nella conferenza di Monaco, nel febbraio 2007. Definendo il progetto statunitense un elemento di disturbo, l’allora presidente russo Vladimir Putin ha avvertito l’inevitabilità di una corsa agli armamenti. Ha anche risposto che le prospettive di un attacco missilistico da parte degli stati canaglia come la Corea del Nord, attraverso l’Europa occidentale, sono ‘in evidente contraddizione della legge della balistica’, poiché si possono colpire gli Stati Uniti attraverso il Pacifico. E per quanto riguarda l’Iran, Putin ha affermato che il paese è ben lungi dall’essere in grado di effettuare una tale attacco.
La situazione ha una nuova svolta, dopo che Obama è salito al potere nel gennaio 2009. Ha tentato di modificare i metodi del suo predecessore. Anche lo scenario prevalente necessitava di una correzione di rotta. Come riportato, i programmi missilistici stavano diventando difficili da sostenere, di fronte ai suoi apparenti insuccessi. Dalla fine degli anni ‘80, gli Stati Uniti hanno speso circa 150 miliardi di dollari per sviluppare tali sistemi. La rivelazione sul ‘Wall Street Journal’ del 17 settembre 2009 che, il “piano dell’Iran per entrare in possesso di missili a lungo raggio non ha fatto quei progressi rapidi, come era stato precedentemente previsto”, potrebbe avere incoraggiato il governo degli Stati Uniti a ritirare il piano. Gli altri fattori come, ad esempio, il sostegno della Russia alla lotta al terrorismo e all’estremismo in Afghanistan, portare l’Iran nell’orbita della non proliferazione nucleare, e le differenze con potenze europee come Germania e Francia, avrebbe motivato l’amministrazione Obama a ritirare il piano dell’antimissile, nonostante l’opposizione di alcuni alleati europei, in particolare in Polonia e Repubblica ceca, dove il sistema doveva essere installato.
Il presidente russo Dmitry Medvedev ha accolto favorevolmente l’iniziativa degli Stati Uniti. Sebbene il ritiro inaugurerà una nuova era della cooperazione tra gli Stati Uniti e la Russia o meno, si vedrà nei prossimi giorni, ma resta il fatto che il ritiro ha infuso fiducia in entrambi i giocatori nel definire un approccio comune su una varietà di temi, tra cui due sono molto importanti.
In primo luogo, entrambi i paesi sono vicini a sviluppare un approccio comune sulla questione Iran. Al vertice del G20 a Pittsburgh, nel settembre 2009, Medvedev ha descritto la costruzione del secondo impianto di arricchimento dell’uranio a Qom, in Iran, come ‘fonte di grave preoccupazione.’ La Russia ha già ritardato il programma per consegnare all’Iran il sistema di difesa S-300. Secondo quanto riferito, ha rifiutato di vendere all’Iran i più avanzati sistema di difesa S-400. Ha anche esortato l’Iran a rispettare le norme e i regolamenti internazionali in materia di non proliferazione nucleare. In questo contesto, l’incontro delle sei parti con l’Iran, il 1° ottobre 2009 a Ginevra, è stato un passo positivo. Nel corso della riunione, l’Iran ha accettato di aprire all’ispezione il suo impianto di arricchimento dell’uranio a Qom. Ha inoltre deciso di inviare la maggior parte del suo uranio arricchito in Russia e in Francia, per trasformarlo in combustibile per la produzione di isotopi medici. Il direttore dell’Agenzia internazionale dell’energia atomica (AIEA), Mohamed ElBaradei, ha correttamente indicato, in un’intervista, che, nel caso dell’Iran ‘il linguaggio della forza è inutile. Conduce al confronto …’ Il gruppo di ispezione dell’AIEA dovrebbe visitare il sito nucleare il 25 ottobre 2009. I tentativi della Russia per rendere trasparente il controllo del programma nucleare dell’Iran, può essere una indicazione positiva verso la emergente cooperazione sulla sicurezza nella regione.
In secondo luogo, la Russia ha espresso il suo sostegno alle forze della coalizione nella lotta contro le forze talian nella regione. Anche se di recente, gli Stati Uniti hanno compreso che l’enigma afgano non può essere risolto agendo da soli e devono avere fiducia verso gli altri giocatori, come la Russia. La comprensione degli Stati Uniti di una cooperazione reciproca e la lungimiranza della Russia nel cogliere l’occasione, ha portato a un clima di reciproca collaborazione nella lotta contro la minaccia dei taliban. La situazione in Afghanistan s’è protratta troppo a lungo. Ora si comprende che nel quadro internazionale, e con la collaborazione di altre potenze regionali, sarà possibile contenere la minaccia.
La recente riunione di Ginevra delle sei parti, sulla questione Iran, è un passo nella giusta direzione, come dimostra le prospettiva della cooperazione sulla sicurezza nella regione, dopo una rivalità prolungata e intensa. Il recente rapporto dell’Unione Europea, che punta il dito contro la Georgia per l’avvio della guerra dell’agosto 2008, è giunto anche come una rivendicazione della posizione della Russia sul conflitto trans-caucasico. Ha rafforzato la posizione russa nella regione, corroborandone la posizione sulla questione. Una Russia fiduciosa, può utilizzare lo scenario prevalente per ulteriori suoi interessi nella sicurezza nella regione, in un quadro di collaborazione. Non ci si può forzare a predire se l’alleanza Medvedev-Obama sarà in grado di eliminare la maggior parte delle animosità e di portare avanti la costruzione della architettura della cooperazione per la sicurezza in Eurasia centrale.


Il Dr Debidatta Aurobinda Mahapatra è un ricercatore presso il Centre for Central Eurasian Studies, Università degli Studi di Mumbai, India.

Traduzione di Alessandro Lattanzio

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Traci ed Etruschi nell’epica antica

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I Traci nell’epica omerica

Nell’epica omerica, la prima menzione dei Traci appare in quella enumerazione delle unità militari troiane e alleate che nel secondo libro dell’Iliade segue il catalogo delle navi achee. Mentre rimane incerto se le tribù dei Pelasgi debbano essere assegnate all’uno o all’altro schieramento, Traci, Ciconi e Peoni sono gli alleati dei Troiani provenienti dai territori balcanici.

Al contingente tracio sono riservati questi due versi: “Acamante e l’eroe Piroo guidavano i Traci, – quanti ne racchiude l’Ellesponto che scorre impetuoso” (II, 844-845). Sulla figura di Acamante Omero ritorna più avanti, allorché ne descrive la morte eroica: “Per primo Aiace Telamonio, baluardo degli Achei, -  spezzò una falange di Troiani e diede luce ai compagni, – colpendo l’uomo che era il migliore fra i Traci, – il figlio di Eussoro, Acamante forte e grande. – Per primo lo colpì, sul cimiero dell’elmo chiomato; – si piantò nella fronte, trapassò l’osso – la punta bronzea; la tenebra gli velò gli occhi” (VI, 5-11). Anche l’altro capo dei Traci, “Piroo figlio d’Imbraso, che era venuto da Eno” (IV, 520), muore eroicamente in battaglia. Dopo aver fracassato una gamba a Diore, Piroo gli conficca l’asta nel ventre, ma viene colpito a sua volta dall’etolo Toante. Questi però non riesce a spogliare il cadavere delle armi, perché i guerrieri traci glielo impediscono: “gli stavano intorno i compagni, -  i Traci dai capelli raccolti in alto, con le lunghe lance nelle mani; – essi, per quanto fosse grande e gagliardo e superbo, lo – ricacciarono lontano da loro; ed egli fu costretto a retrocedere” (IV, 532-535). Dopo la morte di Piroo e di Acamante, alla guida dei guerrieri traci subentra Reso, figlio di Eioneo. Mentre il nome di Eioneo ricorda la città di Eione, sulla foce dello Strimone, quello di Reso proviene dalla medesima radice presente nel lat. rex e nel sscr. râjâ, ma anche nell’etrusco Rhasen-, che secondo Georgiev è un probabile prestito tracio (1).

Dalla citazione contenuta nel libro II vediamo come la Tracia omerica corrisponda ad un’area non molto estesa e comunque non chiaramente determinata nell’entroterra, in particolare per quanto riguarda i confini nord-occidentali. Accanto ai Traci, abitano questo territorio i Ciconi (stanziati tra i fiumi Ebro e Nesto) e i Peoni (stanziati fra lo Strimone e l’Assio). Nella guerra di Troia, “il capo dei Ciconi armati di aste (aichmetàon) era Eufemo, – figlio di Trezeno, il Ceade alunno di Zeus. – Pirecme guidava i Peoni dagli archi ricurvi, – che venivano da lontano, da Amidone, dall’Assio che scorre ampio, – l’acqua del quale si spande bellissima su quella terra” (II, 846-850).

Nei due versi dedicati ai Ciconi si dice soltanto che costoro combattono con la lancia e che sono guidati da Eufemo, del quale vengono indicati il padre e l’avo paterno. Ma il popolo dei Ciconi ricompare nell’Odissea, nella sequenza iniziale (IX, 39-61) del lungo racconto delle avventure di Odisseo alla corte dei Feaci. Salpati da Troia, Odisseo e i suoi compagni sbarcano a Ismaro (città non lontana da Maronea, o forse da identificarsi con essa), la incendiano, rapiscono le donne e saccheggiano le molte ricchezze. Ma i Ciconi passano al contrattacco: “Frattanto, fuggendo, i Ciconi chiamavano i Ciconi – ch’eran loro vicini, più numerosi e più validi, – abitanti dell’entroterra, esperti a combattere – contro i nemici dal carro e, dove bisognasse, anche a piedi. -  E vennero, quante le foglie e i fiori spuntano a primavera, – sul far del giorno” (IX, 47-52).

Quanto ai Peoni, il libro II dell’Iliade dice qualcosa di più: 1) sono arcieri (ma in XXI, 155 sono detti dolichenchéas, “dalle lunghe lance”), 2) vengono da lontano (ma nella rassegna degli alleati telòthen è avverbio ricorrente e quindi generico), 3) la loro capitale è Amidone, sul fiume Assio, l’odierno Vardar, che attraversa la Macedonia e sbocca nel Golfo Termico. “In quel periodo l’area compresa tra le valli del Vardar e dello Struma ebbe la più alta densità di popolazione ed i suoi abitanti funsero da intermediari fra il nord e il sud nella trasmissione di idee e di oggetti” (2). Il capo dei Peoni, Pirecme, è ucciso da Patroclo (XVI, 284-292); un altro dei loro duci, Asteropeo, dice ad Achille, prima di essere ucciso: “Vengo dalla Peonia dalle fertili zolle, che si trova lontano, – guidando i guerrieri peoni dalle lunghe lance; e questa è adesso per me – l’undicesima aurora da quando son giunto ad Ilio. – La mia stirpe discende dall’Assio che scorre ampio, – l’Assio, che su quella terra manda un’acqua bellissima; – egli generò Pelegone famoso per la sua lancia; e lui, dicono, mi – generò” (XXI, 154-160). Vedendo cadere il loro capo, i cavalieri peoni fuggono lungo le rive dello Scamandro; ma Achille li incalza e ne uccide sette: Tersiloco, Midone, Astipilo, Mneso, Trasio, Enio, Ofeleste. Molti di più ne ucciderebbe, se non intervenisse a frenarlo la divinità fluviale (XXI, 205-221).

Ci sono poi altri popoli che nell’Iliade troviamo nominati assieme ai Traci come loro vicini. Fra gli alleati dei Troiani che Dolone elenca a Odisseo vi sono i “Misi superbi” (X, 430), i quali compaiono anche nel libro XIII. Mentre nei pressi delle navi achee infuria la battaglia e Poseidone osserva gli avvenimenti stando seduto “in alto, sulla più eccelsa cima della selvosa Samo – tracia (Sàmou hyleésses Threikìes)” (XIII, 12-13), dalle vette dell’Ida Zeus volge lo sguardo lontano, “guardando alla terra dei Traci allevatori di cavalli, – dei Misi che combattono corpo a corpo (antémachoi), dei nobili Ippemolghi – che si cibano di latte e degli Abii, i più giusti fra gli uomini” (XIII, 4-6). E’ stato notato che “i popoli menzionati, da localizzare tutti a Nord, oltre l’Ellesponto e la Propontide, sono caratterizzati da uno stile di vita che sembra allontanarsi dalla bellicosità verso una sorta di utopistico pacifismo” (3). Infatti, mentre più pacifici appaiono gl’Ippemolghi e gli Abii, i nomi dei quali significano rispettivamente “mungitori di cavalle” e “privi di violenza”, bellicosi sono i Misi, bravi nel combattimento ravvicinato, nonché i Traci, ai quali viene assegnato qui come altrove (cfr. XIV, 227) l’epiteto di hippopòloi, “allevatori di cavalli”, che richiama le attività della guerra.

Ma l’eccellenza dei cavalli traci è immortalata nell’episodio dei destrieri di Reso (X, 470-569). “Ho visto i suoi cavalli, bellissimi e grandissimi, – più bianchi della neve, nel correre simili ai venti – e il suo carro è ben adorno d’oro e d’argento” (X, 436-438). A questa descrizione fatta da Dolone corrispondono le parole ammirate del vecchio Nestore, colpito come gli altri Achei dall’incomparabile bellezza degli animali: “Sono terribilmente simili a raggi di sole. – Io sono sempre in mezzo ai Troiani e vi dico che mai non – rimango presso le navi, benché sia un vecchio guerriero; – ma tali cavalli non vidi né scorsi mai. – Penso che un dio, incontrandovi, ve li abbia dati” (X, 548-551).

Alla vocazione dei Traci per la guerra si connettono l’imponenza, la bellezza e il pregio delle loro armi. “Belle” (kalà) e “ricche di fregi” (poikìla) (X, 472, 504) sono le armi dei guerrieri traci arrivati a dar man forte ai Troiani (X, 471-473); quelle di Reso, in particolare, sono “armi auree, gigantesche, meraviglia a vederle – (…) non a uomini mortali si addice – portarle, ma a dèi immortali” (X, 439-441). Una spada (xìfos) tracia di grandi dimensioni è l’arma con cui l’indovino Eleno, figlio di Priamo, abbatte Deipiro (XIII, 576-577). La “spada (fàsganon) con le borchie d’argento, – bella, tracia” (XXIII, 808-809) che era appartenuta ad Asteropeo è uno dei premi che vengono messi in palio da Achille durante i giochi in onore di Patroclo.

Da una similitudine contenuta in XIII, 298-305 possiamo dedurre che l’amore dei Traci per le armi e per la guerra è dovuto al fatto che Ares è originario della loro regione. Infatti Ares “rovina dei mortali” (brotoloigòs) e suo figlio Fobos “forte ed impavido” (krateròs kaì atarbès), “che mette in fuga (efòbese) anche il guerriero più ostinato” (XIII, 300), partono dalla Tracia per portare la guerra agli abitanti di Efira o di Flegia, due città della Tessaglia in conflitto fra loro. Anche nell’Odissea, laddove termina il canto dell’aedo Demodoco sugli amori di Ares e di Afrodite, troviamo una scena che ci presenta la Tracia come patria di Ares: appena Efesto scioglie la catena con la quale ha imprigionato i due amanti, Afrodite corre subito a Cipro, mentre Ares se ne va d’un balzo in Tracia (VIII, 359-366).

Oltre ad Ares, c’è un altro dio al quale Omero sembrerebbe attribuire un rapporto con la Tracia: si tratta di Dioniso, per quanto la Tracia non sia mai evocata nei quattro luoghi omerici in cui viene nominato questo dio. Il più ampio di tali luoghi (Iliade, VI, 130-141) ricorda una teomachia punita: Licurgo, che perseguitò Dioniso e le nutrici del dio, costringendo quest’ultimo a cercare scampo nell’abbraccio di Teti, fu punito da Zeus con la cecità e con la morte prematura. Licurgo, evidentemente ben noto agli ascoltatori dell’aedo in quanto famoso guerriero, viene detto soltanto “figlio di Driante”, per cui “manca ogni notizia sulla sua qualifica, sul popolo, sul luogo” (4); tuttavia, “che Licurgo, figlio di Dryas, sia originario della Tracia è dimostrato dalla sua genealogia” (5). O forse, se volessimo esser più cauti, dovremmo dire che “la tradizione secondo la quale il nemico di Dioniso sarebbe stato un re del popolo tracio degli Edoni, nella regione del Pangeo, probabilmente trasse origine dalla fabulazione di un autore posteriore a Omero” (6): magari da Eschilo, che negli Edoni (prima parte di una perduta Licurgia) collocò esplicitamente nell’ambiente tracico la storia cantata da Omero, o da Sofocle, che nel quarto stasimo dell’Antigone (vv. 955-965) attribuisce il titolo di “re degli Edoni” (Edonôn basileùs) all’”ardente figlio di Driante”. D’altronde, sempre per ragioni di cautela, non sarebbe fuor di luogo obiettare che anche il “sacro Niseo” (egàtheon Nyséion), attraverso il quale avvenne la fuga di Dioniso, non può essere identificato in maniera univoca con il Pangeo o comunque con “una località della Tracia” (7), poiché, nonostante gli scoli dell’Iliade rimandino ad una Nisa di Tracia, furono chiamate Nisa o Niseo molte montagne associate ai misteri dionisiaci e i mitografi situarono nelle regioni più diverse (Caucaso, Arabia, Egitto, Libia) la montagna su cui Dioniso era stato allevato.

Dalla Tracia, infine, provengono altre due entità divine, i nomi delle quali significano rispettivamente “sibilante” e “tenebroso”: “due venti sconvolgono il mare pescoso, – Borea e Zefiro, e questi due soffiano dalla Tracia, – giungendo all’improvviso; e immediatamente un’onda nera – si gonfia e riversa molte alghe lungo la riva” (IX, 4-7). Da ciò si può dunque legittimamente dedurre, anche se Omero non lo dice in maniera esplicita, che si trovi in Tracia la casa di Zefiro, nella quale si trovano riuniti a banchetto tutti quanti i Venti allorché Iride reca loro il voto di Achille: l’eroe promette un bel sacrificio a Borea ed a Zefiro, qualora facciano avvampare il rogo su cui giace Patroclo. I due venti si levano “con prodigioso fragore”, sconvolgendo il mare si precipitano a Troia e per tutta la notte agitano le fiamme della pira, “soffiando sonoramente” (XXIII, 193-218).

1. Vladimir I. Georgiev, Introduzione alla storia delle lingue indeuropee, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1966, pp. 129 e 273.

2. Alexander Fol e Ivan Marazov, I Traci. Splendore e barbarie di un’antica civiltà, Newton Compton, Roma 1981, p. 124.

3. Guido Paduano, Commento, in: Omero, Iliade, Einaudi-Gallimard, Torino 1997, p. 1142.

4. G. Aurelio Privitera, Dioniso in Omero e nella poesia greca arcaica, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1970, p. 83.

5. Karl Kerényi, Dioniso. Archetipo della vita indistruttibile, Adelphi, Milano 1992, p. 172.

6. Henri Jeanmaire, Dioniso. Religione e cultura in Grecia, Einaudi, Torino 1972, p. 62.

7. Walter Friedrich Otto, Dioniso. Mito e culto, Il Melangolo, Genova 1990, p. 65.

I Traci nell’Eneide

Nell’Eneide il nome della Tracia compare (una volta sola) nella forma Thraca, preferita dai poeti (Hor., Carm. 3, 25, 11; Epist. 1, 3, 3; 16, 13; Ovid. Fast. 5, 257; Pont. 4, 5, 5) ma usata anche da Cicerone. Il passo relativo è una similitudine che vuol rendere più efficace la descrizione del furore guerriero di Turno, allorché questi incita con violenza  i cavalli a passare sui cadaveri dei nemici:  “Come quando, presso le correnti del gelido Ebro, impetuoso – l’insanguinato Marte (Mavors) percuote lo scudo e i furenti – cavalli incita, movendo guerra (quelli per l’aperta pianura – volano avanti al noto e allo zefiro, geme sotto i colpi degli zoccoli la remotissima – Tracia (ultima Thraca) e intorno i volti dell’atra Paura (Formidinis), – dell’Ira (Iraeque) e dell’Insidia (Insidiaeque), corteo del dio, si agitano) – …” (XII, 331-336). Facile notare, qui, come Virgilio riprenda il collegamento omerico della Tracia con Marte e con altre divinità guerriere, collegamento che ricorre anche nel passo in cui, per l’unica volta, l’Eneide enuncia il nome dei Traci (Thraces, con la vocale finale breve, che riproduce la quantità del corrispondente nominativo greco (1). È il passo in cui Enea rievoca l’approdo della flotta degli esuli troiani alle foci dell’Ebro: “Lontano (procul), sacra a Marte (Mavortia), è abitata una terra dalle vaste pianure – (l’arano i Traci), su cui regnò un tempo il crudele Licurgo, – ospizio antico per Troia, stanza di Penati alleati, – finché durò la fortuna” (III, 13-16).

Comune a questi due passi è il tema della lontananza della Tracia, tema che ritorna – con l’aggettivo supremus, -a, -um - nel punto in cui Clauso di Curi, progenitore della gens Claudia, atterra sei guerrieri traci del seguito di Enea: “tre Traci (Threicios) della stirpe remota di Borea (Boreae de gente suprema) - e tre che il padre Ida e la natale terra di Ismaro hanno mandati” (X, 350-351). Borea, figlio di Astreo e di Eos, che spira dalla Tracia ed è il più violento fra tutti i venti, è dunque il capostipite di un clan di quella regione. Altrove Borea è detto “edonio”  (XII, 365), con epiteto che rimanda agli Edoni, popolazione tracia stanziata lungo lo Strimone.

La lontananza della Tracia spiega, in Virgilio, quella “indifferenza per la precisione geografica” (2) che emerge laddove le Amazzoni, pur essendo “tracie” (Threiciae) (XI, 659), vengono tuttavia connesse col fiume Termodonte, che tracico non è, in quanto scorre in Cappadocia. A parte ciò, la figlia cacciatrice di Arpalico, re della popolazione tracica degli Amimnei, viene correttamente collegata col principale fiume della Tracia: “sfianca i cavalli la tracia – Arpalice (Threissa Harpalice) e nella corsa supera l’Ebro volante” (I, 316-317).

Tracio è Orfeo, del quale Virgilio ha già cantato la storia nel IV delle Georgiche. Il mitico vate, che “poté richiamare l’anima della sposa – fidando nelle corde canore della tracica cetra (Thraeicia cithara)” (VI, 119-120), ci viene presentato per primo tra tutte le anime che dimorano nei Campi Elisi: “E in lunga veste il sacerdote tracio (Thraeicius sacerdos) – modula il canto in ritmo per gl’intervalli delle sette note – ed or con le dita or con l’eburneo plettro le tocca” (VI, 645-647). L’insistere di Virgilio sulla connotazione tracica di Orfeo sembra voler contraddire quelle raffigurazioni in cui il cantore appariva con un aspetto integralmente greco.

Tracia è la ninfa Opis, la vigile ancella di Diana che vendica su Arrunte la morte di Camilla: “la tracia (Threissa) un’alata saetta dall’aurea – faretra estrasse e rabbiosa tese l’arco di corno, – traendo indietro la freccia, finché, curvati, si unirono – i due capi tra loro e con le mani in linea essa toccò – la punta di ferro con la sinistra e la mammella col nervo e con la destra” (XI, 858-862).  Una faretra simile è quella che Enea mette in palio per chi arriverà secondo nella gara della corsa a piedi: “una faretra amazzonica colma di frecce – tracie (sagittis Threiciis), circondata da un’ampia cinghia d’oro – e agganciata mediante una fibbia adorna di una splendida gemma” (V, 311-313).

Nell’immagine dei Traci come popolo bellicoso non manca il tradizionale elemento dei cavalli da guerra d’origine tracia. Un cavallo tracio (Thracius equos) pezzato di bianco è quello montato da Turno, “di cui il furor è la più intima caratteristica” (3), allorché, impaziente di incrociare le armi, l’eroe rutulo marcia verso l’accampamento dei profughi troiani (V, 49-50). Pure di razza tracia è il destriero su cui cavalca il fanciullo Priamo nel ludus Troianus: “un tracio – cavallo (Thracius ecus) pezzato di macchie bianche, che bianche sopra lo zoccolo – le zampe e bianca la fronte ostenta superbo” (V, 565-567). Qui l’aggettivo Thracius non è puramente esornativo, ma sottolinea l’origine traco-troiana del giovinetto, destinato a propagare nel Lazio la schiatta dell’avo, ultimo re di Troia (4). Funzione analoga svolge il medesimo epiteto in un altro brano del medesimo canto, quando Enea premia Aceste, vincitore nella gara del tiro alla colomba, dicendogli: “Dello stesso vegliardo Anchise tu avrai questo dono: – il cratere cesellato, che un giorno il tracio – Cisseo (Thracius Cisseus) come dono prezioso al genitore Anchise – aveva dato, perché lo portasse come memoria e pegno del suo affetto” (V, 535-538). Cisseo, re di Tracia, era il padre di Ecuba (cfr. Eurip. Hec., 3), sicché il passaggio del cratere nelle mani di Aceste intende evidenziare simbolicamente la connessione fra i Traco-Troiani e la nuova Troia che sarebbe sorta sul territorio dell’Italia.

Ma il rapporto fra l’Italia e la Tracia è molto più antico. Secondo la storia tramandata dagli Aurunci e riferita dal re Latino ai profughi troiani, Dardano, il fondatore di Troia, era giunto “alle città idee della Frigia – ed alla tracia Samo, che ora è detta Samotracia (Threiciamque Samum, quae nunc Samothracia fertur)” (VII, 207-208), partendo dall’Italia, “dalla sede tirrena di Corito” (Corythi Tyrrhena ab sede) (VII, 209). “Sede tirrena”, cioè etrusca.

1. R. D. Williams, Aeneidos liber tertius, Oxford 1962.

2. Cinzia Bearzot, voce Tracia in Enciclopedia Virgiliana, Istituto della Enciclopedia Italiana, vol. V, Roma, 1990,  p. 224.

3. Ettore Paratore, La scomparsa e il ritorno di Turno, in: AA. VV., Virgilio nel bimillenario, Herder, Roma 1985, p. 10.

4. Ettore Paratore, Commento a: Virgilio, Eneide, trad. di L. Canali, canti V-VI, vol III, Fondazione Lorenzo Valla, Mondatori, Milano 1979, p. 173.

Gli Etruschi nell’Eneide

Nell’Eneide l’aggettivo di forma greca Tyrrhenus, -a, -um e il corrispondente nome etnico Tyrrheni, -orum sono usati, rispettivamente, come sinonimi degli aggettivi di forma latina Tuscus, -a, -um e dei nomi Tusci, -orum ed Etrusci, -orum.  Tirreno (Tyrrhenus, XI, 612) è anche il nome di un guerriero etrusco alleato di Enea. Significato analogo hanno i termini Lydi, -orum, Lydius, -a, -um e Maeonidae, -arum, poiché Virgilio segue la tradizione erodotea (Herod. I, 94) secondo cui gli Etruschi sarebbero originari della Lidia, i cui abitanti si chiamavano un tempo Meoni (Herod. I, 7); e ciò risulta molto chiaramente dal riferimento alla città di Agilla (Agylla, poi Caere, l’odierna Cerveteri), “dove un tempo la lidia – gente (Lydia gens), illustre in guerra, s’insediò sui colli etruschi (iugis Etruscis)” (VIII, 478-479).

Il fatto che Dardano fosse partito dalla sede “tirrena”, cioè etrusca, di Corito (l’odierna Cortona) e che i fati abbiano indotto il discendente di Dardano a ritornare a Corito e in Italia (Corythum terrasque requirat Ausonias, III, 170) giustifica l’alleanza dei Troiani con gli Etruschi, i quali sono divenuti parte integrante dell’Italia da quando vi si sono insediati. “L’intenzione di Virgilio – scrive il Pallottino – di sottolineare la pertinenza degli Etruschi all’Italia, nonostante la loro provenienza esotica del resto immaginata molto lontana nel tempo, è comprovata in modo esplicito e implicito in diversi passi, a cominciare dalle Georgiche (2, 533), dove la crescita della fortis Etruria s’inserisce nel quadro idilliaco dei primordi dei popoli italici” (1). A proporre ad Enea l’alleanza con gli Etruschi è il re della piccola città di Pallanteo, l’arcade Evandro, il quale – vale la pena ricordarlo in questo contesto – porta ai piedi i caratteristici “calzari etruschi” (Tyrrhena vincula, VIII, 457). Tutta l’Etruria (omnis Etruria, VIII, 493) si è sollevata in armi per far giustizia dell’empio tiranno Mezenzio (contemptorque deum Mezentius, VIII, 7, cfr. VII, 648), che, scacciato dal suo regno di Agilla, ha trovato rifugio presso Turno. Gli Etruschi, ai quali un oracolo impedisce di combattere agli ordini di un duce italico, si sono rivolti ad Evandro, ma questi è troppo vecchio e suo figlio Pallante ha una madre sabina (matre Sabella, VIII, 509). Il capo straniero vaticinato dall’oracolo sarà dunque Enea, il quale avrà accanto a sé, oltre alla cavalleria arcade, tutte le forze etrusche. La colonna guidata da Enea si inoltra così nelle selve, finché giunge nei pressi di Agilla, vicino al luogo in cui è accampato l’esercito etrusco guidato da Tarconte (Haud procul hinc Tarcho et Tyrrheni tuta tenebant – castra locis, VIII, 602-603), “dove dovrebbe immaginarsi Tarquinia” (2).

Dopo che Enea e Tarconte hanno stipulato il patto di guerra, “la gente lidia s’imbarca, per ordine divino – affidandosi a un duce straniero” (classem conscendit iussis gens Lydia divum, - externo commissa duci, X, 155-156). Il catalogo delle trenta navi (X, 163-214) ci offre la rassegna delle forze etrusche alleate dei Troiani. Massico guida mille arcieri di Chiusi e di Cosa; Abante (torvos Abas, X, 170) porta con sé seicento guerrieri di Populonia e trecento dell’Elba; Pisa, “città alfea per origine, – ma etrusca per suolo” (alpheae ab origine Pisae, - urbs Etrusca solo, X, 179-180), fornisce mille uomini armati agli ordini dell’aruspice Asila (hominum divumque interpres Asilas, X, 175; Asture (pulcherrimus Astyr, X, 180) ha al suo seguito trecento uomini provenienti da Cere, dai campi del Mugnone, da Pirgo e da Gravisca (qui Caerete domo, qui sunt Minionis in arvis, - et Pyrgi veteres intempestaeque Graviscae, X, 183-184); un contingente di Liguri è condotto da Cinira e da Cupavone (CinyraCupavo, X, 186); cinquecento armati sono guidati da Ocno, il quale, figlio dell’indovina Manto e del fiume etrusco, ha chiamato col nome materno la città da lui fondata, Mantova, che dalla stirpe etrusca deriva il proprio vigore (fatidicae Mantus et Tusci filius amnis, - qui muros matrisque dedit tibi, Mantua, nomen, - (…) Tusco de sanguine vires, X, 199-203); infine, con un seguito non precisato, viene Auleste (gravis Aulestes, X, 207), che una leggenda vuole fondatore di Perugia (Serv. ad Aen. 10, 198), anche se Virgilio qui non ne riferisce la città di provenienza e altrove (XII, 290) lo dice semplicemente “re etrusco” (rex Tyrrhenus).

Perugia, dunque, non viene menzionata, così come non vengono menzionate importantissime città dell’Etruria quali Arezzo, Fiesole, Veio, Vetulonia, Volsinii, Volterra, Vulci, né Felsina o Spina. Non è menzionata nemmeno Tarquinia, nonostante la parte di grande rilievo assegnata al suo fondatore eponimo Tarconte, capo di tutti gli Etruschi. A spiegazione di ciò sono state ipotizzate varie ragioni (3), tra le quali il fatto che la spedizione degli alleati etruschi è essenzialmente marittima, sicché, mentre coinvolge località portuali minori quali Pirgo e Gravisca, deve per forza escludere le città dell’entroterra; oppure, che Virgilio ha trascelto le città etrusche di fondazione pelasgica; o che avrebbe intenzionalmente escluso quelle città che, come Veio, Tarquinia e Volsinii, ebbero poi un rapporto conflittuale con Roma. Fatto sta che l’Etruria di Virgilio, come ha osservato il Pallottino, “coincide soltanto approssimativamente con l’estensione dell’Etruria VII regione augustea compresa fra il Mar Tirreno, il Tevere e l’Appennino tosco-emiliano” (4).

Il Tevere infatti è ben presente in Virgilio come elemento geografico caratteristico dell’Etruria: il Tuscus Tiberis delle Georgiche (I, 499) nell’Eneide è Tuscus amnis (VIII, 472; XI, 316), Tyrrhenus Thybris (VII, 242), Tyrrhenum flumen (VII, 663), Lydius Thybris (II, 781-782). La forma usata nell’Eneide, Thybris, rimanda ad un re leggendario (etrusco per alcuni, albano per altri) che, secondo il racconto di Evandro, giunse nella Saturnia tellus prima degli Arcadi: “l’aspro Tevere (Thybris) dal corpo immane, – dal quale noi Itali in seguito il fiume col nome di Tevere (Thybrim) – chiamammo” (VIII, 329-331).

Per quanto riguarda i personaggi etruschi dell’Eneide, oltre a quelli che abbiamo già ricordati (Mezenzio, Tarconte, i duci del catalogo) deve essere citato il subdolo Arrunte, il quale, dopo avere atteso l’occasione propizia per colpire Camilla, uccide la regina e poi si affretta a nascondersi tra le file dei compagni (XI, 759-815). Il nome di Arrunte (Arruns, Aruns), tipicamente etrusco, richiama quello del figlio di Tarquinio il Superbo; e l’ultimo re di Roma, figura col lucumone Porsenna sullo scudo di Enea: “E Porsenna ordinava che l’espulso Tarquinio – accogliessero e premeva l’urbe con grande assedio: – gli Eneadi correvano alle armi in difesa della libertà” (VIII, 646-648). D’altronde l’anima di Tarquinio, insieme con quelle degli altri due re etruschi di Roma (Tarquinios reges, VI, 817), è già stata vista da Enea nella valle del Lete.

Vi sono poi personaggi del campo rutulo che recano nomi etruschi: Volcente (IX, 367 ss.), Tàrquito (X, 550), Tolumnio (XI, 429; XII, 258 ss.). Per quanto riguarda Turno, “esiste una discussione aperta circa la possibilità che la sua figura leggendaria possa in qualche modo ricollegarsi originariamente al mondo etrusco” (5).

Ci si è ovviamente domandato da quali motivi Virgilio sia stato indotto “a far d’Enea un etrusco e ad assegnare agli Etruschi tanta parte dell’impresa d’Enea” (6). Certo, fin da epoca remota gli Etruschi esercitarono sul Lazio la loro egemonia e Dionigi d’Alicarnasso (I, 29) ci informa che alla stessa Roma veniva attribuita un’origine etrusca. Ma nemmeno è da trascurare il fatto che Virgilio, oltre a recare un nomen gentilicium e un cognomen probabilmente etruschi, fosse originario di una città che dal sangue etrusco traeva il proprio vigore: Tusco de sanguine vires. “Ma quel che più conta, – è stato affermato – egli aveva anima etrusca; la quale si rivela in quella profonda religiosità che pervade il poema delle origini di Roma, onde tutti gli avvenimenti, in apparenza fortuiti, sono interpretati come segno e manifestazione della volontà degli dèi” (7).

1. Massimo Pallottino, voce Etruschi in Enciclopedia Virgiliana, cit., vol. II, p. 412).

2. Massimo Pallottino, voce Etruschi, cit., p. 413.

3. J. Gagé, Les Etrusques dans l’Enéide, “Mélanges d’Archéologie et d’Histoire de l’École Française de Rome” (Paris), 46, 1929, p. 123 ss.; B. Rehm, Das geographische Bild alten Italiens in Vergils Aeneis, Leipzig 1932, p. 10 ss.; G. Colonna, Virgilio, Cortona e la leggenda etrusca di Dardano, “Arc. Class.” 32, 1980, p. 159 ss.

4. Massimo Pallottino, voce Etruschi, cit., p. 414.

5. Massimo Pallottino, voce Etruschi, cit., p. 414.

6. Bruno Nardi, L’Etruria nell’Eneide, Il Basilisco, Genova 1981, p. 30.

7. Bruno Nardi, op. cit., p. 32.

Relazione presentata al Convegno “Confronto tra mondo etrusco e mondo tracio: storia, arte, archeologia” – Tarquinia, Sala Consiliare del Comune, sabato 10 ottobre 2009.

Minaccia di ripresa del conflitto in Europa: una Grande Albania patrocinata dall’occidente

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Fonte: Mondialisation.ca 10 Ottobre 2009 Stop NATO

L’Europa potè essere appollaiata sul precipizio del suo primo conflitto armato dopo i 78 giorni di bombardamenti della guerra della NATO contro la Jugoslavia, nel 1999 e l’invasione armata della Macedonia, lanciata due anni dopo, a seguito dell’occupazione della NATO del Kosovo.

Con l’adesione formale, nel mese di aprile, dell’Albania alla NATO come membro a pieno titolo e la rielezione (almeno formale) che ne seguì del Primo Ministro della nazione, Sali Berisha, il teatro è pronto per il progetto per una nuova riconfigurazione dei confini dell’Europa sud-orientale, alla ricerca di una grande Albania.

I passaggi precedenti, in questa direzione, sono stati la guerra combattuta dagli Stati Uniti e della NATO contro la Repubblica federale di Iugoslavia, un decennio fa, a nome del cosiddetto Esercito di Liberazione del Kosovo (AKL, in albanese UCK) e di collusione con esso, una violazione del diritto penale internazionale che si è conclusa con la separazione della provincia serba del Kosovo dalla Serbia e dalla Jugoslavia.

50000 soldati della NATO riversati in Kosovo nel giugno 1999, accompagnati dai dirigenti e dai combattenti dell’UCK, basato in Albania, sotto l’egida della risoluzione 1244 delle Nazioni Unite, tra gli altri, ha condannato gli atti “terroristici commessi da entrambe le parti “e” [ribadito] l’impegno di tutti gli Stati membri per la sovranità e l’integrità territoriale della Repubblica federale di Jugoslavia e degli altri stati della regione, secondo l’Atto finale di Helsinki e l’allegato 2“.

Gli Stati Uniti e i loro alleati della NATO non avevano intenzione di rispettare la risoluzione 1244 delle Nazioni Unite e hanno dimostrato il loro disprezzo per un documento che essi stessi avevano firmato, riarmando i combattenti del KLA, che per anni avevano aggredito, sequestrato e ucciso civili di tutte le etniche, e trasformando l’ex gruppo armato separatista nel Kosovo Protection Corps.

La risoluzione 1244 delle Nazioni Unite ordinò espressamente che il KLA ed i suoi affiliati teppisti dovevano essere disarmati, ma le potenze della NATO hanno aggirato tale requisito con un gioco di prestigio, fornendo nuove uniformi, nuove armi e un nuovo nome all’UCK. Ma non un nuovo comandante. Chi è stato scelto per questo ruolo è stato Agim Ceku, comandante dell’esercito croato durante la brutale campagna dell’Operazione Tempesta del 1995: “la più grande offensiva terrestre europea dopo la seconda guerra mondiale” [1] – e capo di stato maggiore dell’UCK durante la guerra in comune con la NATO contro la Jugoslavia, quattro anni dopo.

Incoraggiato dal sostegno militare dell’Occidente nel raggiungere il suo programma separatista, l’UCK ha scatenato i suoi affiliati contro il sud della Serbia e la Macedonia: l’Esercito di liberazione di Presevo, Bujanovac e Medveda nel primo caso, dal 1999, e l’Esercito di Liberazione Nazionale nel secondo, che nel 2001 ha iniziato gli attacchi all’interno della Macedonia, dalla sua base in Kosovo.

Solo la capitolazione del governo della Serbia, dopo l’ottobre 2000 e un accomodamento simile, sotto pressione – pressione occidentale – del governo della Macedonia nel 2001, hanno soddisfatto le aspettative di molti estremisti armati pan-albanesi in entrambe le nazioni, dell’eventuale unificazione che attraversi i diversi confini nazionali, con il sostegno degli Stati Uniti e dei loro alleati della NATO.

La conferma decisiva del sostegno occidentale è venuta nel febbraio 2008, con la dichiarazione unilaterale d’indipendenza delle forze separatiste in Kosovo. L’ex capo del KLA e protetto americano Hashim Thaci, allora Primo Ministro provvisorio, ha dichiarato la secessione dalla Serbia, e la maggior parte dei paesi della NATO si affrettò a gratificare l’entità illegale del riconoscimento diplomatico.

Venti mesi dopo, oltre i due terzi del mondo, compresa la Russia, la Cina e l’India, non hanno legittimato col riconoscimento questo abominio, ma l’Occidente è rimasto fermo nel suo disprezzo per la legge e nel suo sostegno internazionale agli estremisti violenti in Kosovo, che hanno ambizioni più grandi verso l’intera regione, ambizioni incoraggiate dal sostegno consistente degli USA e della NATO, e dalla convinzione che l’Occidente continuerà questo supporto in futuro.

L’Albania è oggi uno Stato membro della NATO e, come tale, è sotto la protezione della clausola relativa alla reciproca assistenza militare dell’articolo 5 della Alleanza, e gli appelli a una Grande Albania, a scapito della territorio di diversi altri paesi europei, sono diventati più forti e più aspri.

In risposta alla crescente campagna per estendere il modello del Kosovo nella Serbia meridionale, in Macedonia, in Montenegro e anche in Grecia (Epiro), due mesi fa il Ministro degli affari esteri russo, Sergei Lavrov, ha ammonito le nazioni che considerano di riconoscere la statualità del Kosovo, consigliando loro di “pensarci molto attentamente prima di prendere questa decisione molto pericolosa, che può portare a risultati imprevedibili, e che non ha nulla di buono per la stabilità dell’Europa.” [2]

Nove giorni dopo, il Primo Ministro albanese Berisha ha affermato senza mezzi termini che “il progetto di unità nazionale di tutti gli albanesi dovrebbe essere un faro per i politici in Albania e in Kosovo.” Ha detto con enfasi che, “l’Albania e il Kosovo non devono in alcun modo vedersi come degli Stati esteri.”[3]

Un commentatore russo ha risposto a questa dichiarazione affermando che “ogni tentativo di attuare l’idea di una Grande Albania è simile a quello dell’apertura del vaso di Pandora. Questo potrebbe destabilizzare la situazione nei Balcani e provocare un guerra sul continente, simile a quella della fine degli anni ‘90“. [4]

Parlando del “progetto di una cosiddetta Grande Albania, che abbraccia tutti i territori dei Balcani abitati da albanesi, compreso il Kosovo, parti della Macedonia, Montenegro e di molti altri paesi“, l’analista politico russo Pyotr Iskenderov ha detto che “la dichiarazione d’indipendenza del Kosovo e il riconoscimento di questo atto illegale da parte degli Stati Uniti e dei membri chiave dell’Unione europea, hanno stimolato la realizzazione dell’idea di una cosiddetta Grande Albania.”[5]

Anche il resto della Serbia ne è colpita – nella valle di Presevo nel sud della nazione, dove Serbia, Kosovo e Macedonia confinano – e, analogamente, la Grecia, se dobbiamo credere a un rapporto del 2001. All’epoca, Ali Ahmeti, il fondatore e comandante dell’UCK, e poi capo del National Liberation Army (DLA), che aveva cominciato a lanciare attacchi mortali contro la Macedonia, dalla sua base nella città di Prizren, in Kosovo, è stato indicato come capo glorioso dell’Esercito di Liberazione di Chameria, nella regione dell’Epiro, nel nord-ovest della Grecia, un esercito dotato di un impressionante arsenale di armi.

La bandiera nazionale introdotta dal febbraio 2008, contiene un profilo del Kosovo, con sei stelle bianche sopra di esso. Ciò che non è stato riconosciuto, per ovvi motivi, è che le stelle sono chiamate a rappresentare le nazioni con popolazione di etnia albanese come Kosovo, Albania, Serbia, Macedonia, Montenegro e Grecia.

L’addestramento militare e la capacità di combattimento dei gruppi separatisti e irredentisti pan-albanesi sono aumentati ad un livello superiore, rispetto al passato, grazie ai grandi paesi della NATO. Nel marzo la Kosovo Force guidata dalla NATO (KFOR) ha cominciato a riorganizzare il Corpo di Protezione del Kosovo, che è una copertura dell’Esercito di liberazione del Kosovo, in un embrionale esercito nazionale, la Forza di Sicurezza del Kosovo, il cui capo di stato maggiore è il tenente generale [Generale di Corpo d’armata] Sylejman Selimi, in transizione diretta dal comando del Corpo di protezione del Kosovo. Un simpatico reportage dello scorso dicembre, ha descritto più precisamente la sua nuova posizione di Capo di Stato Maggiore dell’Esercito della Repubblica del Kosovo. [6]

La Forza di Sicurezza in Kosovo (FSK), come il Corpo di Protezione del Kosovo, prima che fosse vantato dai circoli occidentali come una presunta forza di polizia multietnica, non è né etnica, né una forza di polizia, ma un esercito alle prime armi, un esercito che il sedicente presidente del Kosovo, Fatmir Sejdiu, a giugno ha definito come “una forza moderna, che è costruita in conformità con gli standard della NATO“. [7]

Nello stesso mese, la NATO ha annunciato che l’esercito prototipo del Kosovo sarebbe stato pronto a settembre, e “che la NATO dovrebbe aumentare la sua capacità di monitoraggio all’interno del FSK, al fine di garantirne una migliore efficienza“. [8]

Una precedente relazione del Kosovo ha dimostrato, inoltre, che le nuove forze armate dell’entità illegittima sarebbero niente più che un accessorio militare della NATO: “La forza di sicurezza deve essere addestrata da funzionari dell’esercito inglese, le divise sono state fornite dagli Stati Uniti ed i veicoli sono stati forniti dalla Germania. “La forza di sicurezza in Kosovo deve essere conforme agli standard della NATO.” [9]

A febbraio, per tale procedimento, l’Italia ha annunciato di voler donare 2 milioni di euro e la Germania avrebbe dato 200 veicoli militari per l’esercito. Il Comandante supremo alleato della NATO in Europa, al momento, il generale John Craddock, ha viaggiato per il Kosovo per iniziare la creazione della Forza di Sicurezza in Kosovo e ha visitato il campo nazionale di addestramento del FSK, a Vucitrn, un viaggio durante il quale ha detto: “Sono soddisfatto dei progressi fatti fino ad oggi. Alla fine della prima fase di reclutamento, abbiamo 4.900 candidati per 300 posti nell’FSK, in questa prima fase d’arruolamento.” [10]

Nel maggio di quest’anno, il Ministero della Difesa britannico ha firmato un accordo con le forze di sicurezza del neonato Kosovo, per “offrire una formazione ai membri del FSK in diverse aree, secondo gli standard della NATO.”

L’ambasciatore britannico in Kosovo, Andrew Sparks, avrebbe detto: “Ci auguriamo che dopo la firma di questo accordo e l’espansione della nostra cooperazione, il Kosovo riuscirà a diventare un membro della NATO.” [11]

Con i soldati albanesi cui la NATO ha portato l’esperienza delle zone di combattimento in Iraq e in Afghanistan, il nuovo esercito in Kosovo sarà, come le forze armate delle altre nuove nazioni della NATO, utilizzato per le guerre all’estero. Un esempio recente, ad agosto, il capo di stato maggiore generale della Macedonia, il tenente-colonnello generale Miroslav Stojanovski, “fa notare che più di un quarto dei componenti delle unità che del servizio combattente delle AMR (Forze Armate Macedoni), 1746 soldati, hanno partecipato alle missioni di pace“, il che significa che sono stati dispiegati dalla NATO. [12] Ma finora sono stati uccisi più soldati macedoni, nel 2001, dalla National Liberation Army, una sigla del KLA, che quelli morti in Afghanistan e in Iraq.

Una relazione informativa del maggio scorso, fornisce ulteriori dettagli sull’ampiezza originale e sull’obiettivo a lungo termine del nuovo esercito in Kosovo: “Secondo la Costituzione della Repubblica del Kosovo, l’FSK dovrebbe essere formato da 3000 soldati, 2000 attivi e 1000 di riserva. Essi sono organizzati in base agli standard della NATO. C’è anche la possibilità del loro impiego all’estero, garantendo la situazione mondiale in futuro.” [13]

Quando il nuovo Segretario generale della NATO, Anders Fogh Rasmussen, ha fatto la sua prima visita con tale carica, in Kosovo, nel mese di agosto, per incontrare il Comandante della KFOR, Giuseppe Emilio Gay, il presidente del Kosovo Fatmir Sejdiu, il primo ministro Hashim Thaci e il Ministro della Forza di sicurezza del Kosovo Fehmi Mujota, “il presidente del Kosovo, Fatmir Sejdiu, ha dichiarato che sperava che il Kosovo partecipasse alle operazioni per il mantenimento della pace della NATO all’estero.” [14]

L’Afghanistan è il primo schieramento apparente.

Sei anni prima, Agim Ceku aveva offerto truppe del Corpo di Protezione del Kosovo agli Stati Uniti, per la guerra e l’occupazione dell’Iraq, come corrispettivo per il mantenimento delle truppe NATO in Kosovo.

La NATO ha dispiegato in Afghanistan, i soldati di nazioni come la Georgia, Azerbaijan, Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia e Finlandia, per l’addestramento al combattimento in condizioni realistiche, per poi utilizzarli a casa, una volta rientrati, come è stato ammesso apertamente da parte dei funzionari delle forze armate delle nazioni sopra menzionate. Molte migliaia di soldati provenienti dall’Albania e dal Kosovo, induriti dalle operazioni nella zona di guerra afgana, saranno le formidabili forze che combatteranno nei futuri conflitti nei Balcani.

La distinzione tra le forze armate di Albania e del Kosovo, diventa in gran parte accademica. In agosto, il Primo Ministro albanese Berisha ha rilasciato una dichiarazione inequivocabile, secondo cui “l’idea di unità nazionale è fondata sui principi e gli ideali d’Europa …. Così è per il Primo Ministro del Kosovo Hashim Thaci, e io stesso lavoro per la rimozione di tutti gli ostacoli che impediscono agli albanesi di sentirsi uniti, a prescindere dal luogo in cui vivono“, aggiungendo che “non dovrebbe esserci alcuna amministrazione doganale e l’Albania e il Kosovo non dovrebbero guardarsi come dei paesi stranieri…” [15]

L’Albania è ora membro a pieno titolo della NATO, come l’alleanza stessa potrebbe essere chiamata a rispondere, se le autorità del Kosovo provocassero uno scontro con i vicini, come la Serbia, e insistendo nel dire che la Macedonia, l’Albania e il Kosovo non sono “stranieri“. Se l’Albania interviene, in nome del suo “popolo fratello“, in un conflitto militare con la non-opposizione dell’Alleanza, la NATO ne sarà coinvolta ipso facto.

Nel mese di settembre, i ministri degli Esteri della Russia e della Romania hanno espresso serie preoccupazioni per quanto riguarda gli sviluppi relativi al Kosovo. La Romania è uno dei soli tre paesi membri della NATO che non ha riconosciuto l’indipendenza del Kosovo, gli altri sono la Spagna e la Slovacchia. Tutte e tre le nazioni sono preoccupate del fatto che il precedente del Kosovo contribuirà alla divisione armata del proprio paese.

Il portavoce del ministero degli Esteri russo, Andrei Nesterenko, ha detto che un “significativo potenziale conflitto”, persisterà in Kosovo, e che si aspettava che i rappresentanti della comunità internazionale agiscano in modo imparziale, per evitare “ulteriori provocazioni anti-serbe“.

Egli ha aggiunto che “gli eventi della provincia mostrano un significativo potenziale di conflitto resta, e che i più recenti scontri inter-etnici sono stati il risultato della volontà dei cittadini albanesi in Kosovo a comprimere, a tutti i costi, il territorio dell’etnia serba”, e che “In generale, il problema del Kosovo rimane uno dei problemi più gravi che affliggono la sicurezza regionale.” [16]

Per nulla intimidita, la NATO ha annunciato il 16 settembre, sul suo sito web della KFOR, che la “Kosovo Security Force” (FSK) ha acquisito la capacità operativa iniziale (IOC). “La decisione è stata presa dopo l’esercitazione ‘Lion Agile’, che è stato il culmine di poco più di sette mesi di duro lavoro della KFOR e della FSK nel reclutare, addestrare ed equipaggiare la forza. Il prossimo obiettivo dell’FSK è quello di raggiungere la piena capacità operativa. La KFOR controllerà e sosterrà questo processo, che dovrebbe richiedere da 2 a 5 anni.” [17]

Il giorno prima, il nuovo ambasciatore USA in Kosovo, Christopher Dell, aveva firmato il primo accordo interstatale degli Stati Uniti con l’entità secessionista, dimostrando “l’impegno dell’America per un Kosovo indipendente“, con Fatmir Sejdiu e Hashim Thaci. Il presunto presidente Sejdiu ha dichiarato, nell’occasione: “Questo accordo alza il livello di cooperazione tra il Kosovo e gli Stati Uniti, non solo attraverso vari organismi degli Stati Uniti e del Kosovo, come è stato fino ad ora.” [18]

Ciò che l’estensione del “Kosovo indipendente” suggerisce, è stato indicato alla fine di settembre, quando la polizia serba aveva scoperto un nascondiglio di armi di grandi dimensioni, nella vicina valle di Presevo, alla frontiera di Serbia-Kosovo-Macedonia, e che comprendeva “mitragliatrici, bombe, lanciarazzi, 16 bombe a mano e più di 20 mine e un grosso quantitativo di munizioni” [19], e più tardi, ai primi di ottobre, quando la polizia di frontiera macedone è stata “attaccata con armi automatiche, mentre pattugliava il confine con il Kosovo…” [20].

Ciò che può essere ugualmente nei depositi, è stato rivelato alla fine del mese scorso, quando la Germania ha espulso il primo dei 12.000 Rom (zingari) che rispedisce con la forza in Kosovo. Verso l’esclusione, le persecuzioni, gli attentati e la morte. I Rom che restano rischiano di morire nei rifugi, dove la missione dell’amministrazione provvisoria dell’ONU in Kosovo (UNMIK) li ha abbandonati, dopo l’assunzione del controllo della provincia da parte della NATO e dell’UCK, nel giugno 1999.

I campi, nei pressi di un complesso minerario e metallurgico chiuso, che ospita scorie di materiali tossici per 100 milioni di tonnellate, sono state considerate come una misura temporanea, dopo che un quartiere, che era stato la casa per 9000 zingari, è stato distrutto dagli albanesi, dopo che le forze di sicurezza serbe avevano lasciato la zona, negli ultimi giorni del conflitto in Kosovo, nel giugno 1999.”[21]

A poche settimane prima che la Russia aveva avvertito che sta valutando “fermare la missione dell’OSCE [Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa] in Kosovo istituito per proteggere i diritti delle comunità etniche inaccettabile“.

L’ambasciatore russo presso l’OSCE, Anvar Azimov, ha dichiarato: “Queste misure, sanzionate da nessuno, sono unilaterali e riguardano l’attività complessiva del mandato di questa missione.” [22]

Il 5 Settembre, un notiziario serbo ha riferito che più di 200000 rifugiati provenienti dal Kosovo sono stati registrati in Serbia, comprese l’etnia serba, Rom, Gorani e altri non-albanesi. Questo numero non comprende coloro che non erano iscritti, coloro che erano fuggiti in altri paesi, come la Macedonia, e quelli cacciati dalle loro case, ma rimasti in Kosovo.

Negli ultimi dieci anni, centinaia di migliaia di abitanti del Kosovo, anche di etnia albanese, sono stati uccisi e cacciati dalla provincia. Organizzazioni Rom hanno stimato che il numero di rom, ashkali ed egiziani colpiti arriva alle sei cifre. Serbi, Gorani, turchi, bosniaci, montenegrini e altre vittime del terrore razziale e dello sterminio in Kosovo si contano anche loro a centinaia di migliaia.

I media occidentali hanno detto regolarmente, ormai da dieci anni, che il Kosovo è per il 90 per cento di etnia albanese. Potrebbe anche essere il caso adesso, dopo un provvedimento del genere su larga scala, ma le cifre di cui sopra confutano che fosse così in precedenza, in una provincia di non più di due milioni di abitanti.

Dopo la prima dichiarazione del Primo Ministro albanese, che il suo paese e il popolo del Kosovo e il suo sono uno solo, il ministro degli Affari esteri della Russia, Sergei Lavrov, ha emesso una condanna su tale dichiarazione e sul forte coinvolgimento dell’occidente: “Siamo molto preoccupati dalla dichiarazione del Primo Ministro dell’Albania. Riteniamo che ci dovrebbero essere risposte adeguate alla dichiarazione – in primo luogo, dall’UE e anche dalla NATO. Non abbiamo avuto tali reazioni. Ci auguriamo che, nonostante il fatto che non ci siano dichiarazioni pubbliche provenienti dalle capitali europee, i negoziati con le autorità albanesi siano in corso.” [23]

Mosca è preoccupata per le dichiarazioni di Tirana sull’’unità essenziale di tutti gli albanesi’.”[24]

A meno che i commenti di Lavrov siano state rigorosamente retoriche, si dovrà aspettare molto tempo prima che i leader di Stati Uniti, NATO e UE facciano qualche dichiarazione, molto meno critiche, sulle affermazioni di Berisha e delle sue controparti in Kosovo e in Macedonia, per una unica Grande Albania (o Grande Kosovo). Le nazioni della NATO hanno armato, addestrato e dotato di supporto logistico l’Esercito di Liberazione del Kosovo, nella sua guerra contro le forze di sicurezza serbe e jugoslave alla fine degli anni ‘90, sono entrati fianco a fianco con l’UCK in Kosovo e l’hanno istituzionalizzato come Corpo di Protezione del Kosovo, nello stesso anno; hanno sottratto l’Esercito di liberazione nazionale da una pesante sconfitta da parte dell’esercito macedone, nel 2001; l’hanno ricreato quest’anno, come nucleo di un futuro esercito nazionale del Kosovo, la Forza di Sicurezza nel Kosovo, e l’anno scorso hanno riconosciuto la dichiarazione unilaterale d’indipendenza del Kosovo, guidata dal ex leader del KLA, Hashim Thaci.

Non vi è alcuna ragione di credere che Washington e Bruxelles abbandoneranno ora i loro clienti e il loro progetto di sovversione e mutilazione di quattro paesi confinanti, per creare un esteso super-stato Albania-Kosovo etnicamente pulito, in preda alla criminalità, mentre quest’ultimo si avvicina alla sua attuazione.

Il 6 ottobre, Berisha è stato a Pristina, capitale del Kosovo, “a firmare una serie di accordi. Secondo [Berisha], il suo governo lavorerà per completare i progetti di infrastruttura che prevedono l’unificazione dei sistemi economici di Albania e Kosovo, la creazione di vie di comunicazione per il trasporto merci e prevede la migrazione economica della popolazione.” [25]

Un rapporto di fonte italiane della visita, ha detto che “l’Albania ha anche ceduto al Kosovo il porto adriatico di Shendjin (Shengjin), dando ak nuovo Stato indipendente uno sbocco sul mare“. [26]

Nelle parole di Berisha, “il porto di Shengjin è ora l’accesso sul Mare del Kosovo.” [27] L’accesso al mare Adriatico che la Serbia non ha più dal crollo dell’Unione di Serbia e Montenegro, di tre anni fa.

La sua controparte, l’ex capocosca Hashim Thaci, ha fatto eco alla dichiarazione precedente del suo invitato, dicendo: “Gli albanesi vivono in molti paesi, ma siamo una nazione. I paesi della regione hanno due paesi amici nel Kosovo e nell’Albania, paesi partner per la cooperazione, la pace e la stabilità degli investimenti nella regione e per l’integrazione europea“. [28]

Il primo ministro albanese è stato citato, sul sito web del Presidente del Kosovo, il 7 ottobre, promettendo che “l’Albania dovrà assistere il Kosovo in ogni modo possibile. L’Albania è determinata a rinnovare, nel modo più veloce possibile, tutte i suoi collegamenti infrastrutturali con il Kosovo. Nei prossimi quattro anni, la costruzione dell’autostrada Qafe Morine-Scutari è stata completata e darà al Kosovo occidentale un veloce accesso al mare l’anno prossimo, il mio governo attuerà uno studio di fattibilità per sviluppare il progetto di una ferrovia Albania-Kosovo. Molte altre linee ed infrastrutture sono e saranno costruite.” [29]

Berisha ha incontrato anche il comandante della Kosovo Force (KFOR), il tenente generale tedesco Markus Bentler e ha detto: “Le truppe albanesi potrebbero far parte della KFOR”, prima di deporre una corona sulla tomba di Adem Jashari, il primo comandante del KLA. [30]

Il giorno prima della riunione Berisha-Thaci a Pristina, l’accomodante governo del presidente serbo Boris Tadic e del ministro degli Esteri, Vuk Jeremic, si sono dichiarati concordi sulle ragioni per cui le intenzioni della NATO e le intenzioni della comunità Pan-albanese nella regione hanno incontrato poca opposizione. Jeremic, pur dichiarando nella forma che la sua nazione non aderirà alla NATO, nel futuro immediato, (anche se ha aderito al programma di transizione del Partenariato per la Pace) ha dichiarato: “Continuiamo la stretta collaborazione, perché che la NATO è il fattore più importante per garantire la sicurezza nel mondo“.

Un sito d’informazioni russo, riferendo di questa affermazione, ha ricordato ai suoi lettori che “nel 1999 le forze aeree della NATO hanno bombardato Belgrado e altre città della Serbia, per sostenere il separatismo albanese in Kosovo. E più di 3000 serbi sono morti e decine di migliaia di persone sono state ferite. La NATO promuove anche la separazione del Kosovo dalla Serbia…” [31]

Alla fine del mese scorso l’ammiraglio statunitense James Stavridis, capo del Comando Europeo degli USA e Comandante supremo alleato della NATO in Europa, ha partecipato alla riunione sulla Carta Atlantica, che Washington ha firmato con l’Albania, Macedonia, Croazia, Bosnia e Montenegro nel 2003,  di fatto tutti i Balcani, per prepararli all’adesione alla NATO. Stavridis, poi, è partito per la Croazia, per supervisionare le manovre militari multinazionali ‘Jackal Stone 09’, il cui scopo è “migliorare con successo le capacità dei partecipanti nel condurre operazioni di contro-insurrezione.”

Co-organizzato dallo Special Operations Command Europe degli Stati Uniti, il comandante di quest’ultimo, il generale Frank Kisner, ha elogiato il successo di tale operazione: “Questa programmazione ininterrotta ha riunito i rappresentanti di 10 nazioni e ha permesso loro di eseguire efficacemente una moltitudine di compiti in aria, terra e mare.” [32]

‘Jackal Stone 09’ è stata la prima esercitazione militare condotta in Croazia, dopo la sua adesione alla NATO, all’inizio di quest’anno. Funzionari degli Stati Uniti e della NATO hanno ripetutamente detto che dopo la Croazia e l’Albania, la Macedonia, la Bosnia e il Montenegro saranno i primi a divenirne membri a pieno titolo, e che la Serbia e il Kosovo sarebbero stato i prossimi.

Il 2 ottobre, la Bosnia ha presentato al Segretario generale della NATO, Anders Fogh Rasmussen, una richiesta formale per un piano d’azione d’adesione alla NATO; una domanda de facto per una piena adesione. Rasmussen ha detto, “Credo che questa domanda sia la strada migliore per una stabilità durevole nell’area euro-atlantica. E’ la mia visione, vedere tutti i paesi dei Balcani occidentali integrarsi nella NATO.” [33]

La NATO ha usato vari pretesti per l’intervento militare nei Balcani, nel corso degli ultimi quindici anni, molte di queste scuse erano contraddittorie, come il Kosovo contro la Repubblica serba di Bosnia e con il Kosovo nel suo insieme contro il nord di Kosovska Mitrovica. La sua intenzione, tuttavia, non è cambiata e rimane: assorbire ogni nazione e pseudo-nazione della regione nei suoi ranghi, e reclutare nuovi membri e partner per le sue guerre più lontane.

Il separatismo armato è stato lo strumento utilizzato per avviare la distruzione della Repubblica Socialista Federativa di Jugoslavia nel 1992, un processo che ha frammentato questa nazione nelle sue sei repubbliche costituenti quella federale, e nel caso del Kosovo, una provincia strappata a un’ex-repubblica.

Ma la revisione dei confini nazionali, con le perturbazioni e le violenze che comporta inevitabilmente, non è completa.

Il Kosovo è senza dubbio un vaso di Pandora, in fondo a cui non ci attende, necessariamente, la speranza. Resta una scintilla potenziale, in grado di aumentare il pericolo, come osservato in precedenza, di “destabilizzare la situazione nei Balcani e di scatenare una guerra sul continente, simile a quella della fine degli anni ‘90“.


Rick Rozoff è un collaboratore di Mondialisation.ca

Note

1) Wikipedia
2) Black Sea Press, August 6, 2009
3) Voice of Russia, August 20, 2009 3
4) Ibid
5) Ibid
6) New Kosova Report, December 20, 2009
7) Kosovo Times, June 9, 2009
8 ) Kosovo Times, June 8, 2009
9) Kosovo Times, May 27, 2009
10) NATO, Supreme Headquarters Allied Powers Europe, February 18, 2009
11) Southeast European Times, May 21, 2009
12) Makfax, August 17, 2009
13) New Kosova Report, May 20, 2009
14) Focus News Agency, August 13, 2009
15) Sofia News Agency.
16) Tanjug News Agency, September 4, 2009
17) NATO, Kosovo Force, September 16, 2009
18) Beta News Agency, September 15, 2009
19) Tanjug News Agency, September 23, 2009
20) Makfax, October 2, 2009
21) Washington Times, May 3, 2009
22) FoNet, September 11, 2009
23) Russia Today, October 5, 2009
24) Voice of Russia, October 6, 2009
25) Ibid
26) ADN Kronos International, October 6, 2009
27) B92, October 6, 2009
28) B92, Beta News Agency, Tanjug News Agency, October 6, 2009
29) President of the Republic of Kosovo, October 7, 2009
30) Beta News Agency, October 7, 2009
31) Voice of Russia, October 5, 2009
32) United States European Command, September 28, 2009
33) NATO, October 2, 2009

Traduzione di Alessandro Lattanzio
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L’indipendenza del Kosovo: la Corte dell’Aia ne stabilirà il diritto

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La Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja esaminerà dal 1° dicembre 2009 la questione che l’è stata sottoposta da parte dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite: “La dichiarazione unilaterale di indipendenza da parte delle istituzioni provvisorie dell’amministrazione autonome del Kosovo, è coerente con il diritto internazionale?”[1]
Il deferimento alla Corte da parte dell’Assemblea generale è una procedura rarissima. Mira a stabilire il diritto di sconfessare uno o più membri permanenti del Consiglio di Sicurezza. È stata finora utilizzata una sola volta, nel 2003-04, per dimostrare l’illegittimità del “muro di sicurezza” costruita dallo Stato di Israele annettendosi dei territori palestinesi. Gli Stati Uniti avevano usato il loro diritto di veto per bloccare qualsiasi condanna di Israele, in quel caso. Beffandosi della Corte, il presidente degli Stati Uniti confermò per iscritto, al Primo Ministro israeliano, di sostenere la politica del fatto compiuto [2].
L’indipendenza del Kosovo è il risultato di un intervento militare della NATO, senza mandato delle Nazioni Unite.
Trentasei Stati hanno depositato memorie scritte alla Corte (in ordine di registrazione: la Repubblica Ceca, Francia, Cipro, Cina, Svizzera, Romania, Albania, Austria, Egitto, Germania, Slovacchia, Russia, Finlandia, Polonia, Lussemburgo, Libia, il Regno Unito, Stati Uniti d’America, Serbia, Spagna, la Repubblica islamica Iran, Estonia, Norvegia, Paesi Bassi, Slovenia, Lettonia, Giappone, Brasile, Irlanda, Danimarca, Argentina, Azerbaijan, le Maldive, Sierra Leone, Bolivia e la Repubblica Bolivariana del Venezuela).
Quattordici Stati hanno presentato osservazioni in merito alla dichiarazioni di cui sopra (in ordine di registrazione: Francia, Norvegia, Cipro, Serbia, Argentina, Germania, Olanda, Albania, Slovenia, Svizzera Bolivia, il Regno Unito, Stati Uniti d’America e Spagna).
La Corte ha invitato le autorità del Kosovo a presentare un breve commento in merito alle altre memorie registrate, e per discutere oralmente nel corso del procedimento.
Copie dei documenti scritti sono state inviate alle differenti parti, ma sono tenute riservate. Spetta al Tribunale renderli pubblici, se vuole, nel corso del processo o durante la pronuncia della sua decisione.
In particolare, in caso di controversie tra i sostenitori dell’indipendenza, raggruppati intorno agli Stati Uniti e ai suoi alleati, Regno Unito e Francia, e gli oppositori dell’indipendenza, la Russia e la Cina. La Corte dovrà stabilire se l’indipendenza unilaterale degli albanesi del Kosovo è una violazione del diritto internazionale o una nuova norma.
I 62 Stati che, su iniziativa degli Stati Uniti, hanno riconosciuto l’indipendenza del Kosovo, nonostante aver detto in coro che è un caso unico e non doverebbe costituire un precedente giuridico. Vi sono diversi stati non riconosciuti nel mondo (Abkhazia, Repubblica Srebska, Alto Karabash, Ossezia del Sud, Palestina, Somaliland…) pur avendo proprie istituzioni politiche. In aggiunta, vi sono numerosi movimenti separatisti nel mondo (vedi sopra la mappa dei conflitti più importanti in questo settore). La decisione della Corte, pertanto, deborderà ampiamente oltre alla semplice questione del Kosovo.


[1] Risoluzione A/63/L.2 Assemblea Generale, datata 8 Ottobre 2008.
[2] Lettera di George W. Bush ad Ariel Sharon, Réseau Voltaire, 14 Aprile 2004.

Traduzione di Alessandro Lattanzio
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La Bolivia acquista aeromobili cinesi

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Fonte: UPI 5 ottobre 2009

La Bolivia difende i suoi acquisti di aerei leggeri d’attacco dalla Cina e la linea di credito aperta per l’importazione di hardware militare dalla Russia, sostenendo che le sue acquisizioni di armi sono minori rispetto a quelli di altri paesi sudamericani. Il ministro della Difesa Walker San Miguel ha detto che la Bolivia investe meno dei suoi vicini sulle attrezzature militari e s’è impegnata ai principi della pace e della dissuasione. “Ma non possiamo avere delle forze armate che non hanno accesso alle attrezzature minime per la loro formazione professionale e per l’azione, se necessario“, ha detto San Miguel.

I suoi commenti seguono le recenti dichiarazioni di altri leader sudamericani che ‘criticano l’acquisto di armi dei loro vicini e invita alla moderazione delle spese militari’. L’amministrazione Obama ha detto che è preoccupata per i grandi acquisti di armi da parte delle nazioni che devono indirizzare le loro risorse alla riduzione della povertà.

Il commento del ministro arriva dopo la conferma del governo che la Bolivia avrebbe acquistato sei velivoli K-8 provenienti dalla Cina, per rafforzare le sue operazioni anti-narcotici e i controlli alle frontiere. Il governo del presidente Evo Morales è stato oggetto di forti critiche per aver approvato l’acquisto, del valore 57,8 milioni dollari – critiche che hanno detto che i fondi avrebbe dovuto essere diretti allo sviluppo dello Bolivia. Altri K-8 sono stati acquistati in precedenza dal Venezuela.

Ulteriori critiche hanno seguito la linea di credito aperta per l’acquisto di armi dalla Russia, anche se i dettagli degli acquisti non sono state rivelati.

L’accordo di finanziamento per l’aereo non è chiaro, ma la Cina sta portando avanti una campagna combinata diplomatica ed economica in Sud America per aumentare la sua presenza nella regione, per assicurarsi sia energia e materie prime per la sua fiorente crescita industriale che amici. La Cina ha anche promesso di mettere nello spazio un satellite boliviano.

Il velivolo è stato sviluppato congiuntamente da Cina e Pakistan come biposto d’addestramento, ma in seguito è stato dotato di avionica avanzata e di cannoni per operare come aereo da combattimento. La Cina ha venduto con successo l’aereo a Egitto, Sri Lanka e Zimbabwe, paesi del Sudest asiatico e Filippine, dove è probabile che sostituirà l’addestratore British Aerospace BAe Hawk Mk-53.

San Miguel ha indicato che la Bolivia ha scelto l’opzione cinese per non aver ricevuto risposta positiva da fornitori europei e degli Stati Uniti. “Gli Stati Uniti non aiutano e l’Europa ha le proprie regole, così siamo andati in Cina“, ha detto. Un acquisto corrispondente dalla Repubblica Ceca non hanno avuto seguito a causa delle obiezioni degli Stati Uniti.

Morales ha detto che la Bolivia non ha, inoltre, potuto ricevere cinque elicotteri in “donazione” dal Brasile, perché quei velivoli avevano componenti degli Stati Uniti e non potevano essere trasferito in Bolivia prima dell’approvazione di Washington. Morales è in disaccordo con le agenzie governative degli Stati Uniti e ha sospeso la cooperazione con Washington, accusando gli agenti della Drug Enforcement Administration di spionaggio.

Traduzione di Alessandro Lattanzio
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Il bilancio occulto della “difesa” americana

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Fonte: “Bye Bye Uncle Sam”, 29 settembre 2009

A fine giugno, Mother Jones ha pubblicato un’approfondita analisi sul bilancio militare degli Stati Uniti d’America, partendo dalla richiesta del presidente Barack Obama al Congresso di stanziare 534 miliardi di dollari per il Dipartimento della Difesa. Ma l’ammontare reale di ciò che gli USA spendono per la “difesa” è molto maggiore. Per rendere il tutto più facilmente digeribile, ve ne proponiamo una sintesi divisa in quattro parti.
L’Office of Management and Budget ha elaborato un calcolo totale che tiene in considerazione le diverse parti del governo, e comprende i soldi assegnati al Pentagono, le attività relative alle armi nucleari svolte presso il Dipartimento dell’Energia ed alcuni esborsi nel campo della sicurezza effettuati dal Dipartimento di Stato (il ministero degli esteri statunitense) e dall’FBI. Nel bilancio 2010 (che in realtà ha il suo momento iniziale nell’ottobre 2009) la cifra ammonta a 707 miliardi, più della metà della spesa governativa cosiddetta “discrezionale” per l’anno prossimo. La spesa discrezionale è quella per cui gli stanziamenti sono decisi annualmente dal Congresso, a differenza di programmi quali ad esempio quello sanitario denominato Medicare il cui finanziamento è obbligatorio e ricorrente.
Ma la cifra reale è ancora più alta perché, fra le varie cose, l’ufficio governativo del bilancio non tiene conto della spesa aggiuntiva per le guerre in Iraq ed Afghanistan. Riepilogando tutte le diverse fonti di spesa in campo militare per l’anno 2010 che emergono dai documenti contabili, si ha:

  • bilancio del Pentagono: 534 miliardi
  • stanziamenti extra per il personale militare: 4,1 miliardi
  • stanziamenti aggiuntivi Iraq-Afghanistan (anno fiscale 2010): 130 miliardi
  • stanziamenti aggiuntivi Iraq-Afghanistan (anno fiscale 2009, ancora da legiferare): 82,2 miliardi
  • armi nucleari ed altra spesa “atomica” (Dip. dell’Energia): 16,4 miliardi
  • sostegno militare ed economico ad Iraq, Afghanistan e Pakistan (Dip. di Stato): 4,9 miliardi
  • sicurezza, controterrorismo ed aiuto militare a Paesi stranieri, incluso il Medio Oriente ed Israele (Dipartimento di Stato): 8,4 miliardi
  • Guardia costiera (Dipartimento per la Sicurezza Interna): 583 milioni

Spesa totale: 780,4 miliardi di dollari

In questo calcolo sono incluse solo le risorse direttamente collegate ad attività militari, non viene quindi preso in considerazione il Dipartimento dei Veterani la cui spesa di 55,9 miliardi porterebbe il totale a 836,3; e la parte restante del Dipartimento per la Sicurezza Interna (altri 54,5 miliardi), arrivando così alla colossale cifra di 890,8 miliardi di dollari, rispetto ai 534 ufficialmente stanziati.
Si tenga poi presente che i bilanci degli apparati di intelligence (CIA, NSA…) sono segreti e che perciò non possono essere aggiunti a questa contabilità.

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Nel 2008, il Pentagono ha calcolato che gli impegni correnti per i programmi di armamento costeranno al governo, ad ultimazione avvenuta, 1.600 miliardi di dollari. Una parte consistente – 296 miliardi – è rappresentata da costi aggiuntivi. Questi 296 miliardi non sono il risultato di grandi programmi che, in via eccezionale, hanno sfondato il tetto di spesa e sbilanciato i conti, ma rappresentano la norma. Tali incrementi di costo sono spesso significativi: considerando tutti i programmi, la media dell’aumento rispetto alle stime iniziali è pari al 26%. Rappresentano la normalità anche i ritardi nel loro completamento, che riguardano ben il 72% dei programmi.
Incrementi di costo e ritardi hanno subito un peggioramento durante le due amministrazioni Bush terminate nel 2008, ma se si volge lo sguardo ancora più all’indietro si scopre che i costi aggiuntivi sono aumentati ad un ritmo serrato per tutti gli ultimi quindici anni, ad una media del 1,86% annuo per essere precisi. Se la spesa del Pentagono continuerà a crescere al tasso attuale, la media degli incrementi di costo raggiungerà il 46% in dieci anni.
Facendo qualche confronto, lo spreco militare USA è quattro volte tanto l’intera spesa per la difesa della Cina (che oggi rappresenta il secondo bilancio militare nazionale al mondo con 70 miliardi di dollari) ed è anche superiore al bilancio militare di tutti i Paesi dell’Unione Europea messi insieme (pari a 281 miliardi).

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Passiamo ora in rassegna i principali programmi militari statunitensi:

- cacciabombardiere F-22 Raptor: progettato per sfidare i velivoli di concezione sovietica, un F-22 costa 351 milioni di dollari, più del doppio delle stime originali.
Fu messo in produzione ancora prima di essere pienamente testato e – non sorprendentemente – è incorso in ogni genere di intoppi; non ha partecipato a nessuna azione di combattimento in Afghanistan né in Iraq. Il titolare del Pentagono Robert Gates ha deciso di acquistarne altri quattro, per un totale di 187 rispetto ai 243 che inizialmente l’USAF voleva.
Addirittura, all’inizio di quest’anno, 194 deputati e 44 senatori statunitensi hanno scritto ad Obama per sollecitarlo ad acquistare più F-22, ed a metà giugno i parlamentari del comitato militare della Camera hanno previsto uno stanziamento per altri 12 caccia. Sollecitazioni che però non sono servite a rianimare la morente linea di produzione del velivolo, almeno per l’uso domestico. Infatti è notizia fresca il via libera da parte del comitato finanziario del Senato statunitense allo sviluppo di una versione del F-22 per l’esportazione, privato degli accorgimenti tecnologici “segreti” presenti nella versione originale. Probabilmente la decisione vuole far fronte alla perdita di migliaia di posti di lavoro causata dallo stop della produzione per l’aviazione USA; fra i probabili acquirenti figurano Giappone, Corea del Sud, Australia ed Israele;
- aereo da trasporto C-17 Globemaster III: l’aeronautica USA ne possiede 205 esemplari e non ne chiede di ulteriori, ma il Senato intende introdurre nel bilancio per la difesa del 2010 l’importo di 2,5 miliardi per comprarne altri 10;
- Future Combat Systems: si tratta di apparati in cui armi, veicoli e robot coesistono, uniti da un comune sistema di comunicazione, ed è un altro caso in cui le intenzioni di spesa sono state messe in pista prima che la tecnologia in questione sia stata effettivamente testata. Dal 2003, il costo totale è aumentato del 73% fino ad arrivare a 159 miliardi, tanto che Gates nei mesi a venire vuole ripensare l’intero programma;
- elicottero presidenziale VH-71: Lockheed Martin ed Agusta Westland (del gruppo Finmeccanica) vinsero nel 2005 la commessa per il sostituto dell’attuale “Marine One”, un Sikorsky VH-60 entrato in servizio nel 1989. La flotta di 28 (!) esemplari doveva costare inizialmente 6 miliardi di dollari, ma poi i correttivi introdotti durante l’amministrazione Bush avevano portato il conto totale quasi a raddoppiare fino ad 11,2 miliardi (400 milioni ad esemplare). Il programma è stato cancellato a maggio, ed una conferma pubblica del suo annullamento è stata data dallo stesso presidente Obama ad agosto in un discorso ai veterani di guerra;
- DDG-1000 Destroyer: navi che dovrebbero costare 4 miliardi di dollari ma fonti alternative stimano un costo reale vicino ai 6 miliardi. Mentre la marina statunitense inizialmente desiderava acquistarne fra un minimo di 16 ed un massimo di 24, Gates tenterà di ridurre il programma a soli 3 Destroyers.

E’ comunque inquietante notare come Gates abbia dato il via libera ad un paio di palesi catorci. Del primo abbiamo già parlato su questo blog, si tratta del Littoral Combat Ship (LCS), un altro progetto Lockheed Martin sviluppato prima di completare i test. Nonostante i suoi costi siano quasi raddoppiati rispetto alle prime stime, Gates si è impegnato ad acquistare 55 di queste unità navali.
Ma forse l’indizio più evidente della continuità del bilancio militare USA è la decisione di più che raddoppiare l’ordine di cacciabombardieri F-35 Lightning II Joint Strike Fighter (JSF), facendone il più grande programma di acquisizione del Dipartimento della Difesa (quasi a voler placare l’industria produttrice, l’onnipresente Lockheed Martin, per la cancellazione del F-22). Ciò nonostante l’F-35 sia ben lontano dall’essere pronto, visto che a novembre 2008 era stato implementato solo il 2% dei voli di prova previsti.
Secondo l’attuale calendario, gli Stati Uniti spenderebbero 57 miliardi di dollari per acquistarne 360 unità prima che i test siano completati. Per velocizzare i tempi, la Lockheed ha elaborato un piano per svolgere solo il 17% delle prove richieste mediante test di volo, il restante 83% affidandole ai simulatori. Sfortunatamente, secondo un rapporto della Corte dei Conti americana (GAO) “la capacità di sostituire i voli di prova con laboratori di simulazione non è stata ancora dimostrata”.
Ciò non fa che aumentare i dubbi sulla decisione del Dipartimento della Difesa di acquistarne 2.456 (sì, avete letto bene, duemilaquattrocentocinquantasei!).
Fonti ufficiali hanno stimato un costo per l’intero programma superiore al trilione di dollari (più di mille miliardi) – circa la stessa cifra del deficit nazionale -, sommando ai 300 miliardi per l’acquisizione dei velivoli i 760 miliardi per la loro operatività, manutenzione compresa. Ma poiché il Pentagono ha deciso di comprarne così tanti esemplari prima di verificare l’efficienza della tecnologia, ritardi ed incrementi di costo saranno inevitabili.

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Il Dipartimento della Difesa è presente dal 1995 nell’elenco di apparati governativi ad alto rischio stilato dalla Corte dei Conti statunitense. Per gestire gli acquisti, la contabilità e la logistica, le varie agenzie e servizi del Pentagono mantengono 2.480 diversi sistemi informatici, molti dei quali non sono interconnessi. Di conseguenza, nessuno conosce con sicurezza quanto il Pentagono abbia speso in passato, stia spendendo adesso e spenderà in futuro. Al contrario, esso fonda le sue decisioni di bilancio prevalentemente sulle informazioni delle aziende private vincitrici degli appalti.
Un rapporto del Defense Science Board Task Force on Developmental Test and Evaluation rileva che, fra il 1997 ed il 2006, benché il 67% dei sistemi d’arma non abbia superato i parametri di prova, molti di essi sono stati egualmente messi in produzione. Il concetto che il Pentagono dovrebbe “provare prima di comprare” risale almeno agli anni Settanta, ma i funzionari della difesa ed i parlamentari statunitensi non l’hanno mai veramente messo in pratica. Anzi, i funzionari sono fortemente incentivati a sottoscrivere contratti sottostimati perché se rendono noti i veri costi fin da subito, rischiano di non poter avere i loro “giocattoli”. Ogni tanto il Congresso o la Casa Bianca chiedono di insediare un’agenzia indipendente in grado di produrre stime attendibili dei costi, ma ciò è estremamente difficile a causa dello stretto rapporto tra i funzionari del Pentagono e l’industria bellica.
Nel 2006, 2.435 ex funzionari del Pentagono, generali ed ufficiali lavoravano per aziende private operanti nel settore della difesa, ed almeno 400 di questi erano impiegati nell’ambito di appalti direttamente collegati al loro precedente datore di lavoro governativo. Quando i calendari slittano di anni ed i bilanci sforano di miliardi, le aziende sono già state pagate; inoltre, è prassi fra i parlamentari dare il via libera al proseguimento dei programmi nonostante la legge preveda che essi devono essere informati su quei programmi che sforano il bilancio per più del 30% e che quelli con aumenti superiori al 50% devono essere ricertificati o cancellati.
Quest’anno, la Casa Bianca ha promesso di impiegare altri 20.000 funzionari nel prossimi quinquennio per tenere sotto controllo i contratti militari e la relativa spesa, ma bene che vada ci vorranno diversi anni prima che ciò porti frutti. La legge di riforma circa l’acquisto dei sistemi d’arma patrocinata dal candidato repubblicano alle ultime elezioni presidenziali, John McCain, prevede anche l’istituzione di un ufficio per l’accertamento imparziale dei costi che però non dovrebbe occuparsi di tutti i programmi. Ufficio il cui primo direttore, comunque, è William Lynn, lobbysta precedentemente al servizio proprio di un’azienda privata del complesso militare, la Raytheon.

Ancora bombe contro i Serbi

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Una bomba a mano è stata gettata l’11 ottobre alle ore 21,30 sulla casa del serbo Milorad Todorovic del villaggio Cernica presso Gnjilane nel Kosovo e Metochia, per fortuna senza feriti o morti.

Non è la prima volta che ciò accade, perché ancora prima più volte sono state gettate le bombe a mano contro la casa della famiglia Todorovic, e la polizia albanese del Kosmet non è mai riuscita a trovare i colpevoli.

Nel paese Cernica vivono 30 famiglie serbe e qualche centinaio di quelle albanesi. Questa è una delle tante famiglie di profughi che dovevano scappare dalla provincia serba durante l’aggressione della NATO e dopo la successiva epurazione etnica fatta dagli Albanesi quando nel 2000-2001 furono cacciati via dalle loro case 300.000 serbi ed altri non Albanesi, ma è anche una di quelle poche che sono tornate ala propria  casa.

La bomba è un messaggio chiaro a chi vuole tornare e la continuazione del processo di epurazione etnica a danno dei serbi, in presenza della NATO perché dopo il 2000, cioè dopo la guerra, in presenza delle forze internazionali, solo in questo paese sono stati uccisi 7 serbi e feriti alcune decine nei vari attentati fatti dagli Albanesi. Non è mai stato arrestato qualcuno.

Inoltre, lo stesso giorno è stata bruciata la casa di Ruza Ratkovic nel paese Suvi Lukavac. Si tratta di un incendio doloso ai fini terroristici per mandare via dalla provincia quelli pochi serbi rimasti.

La cosiddetta comunità internazionale e le forze d’occupazione della NATO fanno chiacchiere sul miglioramento della situazione nella provincia e non proteggono le altre etnie dagli atti terroristici degli albanesi. Ne testimoniano attentati quotidiani come questi contro i non albanesi.

Corso di arabo allo IEMASVO

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Giovedì 15 ottobre alle ore 18,30, in via Due Macelli 47 (Piazza di Spagna) si terrà la prima lezione del corso di lingua araba PER PRINCIPIANTI. E’ ancora possibile iscriversi telefonando entro domani al 377 1520283 o allo 06 33266662

Istituto ‘Enrico Mattei’ di Alti Studi sul Vicino e Medio Oriente
I.E.M.A.S.V.O – Via di Grottarossa 55, 00189 Roma

Riconosciuto ai sensi del D.P.R. 361/2000
Iscrizione Registro Prefettura di Roma n. 589/2008

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Gli Stati uniti e la capitolazione del Brasile

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Pensiamo che per realizzare una corretta lettura dell’attuale scena internazionale, sia necessario partire dall’analisi della crisi che attraversa gli Stati Uniti. Questa crisi, a nostro avviso, più che una crisi economica, è una crisi strutturale del potere nordamericano. Una crisi che annuncia la fine dell’unilateralismo nordamericano e la nascita di un nuovo multipolarismo: il multipolarismo degli Stati continentali .

La causa strutturale della crisi del potere nordamericano

Al di là di qualsiasi possibile recupero dell’economia nordamericana e internazionale, dal nostro punto di vista, siamo di fronte a una crisi strutturale del potere nordamericano perché, per la prima volta, dal 1865, esiste una contraddizione tra gli interessi della borghesia nordamericana e gli interessi nazionali dello stato nordamericano. Questa cosa non era mai accaduta fino ad ora. Dalla fine della Guerra di Secessione (1865) negli USA è esistita una perfetta armonia tra gli interessi dello Stato nordamericano e quelli dell’alta borghesia nordamericana. Un’alleanza che, dopo la Guerra di Secessione, mise in moto un grande processo d’industrializzazione stimolato dallo Stato e protetto dalla concorrenza esterna mediante forti restrizioni tariffarie, paradoganali e sussidi, tanto nascosti quanto scoperti. Questo processo d’industrializzazione generò una enorme immigrazione europea verso gli Stati Uniti, favorendo un mercato interno in sviluppo e crescita permanente, generando un vero “circolo virtuoso di crescita” il che, a sua volta, consolidò, ancora di più, l’iniziale unione d’interessi tra l’alta borghesia e il proprio stato nordamericano. Quello che era utile per l’alta borghesia nordamericana lo era, anche, per lo stato nordamericano.

Tuttavia, quell’unione, che aveva gettato le basi strutturali del potere nordamericano iniziò a sgretolarsi nella decade del 1980. Agli inizi di quella decade degli ottanta, inizia un lento processo di deindustrializzazione quando l’alta borghesia nordamericana che era alla ricerca di un maggiore plusvalore, incomincia a trasferire la produzione industriale degli Stati Uniti verso i paesi dell’Asia. È anche vero che questo processo di trasferimento delle aziende nordamericane fuori dalle proprie frontiere si era prodotto già in passato verso l’America latina, ad esempio. In questo modo, durante le decadi del 1950 e del 1960, numerose aziende nordamericane avevano insediato stabilimenti per la produzione di beni industriali, principalmente in Brasile, in Argentina e in Messico. Ma, le aziende nordamericane si spostavano per produrre prodotti diretti alla vendita in quegli stessi mercati. Il giro che si produce a partire degli anni ottanta è assolutamente diverso perché, da quel decennio, le aziende nordamericane iniziano, principalmente in Asia, a produrre per gli Stati Uniti. Vale a dire, che le aziende nordamericane, insediate in Asia, cominciano a fabbricare, con lavoro straniero economico, prodotti che, successivamente, si sarebbero venduti nel mercato nordamericano.

Paradossalmente, l’elite politica e militare nordamericana, influenzata fondamentalmente dal pensiero strategico di Alvin Toffler [1] diede il suo appoggio all’alta borghesia, quando quest’ultima, alla ricerca di un maggiore plusvalore, incomincia a trasferire la produzione industriale degli Stati Uniti verso i paesi dell’Asia. L’idea sostanziale del pensiero strategico di Toffler – accettato in larga misura dall’elite politica e militare nordamericana – si fondava sul fatto che, attualmente, il potere si veicolava per mezzo della tecnologia d’avanguardia [2]. Quest’idea, che a un primo sguardo è vera, possiede, tuttavia, un errore. Dal punto di vista della costruzione del potere nazionale, la costituzione di un complesso apparato tecnologico non doveva compiersi mediante l’indebolimento dell’apparato industriale. Adottare uno, non doveva significare respingere l’altro. Tuttavia, partendo dal fatto che il potere consisteva, esclusivamente, nel possesso della tecnologia d’avanguardia, gli Stati Uniti cominciarono a specializzarsi mediante una grande Spinta Statale – proveniente dal complesso militare – spaziale -, indirizzata solo su di essa, scartando la sua applicazione nell’industria basica comune, perdendo per tale motivo, progressivamente, la leadership industriale [3].

Vale la pena ricordare che lo Stato americano sussidiò quello sviluppo tecnologico, poiché le compagnie private non l’avrebbero potuto fare, mai, da sole (i computer e internet, per citare solo alcuni esempi, furono sviluppi realizzati, in un primo momento, per il complesso aerospaziale – militare nordamericano. Si trattava di un sussidio “celato” che, mediante il sistema militare – spaziale, ricevettero le compagnie tecnologiche private nordamericane [4].

Nonostante sia vero che il potere passa attraverso il dominio dell’alta tecnologia, ciò che non si contempla in quest’analisi sviluppata dall’intellighenzia americana è che gli Stati Uniti stava diventando una società esclusivamente avviata verso il settore dei servizi e che quei servizi, naturalmente volatili, spostavano alla più stabile e inelastica produzione industriale, la quale a sua volta, rappresenta la principale fonte d’impiego permanente e molto più estesa per quanto concerne la sua capacità di assorbire personale del più variegato spettro di competenze. Di conseguenza, man mano che gli USA trasferivano il loro processo d’industrializzazione verso l’Asia, si andavano deindustrializzando e restavano privi di uno dei gradini del loro potere nazionale. Da allora e a partire dalla supremazia della loro moneta, cominciarono a “vivere alle spalle di qualcuno”. Quella è l’origine profonda della crisi del potere nordamericano. I problemi finanziari che oggi vediamo sono, così, una conseguenza e no la causa. La vera origine strutturale della crisi si fonda nel trasferimento della produzione industriale americana verso l’Asia, perché il plusvalore che otteneva l’alta borghesia americana era enorme se comparata a quella che poteva ottenere negli Stati Uniti. Dunque, è evidente che, dal punto di vista politico ed economico, gli Stati Uniti non erano più quelli che potevano essere stati nella Seconda Guerra Mondiale, né quello che avevano immaginato che potevano diventare dopo la scomparsa dell’Unione Sovietica.

Conseguenze della crisi del potere americano

Siamo assertori dell’ipotesi che la crisi strutturale del potere americano implica tre conseguenze inesorabili: 1) la caducità dell’attuale ordine monetario internazionale; 2) La crisi terminale del paradigma neoliberale nella stessa culla del neoliberismo; 3) L’inizio della fine del tentativo di costruzione dell’unilateralismo americano, vale a dire, della cosiddetta “Pax Americana”.

Sin da quando è scoppiata “ufficialmente” la crisi economica internazionale – con il famoso collasso della megabanca d’investimenti “Bear Stern”, settembre 2008 -, si sono succedute una serie di riunioni del cosiddetto “G-20”, nell’ultima di queste riunioni, realizzata, precisamente un anno dalla deflagrazione, il 24 settembre 2009, nella città americana di Pittsburgh. In queste riunioni, gli Stati Uniti hanno avuto come obiettivo quello di lasciare fuori discussione il grande problema di fondo: la caducità dell’ordine monetario internazionale instaurato con la fine della Seconda Guerra Mondiale, in altre parole, l’ordine monetario fondato sull’indiscutibile potere del dollaro come moneta internazionale di riserva e di scambio. Finita la Seconda Guerra Mondiale, l’egemonia del dollaro divenne l’espressione naturale del vincente potere americano. Tal egemonia monetaria fu una conseguenza logica del potere strutturale degli Stati Uniti. Annientato il Giappone, sconfitta la Germania e completamente esausta la Gran Bretagna – dovuto alla tardiva e calcolata entrata degli Stati Uniti nella Seconda Guerra Mondiale – l’egemonia del dollaro costituì, semplicemente, l’espressione superstrutturale del potere strutturale degli Stati Uniti. Nel 1945, era il potere politico, economico e militare americano quello che sosteneva e sostentava l’egemonia del dollaro come moneta di riserva e di cambio. Nel 2009, l’economia del dollaro è quella che sostenta e sostiene il potere politico, economico e militare americano. Attualmente, l’egemonia americana si sostiene grazie al dollaro che detiene ancora il privilegio di seguitare a essere la principale moneta mondiale di scambio.

La realtà odierna indica che è il dollaro quello che sostiene il potere americano e no – quello che sarebbe stato logico – che il potere americano sostenga la sua moneta. Ciò costituisce un nuovo fatto che, alla luce dei recenti avvenimenti, rappresenta un cambiamento fondamentale, irreversibile per ragioni strutturali, poiché non siamo presenti – come avevamo già accennato – davanti a una semplice crisi congiunturale del potere americano, bensì a una crisi strutturale dello stesso.

La crisi strutturale del potere americano implica, inoltre, la crisi della dottrina economica – la quale, d’altra parte, era una specie di “ideologia ufficiale” dello Stato americano – il quale postulava come principio scientifico che lo Stato non sarebbe mai dovuto intervenire nel mercato. Tuttavia, attualmente, per via della crisi, alcune “aziende di spicco” del potere americano, come la General Motors, sono società di proprietà dello Stato americano. Ciò che appare essere veramente trascendente è che si è consumata la più importante nazionalizzazione della storia dell’umanità, cioè la nazionalizzazione della General Motors, della quale lo Stato americano si è appropriato niente meno che del 70% del pacchetto azionario. Così, dunque, un’altra icona degli Stati Uniti, la City Bank, è in sostanza anche una banca nazionalizzata. Nello stesso tempo, un altro simbolo degli Stati Uniti – in questo caso un’icona culturale – come lo è l’Università di Harvard, ha dichiarato di avere un deficit budgetario di circa il 35%, vale a dire, che versa in gravi difficoltà finanziarie. Di fronte a questi problemi, il modello neoliberale, si svuota dei suoi strumenti: non sa cosa fare.

Se da un lato, questi semplici esempi non vogliono dimostrare che ci troviamo di fronte alla più acuta crisi del neoliberismo perché, oltre a ciò, questa crisi si è originata in seno allo stesso e, dall’altro, ci avviamo verso un momento nel quale gli stati periferici avranno la possibilità di rifiutare, in maniera assoluta e, di fronte al suo palese fallimento, il paradigma neoliberale.

Perché? Per la semplice ragione che i difensori di questo modello neoliberale non troveranno nessuna forma per difenderlo e applicarlo nella periferia, giacché esso è fallito nel proprio centro. Oggi, è lo Stato americano a sborsare quantità ingenti di denaro per riscattare la General Motors, il sistema bancario e molte altre aziende. L’opposto di quanto loro avevano predicato durante trenta anni. È lo Stato quello che interviene risolutamente nell’economia per salvare un’industria americana, una banca americana e sarà quello che interverrà, se necessario, per salvare un’università americana. Di ciò, non deve restare la minima ombra di dubbio.

D’altra parte, come abbiamo in precedenza segnalato, questa crisi implica la fine – o l’inizio della fine – del tentativo di costruzione dell’unilateralismo americano; vale a dire, dell’incondizionata egemonia americana. E allora, la domanda d’obbligo naturalmente è: verso dove stiamo andando? La risposta è semplice: ci avviamo verso un nuovo multipolarismo, che sarà il multipolarismo degli stati continentali che s’innalzeranno per il governo –formale o informale- del mondo.

E oggi, chi sono i candidati che integreranno questo governo, formale o informale, del mondo? Certamente, gli Stati Uniti, furono il primo Stato nell’edificarsi come uno Stato continente industriale e che, nonostante la crisi, manterrà fattori di potere decisivi. La Russia, uno Stato continente in processo di recupero, a cominciare da Putin. La Cina, uno Stato continente in un processo d’industrializzazione accelerato. L’India, in pratica, con la stessa quantità di abitanti della Cina è, anch’essa, uno Stato continente in processo d’industrializzazione. Infine, un candidato che integrerà questo governo del mondo sarebbe l’Unione Europea, se riesce a coordinare una politica estera e di difesa comune.

Certamente, il Brasile aspira occupare un posto in questo tavolo. Gli Stati che non si siederanno in questo tavolo, non avranno nulla da fare. Saranno, semplicemente, il “coro” della storia.

Tuttavia, vale la pena mettere in chiaro che a questo nuovo multipolarismo non si potrà giungere senza che prima si passi per un’intensa fase di confronto, giacché per gli Stati Uniti il fatto di dover accettare una riduzione del proprio ruolo sullo scacchiere internazionale o, persino, una “ripartizione” delle responsabilità con l’Europa, il Giappone, la Russia, la Cina, l’India e, eventualmente, il Brasile, implicherebbe una riforma del sistema monetario internazionale, la perdita del privilegio del dollaro e, quindi, lungi dal consentire un recupero sostenuto e strutturale della propria economia, affogherebbe il flusso di capitali che opera a suo favore, portandolo a un aspro collasso economico che implicherebbe, a sua volta, il collasso strategico militare dovuto all’incapacità di mantenere la spesa del suo macchinario bellico.

Gli Stati Uniti: da potenza globale a potenza regionale

La nostra principale ipotesi è che, gli Stati Uniti, dovuto tra gli altri fattori, alla crisi strutturale che attraversa, passeranno, gradualmente, da potenza globale a potenza regionale. Ciò nondimeno, è necessario rilevare che gli Stati Uniti non si rassegneranno così facilmente a questo passaggio. È ragionevole esaminare che il potere americano darà battaglia – una battaglia, possibilmente, sempre più virulenta -, su tutti i fronti possibili. In questo senso, siamo del parere che il sistema internazionale attraverserà un periodo di forti agitazioni. Durante questo periodo, gli Stati Uniti faranno uso tanto del loro potere soft [5] quanto del loro potere duro, al fine di ritardare il loro passaggio da potenza globale a potenza regionale.

In questo senso, cercheranno di espellere la Cina e l’Africa Orientale, cominciando dal Sudan e approfittando della violazione sistematica che, dei diritti umani, fa il governo sudanese, tradizionale alleato di Beijing. Forse, questa manovra comincerà con l’esposizione del tema all’ONU davanti al Tribunale Penale Internazionale. Queste azioni, tuttavia, potrebbero portarle avanti stati terzi.

Per quanto concerne l’Eurasia, gli Stati Uniti faranno in modo di evitare qualcosa che, per l’Europa, è fondamentale: l’alleanza con la Russia. L’Europa ha bisogno della Russia e la Russia ha bisogno dell’Europa. Mentre la Russia troverebbe in Europa la tecnologia e i capitali di cui necessita per il suo sviluppo, l’Europa troverebbe nell’enorme territorio russo, l’energia e le materie prime che necessita per continuare a sopravvivere in un mondo che si avvia verso una “crisi di cambiamento”.

Una “crisi di cambiamento” è quella in cui, tanto il vecchio modello energetico quanto il vecchio modello d’industrializzazione, non smettono di morire e i nuovi modelli, chiamati a rimpiazzarli, non finiscono di nascere. Si caratterizza per essere un periodo di crisi esistenziale, perché l’insufficienza della disponibilità dei diversi minerali indispensabili per il processo industriale, dipenderà dalla stessa insistenza delle grandi potenze. Questa “crisi di cambiamento” solo potrà essere superata dall’Europa in alleanza con la Russia. Questo scenario implica, per gli Stati Uniti, il pericolo di perdere il suo tradizionale alleato europeo.

Stati Uniti e l’America del Sud

La conseguenza logica del passaggio degli Stati Uniti da potenza globale a potenza regionale consiste nella necessità impellente che ha, d’ora in poi, il potere americano, di garantire che l’America del Sud diventi una zona soggetta alla sua esclusiva influenza politica ed economica. È, sotto questa linea di analisi, che si devono giudicare fatti come l’installazione di basi militari in Colombia o il golpe in Honduras. Per osservare qual è la reazione, tanto dei governi, quanto dell’opinione pubblica latinoamericana, è stato eseguito quel tremendo golpe in Honduras. È possibile che stia studiando un golpe civico – militare in Bolivia, per avere sotto controllo il “cuore geopolitico” dell’America meridionale. Forse, i centri di commando degli Stati Uniti, stanno ipotizzando l’organizzazione di un golpe in Paraguay per riuscire a stabilire un “assedio” intorno al Brasile.

La logica politica intrinseca al potere indica che gli Stati Uniti non potrebbero raggiungere l’obiettivo di garantire che l’America del Sud diventi una zona soggetta alla loro esclusiva influenza politica ed economica, se prima non raggiunge la capitolazione del potere più importante dell’America meridionale, vale a dire, la capitolazione del Brasile e questo fatto è inesorabile come la morte.

Le possibili reazioni del Brasile

Vale la pena sottolineare che il Brasile è, oggi, l’unico paese dell’America meridionale che possiede la vocazione di attore globale. Rammentiamo che l’Argentina seppellì quella vocazione con la morte del presidente Juan Domingo Perón, il 1° luglio 1974. Il Brasile pensa se stesso, sin dall’inizio della sua vita indipendente, come una potenza mondiale [6]. D’altra parte, bisogna rendere evidente che il Brasile è perfettamente conscio della sua più elevata guida diplomatica e, da ormai molto tempo, che la sinergia degli avvenimenti lo porta a una situazione di conflitto con gli Stati Uniti [7]. Di fronte a questa possibilità di conflitto, il Brasile ha sviluppato e sviluppa, una serie di azioni, tanto tattiche quanto strategiche.

In questo modo, il Brasile, dal punto di vista tattico, di fronte al colpo di stato orchestrato dagli Stati Uniti in Honduras per destituire il presidente costituzionale Manuel Zelaya, ha reagito cogliendo di sorpresa gli organi d’intelligenza americani, sistemando il deposto presidente Zelaya all’interno della propria ambasciata a Tegucigalpa e consentendo l’utilizzo della stessa come base di operazioni politiche da parte di quest’ultimo. L’operazione per il ritorno di Zelaya – concertata dal Brasile e dal Venezuela – costituisce, senza dubbio, una sfida che il Brasile ha lanciato agli Stati Uniti nella regione che Washington considera il proprio cortile posteriore. D’altra parte, dal punto di vista strategico, la principale decisione presa dal Brasile consiste nell’accelerazione della costruzione del complesso militare nucleare che gli consenta di accedere alla tecnologia necessaria per lo sviluppo di armi nucleari. Questa ferma decisione brasiliana, era già stata anticipata con evidente franchezza dal Segretario di Strategia e rapporti Internazionali del Ministero della Difesa, il Generale dell’Esercito brasiliano, José Benedito de Barros Moreira, quando, analizzando il futuro scenario mondiale, affermò: “Il Brasile deve accedere alla tecnologia per lo sviluppo della bomba nucleare … il Brasile è un obiettivo della cupidigia (mondiale) perché possiede acqua, alimenti ed energia. È, per questa ragione, che abbiamo bisogno d’inserire un lucchetto resistente nel cancello” [8]. Lo stesso generale brasiliano, ha affermato, inoltre, che il panorama attuale rivela un mondo “violento e pericoloso” e ha aggiunto: “Stiamo osservando nella nostra regione sudamericana punti di tensione che possono sfociare in fuochi attivi che devono essere seguiti con attenzione”. Finendo la sua analisi, il generale José Benedito de Barrios Moreira, ha affermato: “Nessuna nazione può sentirsi sicura se non sviluppa la tecnologia che la renda idonea per difendersi se fosse necessario” [9]. Come epilogo possiamo affermare che il Brasile sarà per gli Stati Uniti – come può osservarsi nell’analisi delle azioni tattiche e strategiche adottate dal potere brasiliano – un osso duro da rodere. Visto il suo alto grado di coscienza nazionale e l’alta qualità professionale del suo corpo diplomatico e militare, il Brasile non capitolerà facilmente.

Marcelo Gullo è Dottore in Scienza Politica e Magister in Rapporti Internazionali. Tra i suoi libri: “Argentina-Brasil: La gran oportunidad (altro…)

Uganda: grande esercitazione militare degli USA nella regione settentrionale

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Fonte: Global Research, 12 ottobre 2009 The East African

Nairob. Più di 1.000 soldati americani e dell’Africa orientale saranno impiegati nel nord dell’Uganda, la prossima settimana, con gli Stati Uniti che svolgeranno la loro più grande esercitazione militare in Africa di quest’anno.

Kenya, Tanzania, Uganda, Ruanda e Burundi invieranno ognuno fino a 150 soldati, che si uniranno ai 450 militari americani a Kitgum, per l’esercitazione del 16-25 ottobre nota come Natural Fire 10.

La decisione del luogo dell’esercitazione nel nord dell’Uganda solleva dubbi sul fatto che possa far presagire un nuovo assalto, supportato dagli USA, contro il Lord’s Resistance Army.

Natural Fire 10 coinvolgerà tiri reali nel settore, nonché operazioni di convoglio, controllo della folla e posti di controllo per veicoli, afferma l’US Army. E mentre il Magg. Gen. William B. Garrett III insisteva, recentemente, che l’esercitazione si concentra sulla formazione per gli aiuti umanitari, il comandante dell’esercito statunitense ha aggiunto che le forze che guiderà durante Natural Fire 10, saranno pronte a rispondere a qualsiasi minaccia alla sicurezza che possa sorgere nella regione di Kitgum.

L’amministrazione Obama è sollecitata da decine di membri democratici e repubblicani del Congresso, per intervenire a finirla con l’LRA.

Anche diverse organizzazioni non governative, con sede negli Stati Uniti, hanno invocato l’azione militare Usa per porre fine alle razzie del LRA.

Gli Stati Uniti hanno fornito un supporto operativo per una offensiva congiunta in Uganda – Congo Democratico – Sudan meridionale nello scorso dicembre, che mirava a catturare o uccidere il leader del LRA, Joseph Kony… Ma l’operazione, denominata Thunder Lightning, ha fallito i suoi obiettivi. Kony è sfuggito, e le sue forze si sono imbarcate in una follia omicida che ha provocato la morte di circa 1.000 abitanti di un villaggio congolese.

Naturale Fire 10 aveva anche lo scopo primario dichiarato, ma il tipo d’addestramento insegnato ai soldati dell’Africa orientale “è facilmente trasferibile a qualsiasi tipo di operazioni che i loro comandanti vogliano intraprendere“, osserva Daniel Volman, capo dell’organizzazioni non governativa, con sede a Washington, African Security Research Project.

L’esercitazione in Uganda del nord, inizierà una settimana dopo la conclusione di un’altra esercitazioni militare degli USA in Gabon.

Quasi 30 nazioni africane – comprese Kenya, Tanzania e Uganda – hanno partecipato a questa iniziativa incentrata sulle comunicazioni diretta dall’US Africa Command. Secondo Africom, l’esercitazione Endeavour Africa cercava di creare una rete di collegamento dei comandi degli eserciti africani e le strutture di controllo, al fine di prepararsi meglio alle operazioni congiunte.

Africom gioca anche un ruolo di coordinamento in Natural Fire 10, che sarà condotta da unità dell’esercito degli Stati Uniti in Africa, con base in Italia.

Insieme, queste esercitazioni vengono citate, dai critici di Africom, come ulteriori indicazioni di ciò che essi descrivono come la militarizzazione crescente della presenza americana in Africa.

Situare l’esercitazione in Uganda, riflette lo stretto rapporto militare che gli Stati Uniti sviluppano con questo paese dell’Africa orientale, dice Volman. Egli suggerisce che Washington apprezza anche la disponibilità dimostrata del presidente Yoweri Museveni di “affrontare qualsiasi critica” che possa sorgere in risposta all’Uganda che ospita una esercitazione militare a grande scala, guidata dagli USA.

I rifornimenti per Natural Fire 10 sono stati inviati, via nave, a Mombasa e poi trasportati via terra, in Uganda. Gli equipaggiamenti comprendono tre elicotteri CH-47 Chinook, che gli Stati Uniti usano solitamente per i movimenti delle truppe e le operazioni di approvvigionamento in battaglia. In un esperimento che sarà condotto durante Natural Fire 10, gli elicotteri saranno dotati di un dispositivo di navigazione stradale che funziona normalmente sulla terra.

L’esercito americano ha detto che i voli di prova previsto col dispositivo sono destinati a fornire forze sul terreno, con visione in tempo reale di strade e ponti, al fine di contribuire a rendere più veloce e più informato il trasporto via terrestre.

Traduzione di Alessandro Lattanzio
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Krajina serba. Violazione dei diritti delle minoranze nazionali nella Repubblica di Albania

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REPUBBLICA DELLA KRAJINA SERBA – GOVERNO IN ESILIO

11080 Zemun, Magistarski trg 3

No. 1093/09, 13 ottobre 2009

AI PRESIDENTI DI:

Repubblica di Serbia – S.E. Boris Tadic
Repubblica di Grecia – S.E. Karolos Papoulias
Repubblica di Cipro – S.E. Demetris Christofias
Repubblica di Macedonia – S.E. Djordje Ivanov
Repubblica Serba di Bosnia – S.E. Rajko Kuzmanovic
Repubblica di Montenegro – S.E. Filip Vujanovic

OGGETTO: Violazione dei diritti delle minoranze nazionali nella Repubblica di Albania

Eccellenze,

tenendo a mente gli sforzi dell’Europa per superare i postumi della Guerra Fredda ed eliminare le conseguenze delle divisioni europee risalenti alla Seconda Guerra Mondiale, noi vorremmo cogliere quest’opportunità per ricordarvi le questioni dei diritti delle minoranze nazionali che gravano i Balcani, più che ogni altra regione europea. Tali contrasti destabilizzano certamente le relazioni interstatuali ed ostacolano una possibile adesione all’UE dei paesi balcanici. La conseguenza negativa più evidente di siffatte questioni è l’universalmente nota questione della minoranza nazionale albanese nella Repubblica di Serbia che ha avuto i seguenti risultati:

-è stata la causa dell’aggressione della NATO alla Serbia e Montenegro nel 1999;

-le relazioni internazionali globali sono state gravate dall’obbligo dei Paesi membri dell’ONU di esprimersi riguardo il riconoscimento della dichiarazione incostituzionale ed illegale di uno Stato albanese in Kosovo e Metohija;

-l’attività del Consiglio di Sicurezza dell’ONU è stata paralizzata poiché Russia e Cina sono pronte a porre il veto riguardo la proposta americana di secessione del Kosovo e Metohija dalla Repubblica di Serbia.

Eccellenze,

noi vorremmo ricordarvi che il problema delle minoranze nazionali nei Balcani non è stato affrontato in maniera equanime per ogni paese coinvolto e per ogni minoranza nazionale interessata. I Balcani ed altri paesi europei sono in una posizione giuridica disperata perché la Repubblica di Albania non è in alcun modo costretta a garantire i diritti individuali e nazionali ai Greci, Macedoni e Serbi che vivono entro i suoi confini – ai Serbi in Albania, in particolare, giacché sono suddivisi in Serbi Ortodossi, Serbi Cattolici e Serbi Musulmani. Il numero di questi cittadini non è stato mai reso noto in Albania, ma quel che è certo è che Greci, Macedoni e Serbi assieme costituiscono una percentuale della popolazione maggiore rispetto a quella degli Albanesi del Kosovo rispetto alla popolazione totale della Serbia. Se il metodo imposto in Kosovo e Metohija dagli Stati Uniti venisse applicato in Albania, tali minoranze potrebbero chiedere la secessione dei loro territori dalla Repubblica di Albania.

Eccellenze,

con nostra sorpresa, lo status delle minoranze nazionali nella Repubblica di Albania non è mai stato discusso da One, UE, OCSE, Movimento dei Non Allineati… Nessun Paese balcanico ha sollevato la questione, nonostante i rappresentanti di Greci, Macedoni e Serbi abbiano subito tremende pressioni in Albania fin dal 1945. Costoro hanno patito intimidazioni palesi per tutta l’epoca comunista:

-rappresentanti di queste nazionalità vennero arrestati, ingiustamente processati, rimossi da importanti posizioni e spesso giustiziati;

-a Greci, Macedoni e Serbi fu negato il diritto di parlare le proprie lingue;

-non fu concesso loro di avere scuole, libri d’istruzione e giornali o programmi televisivi e radiofonici nelle loro lingue;

-parecchi dovettero dare nomi albanesi ai propri figli e rinunciare alla propria nazionalità;

-le storie di questi tre popoli vennero falsificate e cose che fecero i loro antenati vennero attribuite alla nazione albanese. Ad esempio, il nobile serbo medievale e ribelle contro l’occupazione turca, Djuradj Kastriotic – Skenderbeg venne spacciato per albanese.

Eccellenze,

ancor oggi Greci, Macedoni e Serbi non possono esercitare i loro diritti personali e nazionali nella Repubblica di Albania, il ché significa che i parametri europei sono violati. Le autorità albanesi hanno approvato l’apertura di scuole greche e macedoni, che è solo il primo passo nel riconoscimento dei diritti delle minoranze nazionali. Ma non c’è assolutamente segnale di intraprendere questo passo anche nei confronti della minoranza nazionale serba, la quale è rappresentata da Cristiani Ortodossi, Cattolici e Musulmani. Il Governo della Repubblica Serba di Bosnia vorrebbe perciò proporre che intensifichiate le vostre relazioni bilaterali con l’Albania, attraverso l’ONU ed altre organizzazioni internazionali, ed obblighiate la Repubblica di Albania ad applicare lo stesso principio nel caso dei Serbi di Albania. Sarebbe una cosa naturale che la Repubblica di Albania desse alle sue minoranze nazionali (Greci, Macedoni e Serbi) i diritti che vengono goduti dagli Albanesi risiedenti in Serbia, Macedonia e Grecia. Un tale passo da parte vostra rimuoverebbe automaticamente i conflitti esistenti fra Paesi e nazioni in Europa, e sarebbe un modello per risolvere le istanze delle minoranze nazionali e delle comunità religiose negli stati balcanici. Stabilizzerebbe di certo le relazioni interstatuali in Europa e rimuoverebbe le riserve che crescono in tutto il mondo nei confronti degli Stati Uniti. In maniera abbastanza sorprendente, gli USA tentano di fornire il territorio di uno Stato agli Albanesi del Kosovo, ma ciò non costituisce affatto un precedente per dare gli stessi diritti ai Serbi in Albania, vale a dire:

-scuole e università nella lingua madre;

-costituzione di partiti politici serbi;

-pubblicare libri e giornali, aprire TV e stazioni radio in lingua serba;

-usare simboli nazionali serbi, bandiere, stemmi, etc.

Eccellenze,

io spero che ci comprenderete e che le nostre proposte saranno accolte dalla comunità internazionale. Le nostre proposte parlano nello spirito di quei tanto spesso ricordati parametri europei che assicurano democrazia ed eguaglianza per tutti. Noi siamo convinti che le nostre richieste nei confronti della Repubblica di Albania ricorderanno agli statisti europei di come la Repubblica di Croazia abbia violato tutti i diritti della nazionalità serba che viveva in Croazia. Croazia, che era in precedenza fondata su due nazionalità costituenti (uno stato di Serbi e Croati), divenne uno stato monoetnico nel 1990, quando il suo Parlamento abolì i diritti della nazionalità serba costituente e la relegò a minoranza nazionale. Dopodiché, l’esercito croato invase la Repubblica della Krajina Serba (una zona protetta dall’ONU), espulse il popolo serbo e confiscò tutti i beni mobili ed immobili serbi.

Eccellenze,

considerando che le vostre autorità rifiutano di collaborare con i rappresentanti del popolo serbo in esilio dalla Repubblica della Krajina Serba, questa lettera può essere considerata una lettera aperta.

Milorad Buha, Primo Ministro

Rajko Lazaic, Presidente del Parlamento

(Traduzione a cura di Lorenzo Salimbeni)

Rassegna del cinema indiano all’IsIAO

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L’Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente
in collaborazione con
l’Ambasciata dell’India a Roma

presenta

Riflessi iridescenti dal grande schermo dell’India
(Rainbow of Indian Films)

Programma

Giovedì 22 ottobre ore 15.30
Jodhaa Akbar
regia di Ashutosh Gowariker, Hindi, 205 minuti, colore, 2008

Giovedì 29 ottobre ore 16.30
Sringaram
regia di Sharada Ramanathan, Tamil, 117 minuti, colore, 2006

Giovedì 5 novembre ore 16.30
Oru Pennum Randanum
regia di Adoor Gopalakrishnan, Malayalam, 115 minuti, colore, 2008

Giovedì 12 novembre ore16.30
Dosar
regia di Rituparno Ghosh, Bengali, 127 minuti, bianco e nero, 2006

Martedì 17 novembre ore 16.30
A Wednesday
regia di Neeraj Pandey, Hindi, 102 minuti, colore, 2008

Giovedì 26 novembre ore 16.00
Taare Zameen Par
regia di Aamir Khan, Hindi, 163 minuti, colore, 2008

Tutti i film sono in lingua originale con sottotitoli in inglese

La Rassegna intende offrire un panorama della filmografia indiana più recente, che si segnala per la varietà dei temi affrontati, l’ampia articolazione regionale della produzione, la diversità dei mezzi espressivi impiegati. Ne risulta un quadro preciso e documentato che testimonia la grande vitalità creativa di una cultura in grado di utilizzare al meglio il linguaggio cinematografico per celebrare la memoria di un glorioso passato e, al contempo, proporre un contributo di riflessione critica su aspetti problematici della società contemporanea.

Sala Conferenze dell’IsIAO
via Ulisse Aldrovandi, 16/a -  00197 Roma

tel. 06.32855234 -  pisa@isiao.it – www.isiao.it

Trame

Jodhaa Akbar
Jodhaa Akbar è la storia del grande imperatore Moghul dell’India, Jalaluddin Mohammad Akbar e di una fiera principessa Rajput, Jodhaa. Ambientato nel XVI secolo, questa epica storia d’amore ha inizio con l’alleanza matrimoniale tra due culture e religioni, quella islamica e quella hindu: per ragioni di convenienza politica, infatti, il re Bharmal di Amer offre la mano di sua figlia ad Akbar. Quando il giovane sovrano Moghul accetta la proposta non sa ancora che i suoi sforzi per consolidare le relazioni con i Rajput lo porteranno a conoscere il vero amore. Nel frattempo, sui campi di battaglia, egli si guadagna una gloria che diventerà leggendaria.

Sringaram (Danza d’amore)
Corre l’anno 1920. Madhura, la protagonista della storia, è la figlia della danzatrice del tempio di un remoto villaggio del Tamil Nadu, nel sud dell’India. Alla rinuncia della madre, Madhura è iniziata allo stesso ruolo che tradizionalmente compete alla sua famiglia, e partecipa a tutte le attività, sacre e profane, attinenti alla sua funzione. Madhura prova un crescente disagio nei confronti delle esigenze della società patriarcale locale, impersonata dal signore del villaggio, noto come il ‘Mirasu’, e decide di sfidare il sistema dall’interno, facendo ricorso alla propria sensibilità artistica e femminile. Kama, la seconda danzatrice del tempio e Kasi, il guardiano, rappresentano visioni del mondo contrastanti sia con quella di Madhura che con quella del Mirasu. Il film è ambientato in un periodo di transizione in cui tre fenomeni, al loro culmine, interagiscono: il movimento nazionalista, la società patriarcale e la danza.

Oru Pennum Randanum (Clima per delitti)
Il film è ambientato negli anni ‘40, nello stato di Travancore. La seconda guerra mondiale che si sta combattendo in Europa ha proiettato la sua ombra anche sull’India britannica. Beni di prima necessità come cibo, vestiti e petrolio scarseggiano. Crescita della disoccupazione e razionamento del grano affliggono la società. In questo contesto sono ambientate le quattro storie narrate dal film: reati commessi in eguale misura da poveri derelitti e privilegiati possidenti.

Dosar (Il Compagno)
Dosar è ambientato nel contesto urbano contemporaneo di Calcutta: Kaushik e Kaberi sembrano avere una vita coniugale felice. Un giorno, tuttavia, un incidente incrina il loro amore. L’infedeltà di Kaushik è allo scoperto e l’amore è messo a dura prova. Kaberi è combattuta tra l’amore, che nonostante tutto prova ancora per il marito, e il dolore: come sposa, vorrebbe vedere Kaushik nuovamente felice e in salute, ma come donna non riesce a perdonarsi di offrire cure e sostegno all’uomo che ha tradito la sua fiducia. Il film dipinge il modo in cui ciascun personaggio si confronta con le complessità della propria esistenza, nel tentativo di comprendere l’autentico significato di un ‘compagno’ (dosar, che dà ragione del titolo) con cui condividere la vita.

A Wednesday (Un mercoledì)
Mumbai capitale finanziaria dell’India, la città dei sogni, che non dorme mai, una città in perenne accelerazione, sempre mutevole, patria di Bollywood; Mumbai, piena di bellezza, ma anche di lati oscuri. A Wednesday è un thriller girato quasi in tempo reale, che narra alcune storie che si svolgono tra le 2 e le 6 di pomeriggio di un particolare mercoledì; eventi che non trovano posto in alcun registro, ma che toccano profondamente le vite di coloro che ne sono coinvolti. Prakash Rathod è un ispettore di polizia. Si trova nel suo ufficio, come ogni altro giorno, fino a che non giunge una telefonata da Man. Che cosa è accaduto e perché sono il nodo della storia, mantenuto come un segreto ben celato. C’è una ragione per cui questo caso non ha testimonianze scritte. Il caso non dovrebbe costituire un precedente.

Taare Zameen Par
Ishaan Awasthi è un bambino di 8 anni, la cui vita è piena di meraviglie che nessun altro sembra apprezzare: i colori, i pesci, i cani e gli aquiloni non sono cose importanti per i compagni, né, tanto meno, nel mondo degli adulti, che sembrano essere più interessati alla normale routine di tutti i giorni e alla concretezza dei risultati. Sembra proprio che Ishaan non riesca a fare una sola cosa giusta in classe e a casa; i genitori, con qualche resistenza della madre, lo spediscono in collegio. Le cose non vanno, però, diversamente nella nuova scuola e Ishaan aggiunge ai suoi problemi il trauma della separazione dalla famiglia. Ma, finalmente, entra in scena Ram Shankar, il nuovo insegnante di arte, che trasmette allegria e vitalità, chiedendo ai ragazzi di pensare, immaginare e creare. Tutti rispondono con entusiasmo, tranne Ishaan. Il maestro si domanda il perché: cerca e, infine, comprende che cosa c’è che non va. A questo punto, la storia assume un ritmo esaltante che porta rapidamente a un inatteso happy end.

South Stream +North Stream Vs Nabucco+Ambre

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Fonte: ripensaremarx

Su questo blog (ripensaremarx) abbiamo spesso parlato del gasdotto South Stream, progetto di pipeline russo-italiano (con il coinvolgimento dei due colossi nazionali del settore degli idrocarburi quali sono Gazprom ed Eni), che partendo dalla stazione di compressione di Bregovaya, sulla costa russa del Mar Nero, passerà sotto le profondità marine lungo 900 Km raggiungendo, in alcuni punti, i 2000 metri sotto la superficie del mare, per sbucare in territorio bulgaro. Da qui poi il sistema di dotti si diramerà in due propaggini, una a sud che transitando per la Grecia sfocerà a Otranto, in Puglia, ed una a nord che attraversando paesi come la Bulgaria, l’Ungheria, la Serbia e la Slovenia sboccherà infine nel nord – Italia.

Vi sono ormai solo poche incertezze sulla possibilità di rendere operativo questo gasdotto (entro il 2015 sarà in grado di trasportare 63 mld di metri cubi di gas), sia in termini infrastrutturali che per quantità di materia prima da far passare nei tubi, garantendo così la massima profittabilità degli investimenti e le economie di scala.

In concorrenza a questo progetto se ne è sviluppato uno alternativo, il Nabucco, voluto dall’Austria, dalla Turchia, dalla Bulgaria, dalla Romania, dall’Ungheria, dalla Germania le quali hanno costituito il Consorzio Gmbh con l’appoggio della Comunità Europea e dell’amministrazione statunitense.

Questo sistema di dotti, sulla cui fattibilità nutrono dubbi gli stessi paesi produttori (come alcune repubbliche caucasiche che sono, al tempo stesso, partner commerciali di Mosca e che non dispongono delle quantità necessarie per rifornire i tubi di entrambi i clienti) è divenuto strategico più per motivi geopolitici che per ragioni prettamente economiche.

Difatti, gli Usa temono che la dipendenza energetica dell’Europa da Mosca possa veicolare istanze politiche antistatunitensi nel Vecchio Continente, mandando in frantumi quella “linea Maginot”, pazientemente costruita all’indomani della caduta dell’URSS, pensata soprattutto per isolare la terra degli zar tanto dall’UE che dal suo estero prossimo (destabilizzato con le numerose rivoluzioni colorate). A testimonianza del dato che il Nabucco segue queste regole geopolitiche piuttosto che quelle economiche si possono portare le affermazioni di Vitaliy Baykarbayov, vice-presidente della SOCAR (State Oil Company of Azerbaijan Republic), impresa di un paese che dovrebbe contribuire ad alimentare le sue pipelines: “Nabucco était un projet sans base légale. C’était simplement un consortium de compagnies qui avaient réuni leurs ressources pour ce projet. Il ne pouvait ni faire de proposition sérieuse, ni prendre d’engagement quant à la capacité de transport. Désormais, des accords intergouvernementaux ont établi certaines règles pour soutenir ce projet[2], mais il faut encore beaucoup de travail avant qu’il ne se concrétise. Des accords sur les modalités et les capacités de transport sont nécessaires avec les pays producteurs et transporteurs ainsi qu’avec des compagnies de construction et les banques qui le financent.[1]

Traditi i principi del liberismo da quegli stessi personaggi che per anni ci hanno propinato i loro dogmi sulla sovranità assoluta del mercato, oggi veniamo rieducati sugli scopi dell’iniziativa economica che può anche contemplare la rinuncia agli investimenti sicuri laddove essi non coincidono con gli interessi della super potenza americana.

Stessa situazione si sta verificando con il gemello nordeuropeo del South Stream, il progetto russo-tedesco North Stream. Anche quest’ultimo gasdotto approvvigionerà l’Europa con il gas di Mosca grazie ad un tubo sottomarino che collegherà direttamente  la Russia alla Germania. Ma la partnership tra quest’ultimi due paesi si trova sempre più in difficoltà, a causa dell’azione di alcuni stati membri dell’Ue ( Polonia in primo luogo, ma anche Estonia, Lettonia, Lituania) che percepiscono ogni iniziativa di Mosca come un tentativo per riappropriarsi di quella sfera strategica frantumatasi con la dissoluzione dell’Unione Sovietica.

La materia prima di questo gasdotto sarà prelevata dai giacimenti di Ioujno-Rousskoe e da Shtokman[2] (nel mar di Barents) e trasporterà gas, per 1200 km da Vyborg in Russia a Greifwald in Germania. Il progetto doveva essere concluso già nel 2010 ed i soci russi hanno lavorato intensamente, sul loro versante, per rispettare questa data. I problemi maggiori sono sorti invece sul troncone marittimo, ma non si è trattato esclusivamente di un fatto tecnico. In effetti, ciò che più ne ostacola la realizzazione è la posizione intransigente degli stati summenzionati che stanno tirando in ballo una serqua di pretesti per far fallire, o almeno ritardare, il programma del Consorzio Nord Stream AG. Questi Stati hanno, per esempio, proposto una alternativa al progetto russo-tedesco, il gasdotto Ambre che invece viaggerebbe sulla terra ferma e raggiungerebbe in ogni caso la Germania, ma ovviamente passando dal loro territorio.

Ma è su un altro tema che i paesi da poco entrati a far parte dell’UE giocano le loro chances di avere ancora un ruolo centrale nella partita energetica, quello dell’impatto ambientale. Il Parlamento europeo ha ricevuto nel 2008 una petizione proposta dalla “banda dei quattro” che lo ha spinto ad adottare una risoluzione sull’impatto ambientale dell’opera, demandando ad una Commissione indipendente le valutazioni del caso. Adesso, il Consorzio dovrà dimostrare che le attività di costruzione delle condutture non comportano il pericolo di un disastro naturale, sottraendo tempo prezioso alla realizzazione effettiva del progetto. Non è difficile capire che Polonia, Lituania, Estonia e Lettonia, più che ispirate dagli alti principi della salvaguardia dell’ecosistema sono ancor più preoccupate di perdere quel ruolo di spina nel fianco nei confronti della Russia affidato loro dalle corrotte burocrazie Ue e dagli stessi USA.

Non per niente il più acerrimo nemico del North Stream è la Polonia. E’ stato proprio questo paese a mettersi di traverso alla candidatura del finlandese Paavo Lipponen, che avrebbe dovuto sostituire Javier Solana nel ruolo di alto rappresentante della diplomazia europea, in ragione della collaborazione offerta dalla Finlandia al Consorzio russo-tedesco artefice del North Stream.

Inoltre, nonostante l’Ue abbia più volte dichiarato la strategicità dell’impianto non ha mai versato un euro per favorire la sua attuazione, mentre si è dimostrata più generosa col Nabucco, il gasdotto senza gas che attira gli investimenti “oculati” dei nostri organi unitari.

Dalla descrizione di questa situazione emerge l’incapacità dell’Ue di dotarsi di una linea d’azione concordata su un settore fondamentale come quello energetico. Anzi, gli organismi europei quando mettono becco in questi affari è solo per ostacolare quegli Stati nazionali che, in assenza di una politica sovrastatale comunitaria, agiscono per almeno salvaguardare i loro immediati interessi economici. E c’è, stante l’attuale spappolamento politico dell’UE, da essere ancor più preoccupati poiché con l’entrata in vigore del famigerato trattato di Lisbona le alte gerarchie europee pretenderanno di gestire, senza nessuna visione propria, la politica energetica di tutti i paesi membri. Chi ci guadagnerà da questo deserto strategico europeo? Certamente gli Usa i quali, grazie alle nostre debolezze, continueranno a controllare il nostro continente, ostacolando il raggiungimento di quegli obiettivi volti all’accrescimento della potenza necessaria per muoversi adeguatamente nella fase multipolare. Nei prossimi giorni tradurremo un bel dossier sul gas e sugli interessi geopolitici che ruotano intorno a tali problematiche, per ora questo assaggio può essere sufficiente.


[1] Nabucco era un progetto senza base legale. Era semplicemente un consorzio di società che avevano riunito le loro risorse per questo progetto. Non poteva né fare proposte serie, né prendere impegni quanto alla capacità di trasporto. Ormai, accordi intergovernativi hanno stabilito alcune norme per sostenere questo progetto (2), ma occorre ancora molto lavoro prima che si concretizzi. Accordi sulle modalità e le capacità di trasporto sono necessari con i paesi produttori e trasportatori come pure con società di costruzione e le banche che lo finanziano. Entretien avec Vitaliy Baykarbayov, vice-président adjoint de la SOCAR Dossier : “Dépendance énergétique à la Russie” di Alix DRUGEAT – Revue: Regard sur l’est

[2] Dal sito fondionline: “Shtokman è un giacimento gigante scoperto nel 1988 a est di Murmansk, nel del Mare di Barents, a circa 550 chilometri dalla terraferma, oltre il circolo polare artico. Si trova ad una profondità di circa 2.000 metri, in un punto in cui le acque dell’Oceano Artico si inabissano fino a 320-340 metri. La zona è soggetta al passaggio di iceberg che possono raggiungere anche un milione di tonnellate di peso.

Shtokman contiene 3.200-3.700 miliardi di metri cubi di gas naturale, più altre 31 milioni di tonnellate di cosiddetto “condensato” (idrocarburi liquidi che possono essere raffinati tramite appropriati processi chimici). Per sviluppare questa grande riserva di gas naturale serviranno circa 50 miliardi di dollari. La durata commerciale del giacimento è stimata in 50 anni, ad un tasso di produzione annua pari a circa 70 miliardi di metri cubi di gas e a 600mila tonnellate di condensato”.

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